FONDATA SUL LAVORO, NON SUI PRIVILEGI

I DIVERSI SIGNIFICATI CHE IL TERMINE LAVORO ASSUME NELLA COSTITUZIONE ITALIANA E I PRINCIPI CHE ESSA DETTA IN RIFERIMENTO A CIASCUNO DI ESSI

Intervista a cura di Dino Messina, pubblicata nel libro Salviamo la Costituzione italiana, Bompiani, 2008, pp. 123-145

Che cos’è, precisamente, il “lavoro” su cui l’articolo 1 della nostra Costituzione fonda la Repubblica?
È un concetto molto ampio: se leggiamo l’articolo 1 insieme all’articolo 4   che garantisce al cittadino la più ampia libertà di scelta del come rendersi utile al Paese   vediamo che in questo concetto non sono comprese soltanto tutte le figure tradizionali del lavoro subordinato e di quello autonomo, ma anche l’attività dell’imprenditore che valorizza il lavoro altrui, nonché qualsiasi altra attività umana, purché in qualche modo e misura «concorra al progresso materiale o spirituale della società», quale che sia la forma contrattuale utilizzata per metterla a frutto. Anzi: ci può essere il «lavoro» di cui parlano l’articolo 1 e l’articolo 4 anche se non c’è nessun contratto.

Per esempio?
Per esempio, anche l’attività di milioni di volontari, desiderosi soltanto di porsi gratuitamente al servizio del prossimo; il lavoro casalingo e quello dell’allevamento dei figli da parte dei genitori; il lavoro dello scrittore, del pittore o del musicista, anche quando essi non si curino di vendere i frutti della propria arte; persino la meditazione e la preghiera del monaco, che non sono — o almeno non dovrebbero essere — oggetto di mercato: tutto questo si può considerare a pieno titolo «lavoro» su cui la Repubblica italiana si fonda e «lavoro» che adempie il dovere gravante su ciascun cittadino a norma del secondo comma dell’articolo 4.

Che cosa vuol dire esattamente l’articolo 1, al di là della retorica, quando stabilisce che il lavoro è il “fondamento” della Repubblica?
Vuol dire che la Repubblica assume come proprio “fondamento” non un diritto regale o nobiliare, non una “sovranità” che viene dal di fuori o da sopra, ma il contributo che ciascun cittadino dà al benessere collettivo con il suo agire personale. In questo si esprime anche il rifiuto di tutti i privilegi di casta, di classe o di ceto sociale che nel corso dei secoli passati si sono manifestati soprattutto nell’esenzione dal lavoro; e si esprime al tempo stesso la scelta di attribuire valore prioritario alla capacità e alla volontà della persona — qualsiasi persona, quali che ne siano le origini sociali, il censo, la dotazione culturale — di aprirsi al rapporto di cooperazione con i propri simili, di porsi al servizio del prossimo.

Nell’art. 3 compare invece il termine «lavoratori». Qui la nozione si fa più specifica?
Probabilmente sì: i «lavoratori» dei quali l’articolo 3 stabilisce che deve essere promossa l’«effettiva partecipazione … all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» devono essere intesi in un senso un po’ più specifico: qui il legislatore costituente ha inteso indicare soprattutto i lavoratori che non posseggono i mezzi di produzione, o comunque quelli che operano in condizioni di dipendenza economica, che in passato sono sempre stati soggetti a un potere dal quale erano drasticamente esclusi.

È un’idea ancora attuale, questa del lavoro come centro del sistema, o è soltanto il prodotto di un’ideologia ormai superata?
In questa idea che la libera cooperazione per il benessere collettivo, in qualsiasi forma, sia la condizione necessaria per l’accesso a una cittadinanza piena possiamo vedere il convergere e saldarsi delle tradizioni ebraico-cristiane con quelle di matrice laico-socialista. Uno dei grandi meriti della nostra Costituzione sta nel saper prendere e fondere insieme il meglio di tutte queste grandi tradizioni culturali. Certo, se la Costituzione fosse stata scritta oggi molto probabilmente essa avrebbe sancito anche alcuni diritti fondamentali del consumatore (o utente di servizi) in quanto tale: per esempio il suo diritto a un’informazione piena e corretta, la protezione contro ogni forma di rendita monopolistica. Anche questi diritti sono importantissimi, perché, mentre non tutti i cittadini sono lavoratori, invece tutti i cittadini sono consumatori e utenti di servizi. E oggi si assiste qualche volta, soprattutto nel settore pubblico, a degli squilibri di protezione a vantaggio del cittadino in quanto lavoratore, a danno del cittadino in quanto utente o consumatore. Resta il fatto, però, che il lavoro umano, inteso come cooperazione libera e solidale al benessere di tutti, conserva ancora – e guai se lo perdesse   un valore costituzionale in qualche modo diverso e sovraordinato rispetto al consumo e ai beni materiali.

