ROULETTE RUSSA DEI GIUDIZI – 1 – LA REPLICA DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA

I RISULTATI DELLA RICERCA SUI COMPORTAMENTI DIVERSI DEI SINGOLI MAGISTRATI, PER QUEL CHE RIGUARDA SIA LA DURATA DI PROCEDIMENTI SIMILI, SIA I LORO ESITI, METTONO A FUOCO UNA QUESTIONE CRUCIALE PER LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

Lettera di Carla Ponterio e Roberto Riverso (esponenti di Magistratura Democratica), pubblicata su Lavoce.info il 6 marzo, a seguito dell’articolo di Andrea Ichino e Paolo Pinotti pubblicato sul Corriere della Sera del 3 marzo 2012 – Segue la replica degli stessi Andrea Ichino e Paolo Pinotti – A questo articolo ha risposto anche Pietro Martello con lettera pubblicata sul Corriere della Sera il 7 marzo 2012

LA LETTERA DI CARLA PONTERIO E ROBERTO RIVERSO (MD)

Nella veste di giudici del lavoro, e coordinatori del gruppo lavoro di Magistratura Democratica, vorremmo proporre alcune riflessioni riguardanti “La roulette russa dell’articolo 18” a firma Andrea Ichino e Paolo Pinotti. L’articolo, utilizzando vari numeri e statistiche, solleva il problema della diversa durata dei processi relativi a licenziamenti in alcuni tribunali, esattamente Milano, Roma e Torino, e sottolinea come la lunga durata di questi processi, in caso di accertata illegittimità del recesso, si risolva in un danno sia per il datore di lavoro, tenuto a versare la retribuzione per il periodo compreso tra la data del licenziamento e quella di effettiva reintegra, e sia per il lavoratore, costretto a rimanere senza retribuzione fino alla conclusione del processo di primo grado.

LA DURATA DEI PROCESSI

Il problema della durata dei processi è certamente serio e complesso ed investe, purtroppo, seppure in misura minore rispetto ai settori civile e penale, anche quello del lavoro, spesso precludendo il rispetto dei
criteri di oralità e immediatezza propri del rito introdotto nel 1973. Senza soffermarci ora sulle cause e sui possibili rimedi alla lentezza della giustizia, specie in alcune sedi, vorremmo tuttavia sottolineare come non condividiamo le conclusioni a cui Ichino e Pinotti giungono facendo derivare dalla premessa, costituita dalla eccessiva durata dei processi sui licenziamenti, l’opportunità di sostituire l’articolo 18 e la reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato con un indennizzo monetario.
Anzitutto, nel nostro sistema e per bocca della nostra Costituzione, chi ritiene di essere stato leso in un proprio diritto ha una sola strada da percorrere, ricorrere al giudice per chiedere tutela di quel diritto.
Non è questione di opportunità, non si tratta cioè di stabilire se “fanno bene i lavoratori ad affidare sempre e comunque ai giudici la protezione di qualsiasi loro interesse”. Si tratta invece di diritti ed i diritti si tutelano agendo in giudizio. Siamo consapevoli dei costi economici e sociali, per i datori di lavoro e i lavoratori, connessi alla eccessiva durata dei processi.

UNA CORSIA PREFERENZIALE

Già da tempo, tuttavia, giuslavoristi sensibili e attenti a questi problemi hanno proposto una soluzione molto semplice e molto efficace, discussa ed analizzata in tanti convegni ma ignorata dal nostro legislatore.
Con decreto del 24 luglio 2000, su iniziativa dei Ministri del Lavoro e della Giustizia, fu istituita la Commissione Foglia per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro. Si trattava di una Commissione di studio “preordinata alla individuazione delle ragioni di crisi del processo del lavoro e della previdenza e alla prospettazione delle soluzioni più appropriate”, composta da eccellenti magistrati, avvocati e docenti universitari. Sul tema dei licenziamenti e proprio al fine di scongiurare le conseguenze negative legate alla durata dei processi, la Commissione propose l’introduzione di una corsia preferenziale nella trattazione delle cause di licenziamento in maniera da garantirne la trattazione e la decisione in tempi il più possibile rapidi. Questa semplice soluzione, attuabile con una modifica normativa di poche righe e giustificata dalla priorità delle cause aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, avrebbe evitato tutti i problemi oggi sollevati da Ichino e Pinotti, senza necessità alcuna di cancellare l’articolo 18.
Difatti, ciò che ci appare criticabile nella soluzione suggerita dai professori, “meglio i risarcimenti che il giudizio” è che essa non sia assolutamente pertinente al problema posto, quello della durata dei processi.
Se i processi durano a lungo, occorre cercare soluzioni per ridurre i tempi, senza bisogno di utilizzare termini come lotteria e roulette russa, che riteniamo fuori luogo e persino devianti. Eliminare garanzie dei lavoratori non solo non serve a far durare meno i processi ma non è, da nessun punto di vista, una strada legittima. Quando si parla di diritto al lavoro (articolo 4 della Costituzione) si intende diritto di svolgere un’attività lavorativa, strumento di emancipazione sociale, mezzo per un’esistenza libera e dignitosa.
L’articolo 18 costituisce un tassello fondamentale nel sistema di tutela dei lavoratori, del diritto al lavoro e della dignità del lavoro stesso, per pensare di cancellarlo e di sostituirlo con un “prezzo adeguato per la possibilità di licenziare”.

