Intervista a Pietro Ichino a cura di Rinaldo Gianola
Pubblicata su l’Unità del 25 febbraio 2008
Appena è stata resa nota la tua candidatura nel P.D., la sinistra radicale ti ha attaccato come il teorico della precarietà, quello che ha l’ossessione dell’articolo 18, fino all’epiteto di “servo del padrone”. Te l’aspettatevi?
A me pare che l’ossessione dell’articolo 18 ce l’abbiano loro. La mia ossessione, se ne ho una, è diversa: è la preoccupazione per un diritto del lavoro che si applica soltanto a metà dei lavoratori dipendenti, lasciando fuori tutti gli altri.
Puoi spiegare meglio?
Lo Statuto dei lavoratori del 1970 nella sua interezza, compreso l’articolo 18 e il titolo III sui diritti sindacali, si applica soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e 5,8 milioni di dipendenti di aziende private sopra i 15. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22. Restano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid è la grande ingiustizia del nostro sistema attuale di protezione. Poi ci sono gli esclusi totali.
Chi sono?
Il nostro tasso di occupazione è di 10 punti inferiore rispetto a quello che potrebbe essere: se il nostro mercato del lavoro funzionasse come quello britannico, avremmo 5 milioni di italiani in più al lavoro, soprattutto donne.
Il P.D. che cosa propone per combattere questa situazione?
Al primo posto nel programma c’è un’azione molto incisiva volta ad aumentare drasticamente il tasso di occupazione femminile, incrementando fortemente i servizi e anche agendo sulla leva fiscale. Insieme a questa azione, ovviamente, la lotta alla piaga del precariato permanente.
Come?
Il P.D. è un grande partito laico, nel quale militano tanti giuslavoristi, sindacalisti, lavoratori, imprenditori, uniti su questo obiettivo e sull’assumere come punto di riferimento le migliori esperienze europee di flexicurity, ma con idee e proposte diverse sul come. Condurle a una sintesi operativa sarà l’impegno dei prossimi mesi. La novità rispetto alla vecchia sinistra, però, è che il dibattito su questo punto sarà laico, pragmatico, senza tabù, aperto al contributo delle scienze sociali.
Qual è la tua proposta?
Una grande intesa fra lavoratori e imprenditori: si abolisce la giungla dei contratti “atipici”; salvo il lavoro stagionale o puramente occasionale, tutti i nuovi rapporti si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato, che prevede una protezione della stabilità crescente con il crescere dell’anzianità di servizio.
E l’articolo 18?
Continua ad applicarsi, fin dall’inizio, per i licenziamenti disciplinari e contro quelli per motivo illecito, di discriminazione o di rappresaglia. Se invece il motivo è economico od organizzativo, la protezione del lavoratore è costituita da un congruo indennizzo commisurato all’anzianità e da un’assicurazione contro la disoccupazione di livello scandinavo, con contributo interamente a carico dell’azienda, secondo il criterio bonus/malus: l’imprenditore meno capace di praticare il manpower planning, a ogni licenziamento vede aumentare i costi aziendali.
Il direttore di Liberazione l’altro ieri ti ha risposto che, invece, superare il dualismo del nostro mercato del lavoro si può estendendo l’articolo 18 a tutta la metà della forza lavoro che oggi ne è esclusa.
La grande maggioranza degli italiani, e anche del movimento sindacale, sa bene che questa ricetta è impraticabile. Oggi la metà non protetta dei lavoratori – dipendenti di piccole imprese appaltatrici o “terziste”, co.co.co., lavoratori a progetto, “associati in partecipazione”, false partite Iva, irregolari ‑ porta sulle proprie spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l’inamovibilità genera inefficienze gravi e talvolta anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l’altra faccia dell’inamovibilità dei “lavoratori regolari”.
Vuoi dire che la rinuncia a riformare il vecchio diritto del lavoro ci condanna a tenerci il precariato?
È proprio così. Se accettiamo la politica dei tabù, rischiamo di allinearci di fatto al programma della destra: il p.d.l. Sacconi (n. 1356/2007) riconferma esplicitamente il dualismo, limitandosi a promettere agli “atipici” la garanzia dei diritti costituzionali di libertà, dignità e sicurezza: ma sarebbe una pura ripetizione dell’articolo 41 della Costituzione. Se vogliamo dare concretezza all’obiettivo della lotta al precariato permanente, dobbiamo discutere apertamente quale debba essere il nuovo equilibrio tra flessibilità e sicurezza nel nuovo contratto di lavoro; ma dobbiamo trovare un equilibrio che sia davvero applicabile a tutti i nuovi contratti che si stipuleranno d’ora in poi.
Non ti pare che la difesa anche pregiudiziale dell’articolo 18 da parte di molti rappresenti un’adesione politica e ideale a una stagione politica, sindacale, sociale di alto valore, quasi una sorta di nostalgia, mentre oggi navighiamo spesso nel vuoto non solo delle ideologie ma anche delle idee?