Ritiene che possa considerarsi attuato il principio del “diritto al lavoro” di cui parla l’articolo 4?
Su questo piano l’Italia non ha affatto le carte in regola. Essa è tra i Paesi europei dove la disoccupazione “di lunga durata” costituisce la parte maggiore, quasi due terzi, rispetto al totale della disoccupazione: questo significa che due disoccupati italiani su tre sono permanentemente tagliati fuori dal lavoro, nei fatti si vedono stabilmente negato quel diritto. E la cosa paradossale è che questa pessima “qualità” della nostra disoccupazione dipende da una cattiva interpretazione proprio del principio del “diritto al lavoro” sancito dall’articolo 4: in nome di quel principio si è infatti ecceduto nella protezione della stabilità del lavoro regolare; e una conseguenza di questo eccesso è la maggiore difficoltà che i disoccupati e gli irregolari incontrano per uscire dalla loro condizione.

È quello che gli economisti chiamano “conflitto di interessi fra insider e outsider”?
Sì, il modello insider/outsider coglie un aspetto importante della realtà del mercato del lavoro, anche se non la esaurisce tutta. Più l’insider è inamovibile, più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per l’outsider, per quelli che stanno ancora fuori della “cittadella”.

Oggi, comunque, il numero dei disoccupati in Italia è tornato a livelli notevolmente bassi, anche rispetto ad altri grandi Paesi europei come la Francia e la Germania.
Sì; ma non bisogna dimenticare che i veri grandi esclusi dal lavoro non sono soltanto i disoccupati permanenti, cioè quelli che dichiarano di essere alla ricerca di un lavoro e vengono censiti come tali, ma soprattutto i milioni di italiani che potrebbero lavorare ma non ci provano neppure, non cercano un’occupazione perché sanno che non ne troverebbero una adatta alle loro esigenze e capacità: questi non figurano nelle statistiche della disoccupazione, ma sono molti milioni. E la percentuale di questi in Italia è molto più alta rispetto a quasi tutti gli altri grandi Paesi europei.

Quanti sono?
Se in Italia lavorasse la stessa percentuale di cittadini che lavorano in Gran Bretagna, avremmo oltre 5 milioni di italiani occupati in più, rispetto ai 22 milioni e mezzo di oggi. Di questi 5 milioni di “assenti dal mercato del lavoro”, certo, una parte svolge per propria scelta attività “fuori mercato”, non censite dall’Istat come “lavoro”; ma resta il fatto che i nostri “assenti dal mercato del lavoro” sono patologicamente troppo numerosi.

Nel titolo III, dedicato ai rapporti economici, l’articolo 35 dice che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”. E l’articolo 32 sancisce il “diritto alla salute” del cittadino. Che cosa significano questi principi, dopo incidenti come quello alla Thyssen Krupp?
Le leggi italiane in materia di sicurezza e igiene del lavoro sono allineate agli standard comunitari europei, che sono tra i più avanzati del mondo. Il problema è che in questo come in altri campi il tasso di effettività della legge, in Italia, è patologicamente basso rispetto agli altri Paesi europei. Nel caso della Thyssen Krupp abbiamo addirittura visto i dirigenti di un’impresa multinazionale disapplicare in Italia misure di sicurezza sancite da direttive comunitarie che la stessa impresa applica rigorosamente in Germania. Questo deve farci riflettere. Il tasso insufficiente di applicazione della legge che caratterizza il sistema italiano, del resto, mina le fondamenta non soltanto del diritto alla salute e all’integrità dei lavoratori in azienda, ma di tutti i diritti della persona sanciti dalla Costituzione.

Secondo l’articolo 36 il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. Che senso ha inserire un tale principio nella Costituzione?
Dai lavori preparatori risulta evidente come questa norma sia stata il frutto della convergenza tra le istanze dei costituenti di parte socialista e comunista e le istanze dei democristiani progressisti, quelli tra i cattolici che si facevano portatori della lettura più incisiva e «interventista» della dottrina sociale cattolica. La norma nasce dunque dall’incontro fra le due correnti di pensiero che più di ogni altra, intorno alla metà del secolo scorso, attribuivano un ruolo rilevante allo Stato o alla coalizione sindacale nella determinazione e incremento degli standard di trattamento dei lavoratori.

Chi sono stati i protagonisti principali di questa convergenza?
Il suo momento più significativo consiste nell’accordo tra l’esponente della sinistra democristiana Dossetti e il segretario del partito comunista Togliatti per la presentazione di un emendamento il cui significato, secondo le loro intenzioni, è proprio quello di segnare una svolta rispetto all’atteggiamento tradizionale di neutralità dello Stato circa le dinamiche del mercato del lavoro. Alla formulazione originaria della norma, secondo la quale «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve corrispondere alle necessità fondamentali dell’esistenza del singolo e della sua famiglia», l’emendamento propone di sostituire: «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare l’esigenza di una esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia».