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LA REPLICA DI ANDREA ICHINO E PAOLO PINOTTI

Ringraziamo Carla Ponterio e Roberto Riverso per il loro commento e per l’occasione straordinaria che esso offre a tutti di discutere di una questione rilevante.
Ci sembra che la difesa del “diritto al lavoro” (articolo 4 della Costituzione) come “diritto di svolgere un’attività lavorativa, strumento di emancipazione sociale, mezzo per un’esistenza libera e dignitosa” non possa prescindere da una attenta considerazione dei dati che risultano dalla nostra ricerca. Ciò che questi dati mettono in discussione non è ovviamente, l’opportunità dell’assegnazione casuale dei procedimenti ai magistrati di una stessa sede, che costituisce il modo in cui viene applicato, in molti tribunali, l’art. 25 della Costituzione (“Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”) assicurando che non vi sia alcun tipo di correlazione tra il giudice e i casi a lei o lui assegnati. I termini che abbiamo usato a questo proposito (lotteria e roulette russa) non intendono affatto criticare questo metodo di assegnazione e tantomeno si riferiscono ai criteri di giudizio del singolo giudice. Servono solo a sottolineare il dato di fatto della marcatissima aleatorietà che ne deriva sia nei tempi di giudizio sia nei criteri con cui vengono giudicate fattispecie statisticamente identiche.
Questa aleatorietà non può lasciarci indifferenti, anche solo pensando a come è percepita dal cittadino. Una corsia preferenziale per le cause di licenziamento forse la ridurrebbe quanto ai tempi ma certo non quanto ai risultati.
La pluralità degli orientamenti giurisprudenziali è un valore positivo, quando serve a correggere un orientamento dominante, sostituendolo con un altro orientamento dominante migliore. Ma se – particolarmente nella materia del lavoro – dovesse risultare che la pluralità degli orientamenti giurisprudenziali è il puro e semplice effetto, stabile nel tempo, dell’orientamento pro-business o pro-labor di ciascun singolo magistrato, allora occorrerebbe chiedersi se non esistano tecniche normative migliori per proteggere la sicurezza economica e professionale dei lavoratori.
Sottolineiamo, a questo proposito, che noi non abbiamo messo in discussione la protezione contro i licenziamenti discriminatori, per la quale l’affidamento al meccanismo dell’accertamento giudiziale è l’unico ragionevole. Ma dubbi forti sulla ragionevolezza di questo affidamento sorgono almeno per quel che riguarda il licenziamento per motivi economici e organizzativi, dato che in questo caso l’accertamento riguarda eventi futuri (ossia se la prosecuzione del rapporto sia destinata ad avvenire in perdita per l’impresa), sui quali i criteri di valutazione sono inevitabilmente molto disomogenei.
Ci sembra inoltre importante osservare come proprio la trasparenza del fenomeno (resa possibile soltanto dalla piena disponibilità dei dati e dalla libertà per chiunque di analizzarli e studiarli) possa consentire:
– al legislatore di valutare costi e benefici dell’adozione di ciascuna tecnica normativa;
– ai magistrati di tenere maggiormente sotto controllo le disomogeneità dei comportamenti individuali, sia per quel che riguarda l’organizzazione del lavoro, sia per quel che riguarda gli stessi orientamenti giurisprudenziali.
Al cittadino interessa l’effetto reale delle norme, non l’effetto che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero avere. Il nostro articolo voleva solo sollevare un dubbio. Ossia che l’attuale disciplina generi risultati troppo aleatori per essere accettabili, proprio in considerazione del rango costituzionale degli interessi in gioco. Abbiamo provato semplicemente a “dissotterare” il problema, perché se ne possa discutere con piena cognizione di causa.
Osserviamo infine che la trasparenza totale è principio fondamentale di democrazia oggi sancito e precisato dalla legge n. 15/2009 e dal comma 3-bis aggiunto dall’art. 14 del Collegato-Lavoro 2010 all’art. 19 del d.lgs. 30.6.2003 n. 196 (c.d. Codice della Privacy):

La trasparenza intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità
 “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di appartenenza. Non sono invece ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le notizie concernenti la natura delle infermità degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonchè le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l’amministrazione, idonee a rivelare taluna delle informazioni [quelle c.d. sensibili] di cui allarticolo 4, comma 1, lettera d.”

Non riusciamo a vedere il motivo per cui questo principio non dovrebbe applicarsi agli uffici giudiziari, anche al fine di consentire l’analisi dei meccanismi interni della giurisdizione. Proprio per questo consideriamo invece estremamente positivo il fatto che, per la prima volta nel nostro Paese, gli uffici giudiziari dei tre più importanti Tribunali italiani abbiano applicato integralmente questo principio, consentendo concretamente la ricerca di cui stiamo discutendo e, in particolare a Roma, sperimentazioni innovative finalizzate ad analizzare e risolvere questi problemi. Auspichiamo che questo esempio sia seguito da tutti gli altri uffici giudiziari, perché l’indispensabile e urgente perseguimento della maggiore efficienza della giustizia in Italia, a cui in primo luogo i magistrati tengono, passa anche attraverso questa scelta.

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