Lettera di Margherita Leone (Presidente della Sezione lavoro Tribunale di Roma) e Amelia Torrice (Presidente della Sezione lavoro della Corte di Appello di Roma), pubblicata su Lavoce.info il 12 marzo 2012, a seguito dell’articolo di Andrea Ichino e Paolo Pinotti pubblicato sul Corriere della Sera del 3 marzo 2012 – Segue la replica degli stessi Andrea Ichino e Paolo Pinotti – Allo stesso articolo hanno risposto anche Pietro Martello con lettera pubblicata sul Corriere della Sera il 7 marzo 2012, Carla Ponterio e Roberto Riverso con lettera pubblicata su Lavoce.info il 6 marzo 2012
LA LETTERA DI MARGHERITA LEONE E AMELIA TORRICE
L’articolo dei prof A. Ichino e P. Pinotti, apparso nei giorni scorsi sul Corriere della sera e su Lavoce. Info, ci impone di intervenire nel dibattito che ne è seguito, perchè con Andrea Ichino, Nicola Persico e Decio Coviello abbiamo lavorato insieme, per circa due anni, allo studio (da parte dei professori), dei dati delle cause di lavoro del Tribunale e della Corte di appello di Roma, ed alla applicazione (da parte nostra) nelle udienze, dei metodi, dei criteri e delle “regole” desumibili dalle analisi svolte.
I dati di base sono stati messi a disposizione dei Professori dai Presidenti della Corte di Appello di Roma e del Tribunale di Roma, nell’ambito di un progetto di approfondimento promosso e seguito dall’Ufficio della Formazione decentrata di Roma, e diretto a studiare le modalità organizzative del giudice del lavoro, al fine di realizzare tempi processuali più veloci, con conseguenti ricadute sul numero delle controversie esaurite e sulla qualità delle decisioni.
Le sperimentazioni svolte nei due uffici hanno coinvolto 6 magistrati in Corte di Appello e 12 in Tribunale; in Corte di Appello la sperimentazione si è sostanzialmente conclusa e sono in corso di studio i suoi risultati, mentre presso il Tribunale è ancora in corso.
Non possiamo ancora offrire dati certi, ma è certa, per noi, la validità della scelta di collaborazione e di confronto con professionalità differenti rispetto a quella del magistrato che possono offrire prospettive e metodi della organizzazione del lavoro, utili per migliorare la qualità del servizio che la giustizia del lavoro è chiamata ad assicurare.
Entrando nel merito dell’articolo, al di là delle valutazioni sulla incandescente materia dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori sulle quali non vogliamo soffermarci, riteniamo necessario evidenziare che ci sembra profondamente sbagliato, sotto il profilo sia del metodo che del merito, rappresentare all’opinione pubblica una analisi fondata su un campione di cause (ridotto), delle quali non si conosce altro che l’oggetto (licenziamento) e la decisione finale.
Consapevoli del fatto che elaborazioni effettuate secondo prospettive economiche rispondono a regole di misurazione e di valutazione proprie della disciplina, a nostro modo di vedere l’analisi e le conclusioni esposte nell’articolo del Prof. A. Ichino trascurano importanti elementi qualitativi che caratterizzano le diverse decisioni in materia di licenziamento.
Non ci sembra utile, infatti, una analisi che su questa delicata materia si fonda su “casi simili”, sottoposti a giudici diversi e ne mette in evidenza solo il differente “decisum” ed il differente tempo di definizione in relazione alla diversità del giudice ma omette di approfondire i fatti, le circostanze controverse, le regole processuali e sostanziali applicate.
Trascurando questi elementi si perde la varietà della fenomenologia processuale e così quasi tutte le case di licenziamento possono risultare “simili” (sarebbe come dire che “ di notte tutti gatti sono neri”).
Ulteriore puntualizzazione merita la tesi del prof. Ichino sui diversi “approcci” del giudice rispetto alla decisione da assumere, dubbi che lo portano a paragonare il processo ad una roulette russa.