Qual è esattamente il significato di questo emendamento, che viene poi approvato?
È lo stesso Dossetti, nel dibattito alla Costituente, a indicare esplicitamente la ragion d’essere essenziale di questa formulazione della norma nell’esigenza di impegnare la Repubblica a un’azione di promozione della crescita del tenore di vita dei lavoratori: «dire semplicemente necessità fondamentali dell’esistenza del singolo e della sua famiglia è troppo poco e lascia aperta la strada a interpretazioni restrittive»; egli fa poi presente, nello stesso intervento, «come finora si sia vissuti in una società in cui le esigenze fondamentali di vita sono state sempre considerate in senso restrittivo, onde è stato possibile che vaste masse di lavoratori fossero insufficientemente compensate»; per osservare infine che «risponde alla struttura economico-sociale del nostro sistema orientare l’economia verso retribuzioni del lavoro che non siano soltanto rispondenti alle esigenze della vita, quali possono essere quelle del vitto, della casa, del vestiario, ma anche alle esigenze dell’esistenza libera e perciò degna dell’uomo» … «avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro in modo che il suo frutto sia adeguato alla dignità e alla libertà dell’uomo» … «Tali principi programmatici … serviranno almeno a una progressiva elevazione delle condizioni di lavoro nel prossimo avvenire».

Tutto questo attivismo statale per difendere e incrementare i livelli retributivi, però, poi non si è visto.
Nell’intendimento originario del legislatore costituente vi era certamente la prospettiva di un intervento statuale correttivo dei risultati prodotti dal libero mercato, in funzione della progressiva elevazione delle condizioni di vita della classe operaia. La norma, tuttavia, per il modo in cui è stata formulata, lascia indeterminata la scelta non soltanto sul come (ad es.: fissazione di tariffe minime per via legislativa o per via amministrativa), anche la scelta sul se dell’intervento stesso. Il legislatore ordinario, dal canto suo, nei primi sessant’anni di applicazione della norma costituzionale ha esercitato la discrezionalità che la norma stessa gli ha attribuito astenendosi dallo svolgere direttamente qualsiasi azione di sostegno o incremento dei livelli retributivi e limitandosi a operare, dalla fine degli anni ’50 in poi, per l’applicazione generalizzata degli standard negoziati in sede collettiva e a offrire, dalla fine degli anni ’60 in poi, un cospicuo sostegno all’attività delle organizzazioni sindacali maggiori nei luoghi di lavoro. In altre parole, lo Stato ha affidato per intero alle organizzazioni sindacali quel compito di promozione della «progressiva elevazione delle condizioni di lavoro» attraverso una determinazione adeguata dei minimi retributivi, che l’art. 36 gli avrebbe consentito di svolgere direttamente.

Insomma, alla luce di quella norma costituzionale, oggi in Italia si fa troppo o si fa troppo poco per aumentare e difendere il livello delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti?
La norma impone, in sostanza, che vengano corrette efficacemente le distorsioni del mercato del lavoro che consentono al datore di lavoro di godere di una rendita ai danni dei propri dipendenti; ma se si va oltre la correzione delle distorsioni si rischia di fare danni proprio alla parte sociale che si vuole proteggere (qui torna, per esempio, il discorso sul possibile conflitto di interessi fra insider e outsider). La norma non impone affatto che si aderisca alla dottrina della retribuzione come “variabile indipendente” del sistema economico. D’altra parte, il fenomeno generale della inferiorità delle retribuzioni italiane rispetto a quelle degli altri Paesi europei maggiori, evidenziata negli ultimi anni dal sistema monetario unico, non può spiegarsi interamente, e neppure per la maggior parte, come effetto di una distorsione del nostro mercato del lavoro.

Come lo si spiega, allora? E, soprattutto, come si deve agire per adempiere il precetto costituzionale?
Sicuramente servizi migliori nel mercato del lavoro rafforzerebbero i lavoratori, li renderebbero più capaci di scegliere e quindi contrattualmente più forti nei confronti dei datori di lavoro. Ma ciò che conta di più per far crescere stabilmente e diffusamente le retribuzioni è far aumentare la produttività del lavoro e ridurre i colossali sprechi che caratterizzano il nostro sistema nazionale. Per questo occorre, certo, migliorare le nostre infrastrutture, incrementare la cultura delle regole, migliorare l’efficienza di un’amministrazione pubblica gravemente difettosa; ma occorre anche aprirsi di più all’innovazione tecnologica e agli investimenti stranieri. Aumento degli investimenti stranieri significherebbe aumento della domanda di lavoro; e con essa aumenterebbero automaticamente anche le retribuzioni. Invece l’Italia oggi è il fanalino di coda nella graduatoria europea dei Paesi più capaci di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali.

Sul piano pratico, come si deve agire perché i nostri operai guadagnino di più?
Dobbiamo chiederci: perché gli operai metalmeccanici inglesi guadagnano il doppio dei nostri? Non perché gli imprenditori da cui dipendono siano meno avidi dei nostri o perché i nostri godano di maggiori rendite, ma perché il loro lavoro è molto più produttivo del nostro. I nostri salari aumenteranno quando impareremo a lavorare meglio; e per lavorare meglio dobbiamo imparare a “ingaggiare” il meglio dell’imprenditoria mondiale, a spalancarle le porte del nostro tessuto produttivo. Finora, invece, abbiamo fatto di tutto per tenerla fuori (penso, per esempio, ai casi Alfa Romeo nel 1986 e nel 2000, Antonveneta nel 2004-2005, Autostrade nel 2006, Telecom nel 2007), per difendere l’“italianità” delle nostre grandi aziende; che è una colossale sciocchezza.

E gli stipendi di poco più di 1000 euro al mese degli insegnanti della scuola pubblica?
Un aumento netto di questi bassi livelli delle retribuzioni pubbliche sarà possibile solo nel quadro di una iniziativa di forte affermazione della coppia high performance/high compensation standard, cioè alta produttività/alto trattamento. La produttività della nostra scuola è, purtroppo, molto bassa, per carenze organizzative e di struttura, ma anche per un grave difetto di rigore nella misurazione e valutazione dei risultati di ciascun istituto e di ciascun docente. Sono largamente tollerati l’assenteismo, l’incompetenza, il lassismo e disimpegno didattico. L’incapacità di misurare, valutare e distinguere, che caratterizza la nostra scuola (come del resto gran parte delle pubbliche amministrazioni), fa sì che i docenti più bravi e più impegnati – che ci sono, e sono molti – subiscano la doppia ingiustizia di essere pagati poco, allo stesso livello di quelli che non insegnano, e di essere accomunati a questi nel discredito generale.

A 60 anni dall’entrata in vigore della nostra Costituzione, ritiene che la donna lavoratrice abbia “eguali diritti” rispetto al lavoratore, come recita l’articolo 37?
Sul piano del “dover essere” giuridico, delle norme enunciate nella legge, risponderei proprio “sì”: anche per questo aspetto la nostra legislazione è perfettamente allineata agli standard europei, che sono tra i più avanzati del mondo. Se dal “dover essere” giuridico passiamo all’“essere” dei rapporti socio-economici, il discorso cambia: le donne italiane hanno uno dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro più basso d’Europa, sono quelle che si sobbarcano maggiormente il lavoro di cura familiare e domestica (anche perché ci sono meno servizi alle famiglie e in particolare meno asili nido), hanno uno dei tassi più bassi di partecipazione agli organi collegiali di governo delle istituzioni e delle aziende.

“Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano” (articolo 40). Come sono andate e come vanno le cose su questo fronte?
Nel dibattito all’Assemblea costituente su questa norma   con cui veniva sancita per la prima volta, nella storia d’Italia, la garanzia costituzionale del diritto di sciopero   il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio disse: «Noi oggi cerchiamo di evitare al massimo, nella misura del possibile, degli scioperi in regime democratico e repubblicano, perché noi desideriamo concorrere, con tutte le nostre forze, a consolidare e a sviluppare lo Stato democratico e repubblicano»: sono parole pronunciate da Giuseppe Di Vittorio all’Assemblea costituente. Al capo della Cgil fece eco in quello stesso dibattito Vittorio Foa, un altro grande dirigente sindacale: «l’impronta con la quale il diritto di sciopero rinasce nella legislazione italiana, dopo tanti anni di divieto, la solennità con la quale rinasce è tale, il senso di misura e il senso di fiducia sono tali, che noi possiamo augurarci che questo senso di misura e di fiducia presieda all’esercizio del diritto di sciopero negli anni futuri». Quella concezione dello sciopero come strumento di lotta cui fare ricorso con grande misura e parsimonia, come evento eccezionale in un sistema di relazioni sindacali tendente a creare e mantenere un quadro di cooperazione tra produttori, si è persa per strada. Il “diritto vivente” che è venuto consolidandosi nel corso dell’ultimo mezzo secolo, nella materia dei rapporti sindacali, sembra fatto su misura per penalizzare le strategie sindacali cooperative e favorire un modello di relazioni sindacali conflittuale.

Lei ritiene che in Italia si abusi del diritto di sciopero?
Il problema della frequenza irragionevole degli scioperi, oggi, riguarda principalmente un settore-chiave del sistema produttivo: quello dei trasporti. Nell’industria il ricorso all’astensione dal lavoro per la soluzione delle vertenze sindacali nell’ultimo trentennio è andato riducendosi notevolmente: nel settore metalmeccanico, per esempio, si è passati dai 155,2 milioni di ore perse per sciopero nel 1969 (l’anno dell’“autunno caldo”) ai 2,7 milioni del 2003; negli ultimi anni si è registrato di nuovo un aumento, ma tutto sommato contenuto. Nei servizi pubblici, invece, e in particolare nel settore dei trasporti, non si è registrata una riduzione della conflittualità paragonabile.