Non intendiamo negare il problema degli orientamenti e dei disorientamenti giurisprudenziali che spesso vengono percepiti come “irragionevoli” all’esterno. Tutto questo è noto, è studiato ed è anche considerato dal nostro ordinamento giudiziario che impone riunioni per il confronto e per la riflessione tra i magistrati, nella prospettiva della formazione di orientamenti comuni, condivisi, ovvero per evitare disorientamenti inconsapevoli. D’altra parte, la funzione della nomofilachia attribuita alla Corte di Cassazione dà per scontata la possibilità di orientamenti giurisprudenziali difformi.
Al prof Ichino va però ricordato che i contrasti giurisprudenziali, sono anche ragione della costruzione costituzionale della giurisdizione come potere diffuso. Quei contrasti sono stati il motore della affermazione di importanti principi di diritto; hanno consentito l’emersione di nuovi interessi successivamente riconosciuti nel nostro ordinamento giuridico ed anche nel diritto eurounitario. Il catalogo dei diritti presenti nella Carta di Nizza e la lettura che di essi fa la Corte di Giustizia, deve molto alle evoluzioni ed alle contrastanti applicazioni ed interpretazioni del diritto da parte dei giudici nazionali.
Abbiamo imparato molte cose lavorando insieme ai professori-economisti.
Speravamo di essere state capaci, nel corso della nostra collaborazione e dello studio di dati e regole processuali, di spiegare che la realtà del processo e della giurisdizione è molto articolata e complessa, e che da tale complessità non può prescindere una analisi rigorosa che si ponga un obiettivo di reale utilità.
KK
LA REPLICA DI ANDREA ICHINO E PAOLO PINOTTI
Ringraziamo la Dr. Margherita Leone e la Dr. Amelia Torrice per il loro importante contributo al dibattito originato dal nostri articoli sul Corriere e su Lavoce.info. Stiamo imparando moltissimo da questo dibattito grazie ai magistrati che vi stanno partecipando, dedicandovi tempo prezioso. Siamo molto grati a loro e speriamo che questo dibattito possa essere loro utile come lo è a noi economisti. Certamente non per avere l’ultima parola, ma solo per continuare questa fertile interazione interdisciplinare, proponiamo le riflessioni che il commento di Leone e Torrice ci hanno suggerito.
Ridurre la variabilità dei tempi di decisione dei giudici di una stessa sede attraverso la concentrazione del processo e una migliore organizzazione dell’agenda delle udienze, è l’obiettivo primario delle sperimentazioni (alle quali Andrea Ichino lavora insieme a Nicola Persico e Decio Coviello) iniziate presso la Corte d’Appello e il Tribunale di Roma grazie all’eccezionale impegno e disponibilità a mettersi in gioco di alcuni magistrati romani, tra cui in particolare le dottoresse Leone e Torrice. La durata media dei processi di un ufficio, infatti si può ridurre soprattutto diminuendo le durate di maggiore entità dei singoli magistrati. Quindi, in questo caso, ridurre la variabilità significa anche ridurre la durata media dei processi.
In qualsiasi campo dell’attività umana individui diversi si comportano in modi diversi. Perché allora porre il problema per i giudici? Normalmente, è difficile misurare quanto della variabilità osservata nei risultati dipenda dalla variabilità dei comportamenti individuali o dalla variabilità dei compiti a assegnati agli individui. Nel caso dei giudici di una stessa sede, però, i processi sono essenzialmente assegnati a sorte proprio per assicurare il rispetto dell’art. 25 della Costituzione. Per la Legge dei Grandi Numeri, questo implica che gli insiemi di casi assegnati a giudici diversi siano “simili”, ma non nel senso che “di notte tutti i gatti sono neri”.