Però nel 1990 è stata emanata la legge che regola lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. La riforma non ha funzionato?
Sì, nel 1990 è stata emanata una legge mirata a tutelare efficacemente gli utenti, che pone regole precise e sanzioni a carico dei sindacati di categoria che le trasgrediscano (ad esempio: sospensione dei permessi sindacali retribuiti e della riscossione dei contributi mediante trattenute sulle buste-paga) così come a carico dei lavoratori che aderiscano alla trasgressione (provvedimenti disciplinari); ma nel settore dei trasporti questo dispositivo sembra riuscire a fatica ad arginare una conflittualità davvero esasperata. In questo settore il sistema di relazioni sindacali appare sempre più incapace di produrre accordo e cooperazione tra le parti: i contratti vengono rinnovati con ritardi di anni; e anche tra un rinnovo contrattuale e l’altro si sciopera per i motivi più disparati, sovente anche per motivi occulti, mascherati sotto vari pretesti, noti solo a pochi addetti ai lavori. Le colpe si possono dividere equamente tra tutti i protagonisti; fatto sta, comunque, che questo sistema di relazioni sindacali non funziona.

Passiamo all’articolo 41. Silvio Berlusconi nell’aprile 2003 a un convegno della Confidustria, riferendosi a questa norma, disse che la nostra Costituzione ricalca quella sovietica. È una critica che secondo lei ha qualche fondamento?
Berlusconi si riferiva alla parte di quell’articolo, il terzo comma, nella quale si prevede che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. In quella norma si riflette l’idea della programmazione economica, che è stata sperimentata in un primo tempo negli anni ’60 con i Governi di centro-sinistra; poi di nuovo, in una versione diversa, con i tentativi di “programmazione settoriale” dei processi di ristrutturazione industriale, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Non sono state esperienze entusiasmanti; ma da questo a dire che ricalcassero il modello sovietico ci corre. D’altra parte, anche oggi che prevale (a sinistra come a destra) un rifiuto del dirigismo economico da cui quelle esperienze erano state ispirate, quella norma costituzionale conserva una sua funzione positiva, consentendo interventi di coordinamento dell’iniziativa economica privata per fini di utilità pubblica, che possono sempre essere necessari e sono previsti anche dal diritto comunitario.

C’è poi l’articolo 46 che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. Una delle tante norme desuete o una norma ancora, in qualche modo, attuale?
Il legislatore costituente, quando ha scritto questo articolo, aveva in mente l’esperienza dei “consigli di gestione” sorti in molte grandi aziende subito dopo la guerra; e pensava a un loro possibile sviluppo; invece quell’esperienza non ha avuto alcun seguito. Questo non significa che si debba considerare questa norma come un reperto fossile, privo di qualsiasi attualità: la norma giuridica sovente ha una sua vita indipendente dalla volontà iniziale del legislatore. Nel contesto del Titolo III della Costituzione, l’articolo 46 oggi può considerarsi come espressione di un modello “partecipativo” di rapporto di lavoro contrapposto a quello di cui è espressione l’articolo 36, che potremmo chiamare “modello assicurativo”. Due modelli che si pongono come drasticamente alternativi fra loro se attuati in modo integrale; ma che possono invece, nell’assetto effettivo dei rapporti, coniugarsi tra loro in una serie continua di possibili combinazioni, che vanno da quelle in cui prevale nettamente il primo a quelle in cui prevale nettamente il secondo.

Chiarisca meglio.
Il prototipo del rapporto che corrisponde integralmente all’articolo 36 è quello nel quale la retribuzione del lavoratore è compiutamente determinata dal contratto individuale in corrispondenza con uno standard fissato dal contratto collettivo, secondo il livello professionale. È questo il rapporto di lavoro nel quale l’imprenditore, che è dei due soggetti del contratto quello più sicuro di sé e intraprendente, si accolla il rischio del risultato dell’attività e quindi mediante il contratto “assicura” il lavoratore, più avverso al rischio, garantendogli un determinato reddito in cambio della sua rinuncia ai risultati complessivi dell’intrapresa. In questo modello di rapporto il lavoratore non ha un interesse apprezzabile a partecipare alle scelte gestionali e a controllare l’andamento dell’impresa, poiché il suo trattamento è garantito indipendentemente da tale andamento.

Nell’altro modello, invece?
Il prototipo del rapporto che corrisponde integralmente all’articolo 46 è quello del lavoro associato, nel quale il prestatore conferisce il proprio lavoro per l’esercizio di un’impresa comune con altri, i quali conferiscono a loro volta lavoro e/o capitale di rischio. In questo caso la retribuzione non è oggetto di un diritto soggettivo, inteso nel senso tecnico-giuridico del termine, fino a quando non si siano determinate le condizioni che ne consentono effettivamente la distribuzione tra gli associati (e che possono anche non verificarsi): qui il contenuto assicurativo del rapporto, per ciò che riguarda le sopravvenienze negative nell’andamento dell’impresa, è pressoché nullo. Per converso, il contratto assicura al lavoratore la partecipazione alla determinazione delle scelte imprenditoriali e/o altre forme di controllo sull’andamento dell’impresa, poiché da tale andamento dipende direttamente la remunerazione del suo lavoro.

Lei diceva, però, che il modello assicurativo dell’articolo 36 e quello partecipativo dell’articolo 46 possono anche combinarsi, intrecciarsi fra loro.
Sì: fra il primo modello e il secondo sta l’infinita gamma dei rapporti nei quali il contenuto assicurativo va via via decrescendo, mentre corrispondentemente cresce la partecipazione dei lavoratori al rischio e quindi il loro interesse al controllo sulla gestione aziendale. Quell’intera gamma, compresi entrambi gli estremi, è tutta compatibile con il titolo III della Costituzione.

Vuol dire che potrebbe legittimamente configurarsi anche un rapporto di lavoro subordinato senza neppure un euro di retribuzione fissa, nel quale il corrispettivo può azzerarsi se le cose vanno male?
No: questo può accadere solo nel lavoro associato e/o autonomo. L’interpretazione dell’articolo 36 che è comprensibilmente prevalsa in modo molto netto è nel senso di escludere la possibilità che nel rapporto di lavoro subordinato il contenuto assicurativo del rapporto scompaia del tutto; il contenuto assicurativo può scomparire del tutto soltanto nel lavoro associato (oltre che, ovviamente, nel lavoro autonomo). In altre parole: la Costituzione impone che il contratto di lavoro subordinato abbia almeno un contenuto assicurativo minimo, ovvero preveda una parte di retribuzione garantita anche quando sia temporaneamente nullo o addirittura negativo il risultato immediato del lavoro o lo sia l’andamento complessivo dell’impresa. Tuttavia l’articolo 46, incidendo anche sull’area del lavoro subordinato, è lì a sancire che anche in quest’area – quando un contenuto assicurativo minimo ex art. 36 sia salvaguardato – modello assicurativo e modello partecipativo possono combinarsi tra loro in vario modo. E in questa visione bipolare dell’ordinamento costituzionale l’articolo 39 sembra posto in mezzo, quasi come in posizione arbitrale, fra il 36 e il 46, a sancire il ruolo decisivo della libertà sindacale e dell’autonomia collettiva nella scelta della combinazione tra i due modelli.

Già: l’articolo 39, il grande “incompiuto”. La “legge sindacale” che avrebbe dovuto attuare il meccanismo di verifica della rappresentatività dei sindacati, in funzione della contrattazione collettiva con efficacia generale, non è mai stata emanata. Perché?
Nei primi tempi, alla fine degli anni ’40 e nei primi anni ’50, era la Democrazia Cristiana a opporsi, all’attuazione del meccanismo previsto dall’articolo 39, perché questa avrebbe sancito in tutti i settori la rappresentatività maggioritaria della Cgil, consentendo al “sindacato social-comunista” di contrattare da solo e di relegare nell’angolo il sindacato cattolico e quello laico-socialdemocratico, nati dalla scissione del 1948. Poi, negli anni ’60, le tre confederazioni hanno ritrovato l’unità d’azione; e non si è più sentito il bisogno di regolare la concorrenza tra sindacati diversi; inoltre la lezione di Federico Mancini (mi riferisco alla sua famosissima prolusione bolognese del 1963) ha messo in luce i notevoli residui di cultura corporativa che si annidavano nelle pieghe degli ultimi tre commi dell’articolo 39. Da quel momento non si è più discusso del come attuare quell’articolo, ma solo del come farne a meno o come cambiarlo.

Ma in questo modo è rimasto irrisolto il nodo della verifica di rappresentatività dei sindacati che stipulano i contratti collettivi.
Sì: e sono rimaste conseguentemente irrisolte anche le questioni del campo di applicazione del contratto collettivo e della possibilità di deroga al contratto collettivo nazionale da parte del contratto di livello inferiore, in particolare di quello aziendale. I giudici del lavoro hanno pragmaticamente risolto il problema creando la regola per cui se il contratto collettivo nazionale è stipulato unitariamente da tutti i sindacati maggiori, esso può essere assunto come parametro per la determinazione della “giusta retribuzione” garantita dall’articolo 36; e, se stipulato al livello aziendale, può derogare al contratto nazionale con effetto per tutti i dipendenti dell’impresa.

Perché dunque si continua a parlare della necessità di riformare gli ultimi tre commi dell’articolo 39, o comunque di affrontare l’annosa questione della rappresentatività sindacale?
Perché questa situazione di “diritto sindacale transitorio” che dura ormai da oltre sessant’anni è incompatibile con un vero pluralismo sindacale. Per spiegarmi meglio, trasferisco sul piano collettivo il discorso che abbiamo fatto poco sopra sui due prototipi opposti di rapporto di lavoro. Ai due prototipi di rapporto individuale, che abbiamo individuato in riferimento agli articoli 36 e 46, corrispondono due prototipi di sindacato. Da una parte abbiamo il sindacato che persegue la sicurezza dei lavoratori, si propone di acquisire per loro dei diritti (il “sindacato dei diritti”, per ricordare lo slogan che campeggiava sulla tessera della Cgil del 2003); all’estremo opposto abbiamo il sindacato che si propone di rappresentare i lavoratori nella stipulazione e nella gestione di una scommessa comune con l’imprenditore, che trasforma i suoi rappresentati in “imprenditore collettivo” impegnandoli in una sorta di joint venture con il titolare del capitale di rischio.