Supponiamo di avere un processo “Testa” e un processo “Croce” e di assegnarne il primo a Ichino e il secondo a Pinotti: essi quindi dovranno lavorare su processi diversi tra loro, che potrebbero evidentemente originare, in modo del tutto giustificato, tempi di decisione ineguali. Supponiamo invece di avere 100 processi ciascuno dei quali possa essere – con pari probabilità – di tipo “Testa” o di tipo “Croce”. Se ne assegnamo “a caso” 50 a Ichino e 50 a Pinotti, ciascuno di loro avrà circa 25 processi “Testa” e 25 processi “Croce”. Quindi, anche se i processi continuano ad essere distinti in due categorie (i gatti possono essere bianchi o neri), Ichino e Pinotti hanno complessivamente una quantità e qualità di lavoro comparabili. Se i loro tempi di decisione differiscono, il motivo non può essere il carico di lavoro, ma solo il loro modo di lavorare. Nulla cambia in questo ragionamento se i processi, invece di essere “monete a due facce” sono “dadi a 6, 12, 24 o N facce”.
Dal punto di vista del cittadino che va in giudizio, questa situazione genera una variabilità casuale di risultati analoga a quella del paziente che venga assegnato a caso al medico di un pronto soccorso o a quella dello studente che non possa scegliere il docente da cui imparare. Qualsiasi organizzazione, però mira a ridurre queste variabilità, proprio perchè costose per il cittadino, se il cittadino non può scegliere da chi farsi servire.
Come già detto, le sperimentazioni in corso a Roma hanno proprio come obiettivo di ridurre la variabilità nei tempi cercando di trovare, insieme ai giudici, i modi organizzativi più efficaci per diminuire soprattutto le durate più lunghe, dato ovviamente non si può comprimere ciò che invece è già ai minimi possibili.
Per quel che riguarda invece la variabilità delle decisioni, le Dr. Leone e Torrice ci ricordano che i magistrati già mettono in campo strategie finalizzate alla “formazione di orientamenti comuni, condivisi” e che comunque la Cassazione (seppure in tempi ancor più lunghi) dovrebbe assicurare l’uniformità dei risultati finali a parità di fattispecie. Ne prendiamo atto: ecco un esempio di quello che anche noi stiamo imparando da questa eccezionale interazione tra discipline.
Ma, almeno per quel che riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, esiste anche un altro modo di risolvere il problema. Ed è quello di non ricorrere al magistrato per queste controversie e di istituire, invece, un filtro automatico, costituito da un costo per l’impresa pari alla perdita futura la cui previsione si ritiene possa giustificare il licenziamento, lasciando al giudice il solo controllo – questo si davvero insostituuibile – circa l’eventuale motivo occulto discriminatorio o comunque illecito. La valutazione dell’esistenza di un giustificato motivo oggettivo è paradossalmente … molto soggettiva, e certamente non dipendente da sofisticate valutazioni di tipo giuridico, dato che la legge non dice proprio nulla su che cosa sia un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ossia non dice: “se la perdita attesa dall’impresa per la prosecuzione del singolo rapporto è X allora il licenziamento è giustificato, mentre se è meno di X è ingiustificato”. La perdita X sarà giudicata sufficiente per il licenziamento da qualche giudice e insufficiente da altri (per non dire della ineliminabile aleatorietà di qualsiasi “accertamento” – che in realtà sarebbe una valutazione “prognostica”, avente per oggetto un evento futuro: la perdita attesa, appunto).
In questi casi, dunque, la variabilità di decisioni è inevitabile, essendo dovuta all’oggetto stesso della decisione. Almeno per questi casi ci sembra che valga la pena di riflettere sull’opportunità di sostituire il ricorso al giudice con altri strumenti, come quelli peraltro in uso normalmente in altri paesi: i cosiddetti “severeance payments”. Ossia trasferimenti monetari, elevati a discrezione del legislatore, che l’impresa deve effettuare a vantaggio del lavoratore per poter sciogliere il rapporto evitando una controversia giudiziale.
Non siamo sicuri che questo metodo sia preferibile, ma suggeriamo ai magistrati e al legislatore che, almeno per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa essere preso in seria considerazione come ipotesi da valutare. Se non altro perché cosí accade in molti altri paesi. E nella valutazione circa i pro e i contro di questa soluzione rispetto alla disciplina attuale della materia ci sembra che sia indispensabile l’evidenza fornita da ricerche come quella resa possibile dalla disponibilità dei dati sul funzionamento degli uffici giudiziari.
KKK