Due modelli di sindacalismo diametralmente opposti.
Se sono allo stato puro, sì; ma anche qui si possono avere combinazioni e intrecci fra i due modelli. Il problema è che se non c’è un meccanismo che consenta di stabilire con chiarezza chi può contrattare per chi, l’unico contratto collettivo che può veramente incidere, “mordere” sulla realtà e cambiarla, è quello stipulato da tutti i sindacati maggiori insieme. Questo impedisce il confronto e la competizione fra modelli di sindacalismo diversi.

Vediamo prima i caratteri dei due modelli contrapposti di cui lei parla, “allo stato puro”.
Il sindacato del primo tipo preferisce nettamente, nella determinazione della struttura della retribuzione, il compenso fisso, tende al conglobamento in esso delle parti variabili in relazione ai risultati, si propone di difendere il lavoratore dallo “stress da esame” inevitabilmente connesso con la valutazione periodica o continuativa della sua performance. Questo sindacato, scettico per cultura radicata circa l’affidabilità del management, rifiuta di lasciarsene coinvolgere nella gestione dell’impresa, preferendo perseguire la sicurezza e il benessere dei propri rappresentati mediante standard legislativi e collettivi elevati, inderogabili e uniformi sul piano nazionale; preferisce, cioè, le garanzie offerte da una polizza assicurativa unica ad alta copertura, anche a costo di far pagare ai lavoratori per questa polizza un “premio assicurativo” implicito assai elevato.

E l’altro modello di sindacato?
Il sindacato del secondo tipo è disponibile per lo spostamento del baricentro della contrattazione verso la periferia, in funzione della negoziazione di una parte rilevante di retribuzione variabile in relazione ai risultati aziendali – siano essi misurati su parametri di produttività o di redditività – e in funzione dell’adattamento degli standard alle condizioni regionali e aziendali; tende a proporre o ad accettare la scommessa con il management, quando lo considera affidabile, sul raggiungimento di determinati risultati, attrezzandosi per il controllo rigoroso sulla corretta spartizione della posta quando la scommessa sia stata vinta; ed è naturalmente disponibile al coinvolgimento nella gestione o quanto meno nel controllo dell’andamento dell’impresa, della quale i lavoratori sono stakeholders a tutti gli effetti e non solo indirettamente.

Poi ci sono gli intrecci e le combinazioni tra i due modelli.
Quelli che ho proposto sono solo due modelli di sindacato puramente teorici: nessuno dei due esiste, allo stato puro, nella nostra realtà attuale. Possiamo soltanto osservare che oggi si avvicina di più al primo modello la Cgil, pur essendo presenti anche in essa tendenze verso il secondo modello. Per converso, queste ultime tendenze hanno più spazio in seno a Cisl e Uil; ma ciò non significa certo che oggi queste due confederazioni incarnino compiutamente il secondo modello sopra descritto: si osserva, anzi, negli ultimi tempi, una tendenza di queste ultime a omologarsi alla prima. Ecco il guaio che deriva dall’inadempimento costituzionale: la non attuazione e non sostituzione dell’articolo 39, impedendo l’accertamento del sindacato più rappresentativo, nel caso di dissenso tra i sindacati impedisce di individuare quello legittimato a contrattare con effetti generali.

Par di capire che lei abbia una netta preferenza per il secondo modello.
Non mi sentirei di sottoscriverlo senz’altro: quale dei due modelli di sindacato sia più vantaggioso per i lavoratori e per il Paese dipende dal contesto, non si può stabilire in astratto. Il primo modello consiste nel perseguimento di un alto grado di eguaglianza e sicurezza nei trattamenti dei lavoratori regolari, al costo di un corrispondente alto premio assicurativo (cioè di un effetto depressivo sui redditi dei lavoratori) e di una riduzione della “torta” da spartire corrispondente alla perdita di produttività causata dal difetto di incentivi. Il secondo modello presenta il vantaggio di stimolare l’impegno individuale e collettivo, consentendo così margini maggiori di intrapresa e di guadagno per i lavoratori; ma esso regge solo se il management è efficiente e affidabile; e comporta comunque il costo di una minore sicurezza del reddito e di un aumento delle diseguaglianze.

Torniamo al problema che nasce dalla non attuazione dell’articolo 39.
Come si è detto prima, il Titolo III della Costituzione garantisce a entrambi questi modelli pieno diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale; e abbiamo visto come tutte le possibili forme di ibridazione fra di essi abbiano pieno diritto di cittadinanza, essendo il primo comma dell’articolo 39 posto a garanzia della libertà di scelta collettiva in proposito dei lavoratori e delle imprese. Dovrebbe competere all’autonomia collettiva, sia essa esercitata al livello nazionale, regionale, locale o aziendale, la determinazione: i) del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro subordinato (al di sopra del minimo di cui si è appena detto), ii) della parte della retribuzione variabile in relazione alla quantità e qualità del lavoro individuale, nonché iii) dei termini dell’eventuale “scommessa” comune tra lavoratori e imprenditore sui risultati dell’attività aziendale, con tutto quanto ne consegue in materia di partecipazione alle scelte e/o di informazione e controllo sull’andamento aziendale. Questo sul piano teorico …

… e sul piano pratico il problema come si risolve?
Come si è detto, in assenza di una legge di attuazione dell’articolo 39, da mezzo secolo ormai i giudici attribuiscono valore inderogabile ai minimi di trattamento retributivo fissati dal contratto collettivo nazionale stipulato unitariamente da Cgil Cisl e Uil. Questa regola di “diritto vivente” è rafforzata da alcune leggi che condizionano all’applicazione integrale del contratto nazionale il godimento da parte delle imprese di rilevanti sgravi contributivi, l’accesso a qualsiasi finanziamento pubblico, l’assegnazione di appalti di opere pubbliche o di commesse da parte di enti pubblici. Tutto questo fa sì che non solo il trattamento retributivo minimo fissato nel contratto collettivo nazionale, ma anche l’assetto complessivo del rapporto di lavoro delineato in quel contratto – oggi caratterizzato dal forte contenuto assicurativo   assuma il carattere di uno standard inderogabile, o derogabile soltanto al prezzo del superamento di rilevanti difficoltà.

E questo, secondo lei, contrasta con il principio di libertà sindacale sancito dal primo comma dell’articolo 39?
Proprio così: questa inibizione o forte limitazione della sperimentazione contrattuale, al livello regionale, provinciale o aziendale, di modelli di assetto del rapporto di lavoro diversi rispetto a quello stabilito nel contratto nazionale, contrasta con l’ampiezza della gamma di modelli consentita dalla Costituzione. E l’inibizione opera anche contro modelli alternativi non sostanzialmente deteriori rispetto a quello nazionale. In altre parole: l’impossibilità o difficoltà di derogare al contratto collettivo nazionale, che impone la destinazione a parte fissa della retribuzione di una porzione molto elevata del monte salari, lascia uno spazio molto ridotto o nullo alla sperimentazione del modello alternativo, della partecipazione alla scommessa comune. Questo contribuisce a chiudere il sistema agli imprenditori stranieri che sarebbero altrimenti disposti a investire in Italia e all’innovazione di cui essi potrebbero essere utilissimi portatori.

Sta di fatto, però, che il numero dei sindacati è sempre maggiore e la competizione tra sigle diverse, confederali e “autonome”, è vivacissima.
Si possono, sì, costituire sindacati diversi (anzi, il sistema attuale favorisce la proliferazione e frammentazione sindacale); ma non per praticare una politica rivendicativa qualitativamente diversa da quella dominante. Non – ad esempio – per ridurre il contenuto assicurativo del rapporto di lavoro in funzione della sperimentazione di un modello marcatamente partecipativo, con forte aumento della parte della retribuzione variabile in relazione alla redditività dell’impresa.

Abbiamo parlato di imprenditori stranieri; parliamo un po’ anche di lavoratori stranieri. Nel nostro Paese sono tutelati a sufficienza? C’è un articolo della Costituzione nel quale potrebbero rientrare i diritti di questi lavoratori?
Anche due. L’articolo 35 stabilisce che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”. Non dice che la Repubblica tutela solo il lavoro degli italiani. E l’articolo 10: “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”; ora, c’è una convenzione internazionale (O.I.L. n. 111 del 1958, ratificata dall’Italia nel 1963) che attribuisce a tutti i lavoratori stranieri, quando abbiano avuto regolarmente accesso al mercato del lavoro di un Paese, il diritto alle stesse protezioni e allo stesso trattamento cui hanno diritto i lavoratori cittadini di quel Paese, senza distinzioni di razza, di origine nazionale, di appartenenza etnica. Attraverso l’articolo 10, il principio sancito da questa convenzione assume nel nostro ordinamento il valore di un vincolo costituzionale.

Per concludere: la parte della nostra Costituzione dedicata al lavoro, secondo lei, va conservata o cambiata?
Distinguerei il discorso sui primi articoli, quelli dedicati ai diritti fondamentali, dal discorso sul Titolo III: questo oggi forse meriterebbe un aggiornamento, per tenere conto di tutto quanto le scienze sociali hanno acquisito di nuovo in materia di lavoro e relazioni industriali nell’ultimo mezzo secolo. Ma, anche così com’è, è sempre una Costituzione da studiare, amare e difendere nei suoi contenuti essenziali, come uno dei beni più preziosi di cui il nostro Paese oggi disponga.

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