Per molti, a sinistra e a destra, l’articolo 18 rappresenta il valore della sicurezza e il benessere dei lavoratori. È un valore importantissimo: la civiltà di una nazione si misura dalla sicurezza e dal benessere che essa sa garantire ai propri membri più deboli. I problemi, su questo terreno, sono essenzialmente due. Il primo è quello che ho detto: il nostro diritto del lavoro attuale, articolo 18 compreso, esclude metà dei lavoratori.
E il secondo?
Impedire alle aziende gli aggiustamenti necessari, la possibilità di ristrutturarsi, di aprirsi rapidamente all’innovazione, finisce coll’indebolirle, riducendo la sicurezza di tutti i loro dipendenti. Guardiamo all’esperienza di Alitalia, di cui si è impedita la ristrutturazione per tanti anni: forse che i suoi dipendenti oggi possono considerarsi sicuri?
Dal sindacato al mondo degli industriali, che reazioni hai avuto alla tua decisione di aderire all’invito di Veltroni?
In quest’ultima settimana sto ricevendo dai 200 ai 300 messaggi al giorno di sostegno, in qualche caso anche in toni entusiastici, sia dall’interno del movimento sindacale, dove ho conservato le mie radici (sono iscritto alla Cgil da 40 anni), sia da parte di tante altre persone che negli anni passati hanno letto i miei libri e i miei editoriali sul Corriere. Certo, ci sono anche molti che non condividono le mie idee; ma in ogni incontro in cui le spiego e ne discutiamo senza chiusure preconcette, alla fine mi sento dire: “se si potesse fare davvero quel che proponi anche in Italia, sarei d’accordo”.
Perché è così difficile confrontarsi e costruire progetti per il lavoro nel nostro Paese?
Perché siamo poco abituati al dibattito pragmatico. Discutiamo sulla base di convinzioni pregiudiziali. Oggi le scienze sociali sono in grado di misurare con precisione gli effetti di ciascuna misura di politica del lavoro, sulla base delle esperienze che si fanno in tutto il mondo: chi e quanto ne trae vantaggio, chi e quanto ci perde, come lo si può indennizzare. Dobbiamo imparare ad aprirci a questo metodo.
Un giudizio sulle politiche del lavoro dell’ultimo governo Prodi?
Buona l’azione svolta dal ministro Damiano contro l’abuso del precariato, mediante una applicazione rigorosa della legge Biagi: riconoscimento implicito dell’errore grave di identificare in quella legge la causa del male. Ma mi sembra che sia mancata, invece, una strategia incisiva che andasse alla radice del problema. E che sia mancata anche una visione chiara dei difetti di funzionamento del sistema delle relazioni sindacali, che è in grave affanno, e della strategia per risolverli.
Il 14 aprile il P.D. vince le elezioni. Da dove partire per gli interventi sul lavoro? Le priorità…
Oltre a quello che abbiamo già detto, occorre una iniziativa forte per far crescere stabilmente le retribuzioni: per questo è necessario, oltre allo sgravio fiscale a cominciare dai salari più bassi, aumentare la domanda di lavoro, imparando ad attirare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale; il che significa anche aprire il sistema all’innovazione e dare più spazio alla contrattazione aziendale, sia sulla struttura delle retribuzioni, sia sull’organizzazione del lavoro. Solo dall’innovazione può derivare un aumento della produttività del lavoro, che è anch’esso indispensabile per una crescita stabile delle retribuzioni.
Il 4 febbraio scorso il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo ha annunciato l’avvio di quattro esperimenti-pilota progettati dal Dipartimento universitario che tu dirigi, per il rilancio dell’efficienza delle strutture regionali.
Ecco un altro punto importantissimo per il risanamento del nostro Paese. Qualche cosa di analogo dovrebbe incominciare a essere sperimentato in tutto il settore pubblico. Nelle nostre amministrazioni occorre diffondere e radicare la cultura della trasparenza totale, della valutazione, della misurazione, anche per poter retribuire meglio chi lavora bene e sanzionare chi non fa il proprio dovere, incominciando dai dirigenti. E bandire in modo drastico le interferenze indebite dei politici nell’amministrazione.
Qual è il Paese in Europa a cui il P.D. dovrebbe ispirare le proprie politiche del lavoro e del welfare?
Il programma del P.D. indica la direzione di marcia della “migliore flexicurity europea”. I buoni modelli sono tanti. E l’unico aspetto positivo dell’essere un Paese arretrato sta nella possibilità di bruciare le tappe sfruttando le esperienze migliori dei Paesi più avanzati. In un mio libro del 1996 e in un editoriale sul Corriere del 2000 indicavo come modello di flexicurity quello danese, dove i più deboli sono infinitamente più “sicuri” di quanto sarebbero in Italia. Da allora sono in molti, anche nella vecchia sinistra, ad avere incominciato a studiare e apprezzare quel modello.
C’è chi dice che gli studiosi come te sono bravissimi a cogliere i ritardi e le resistenze del mondo sindacale e del lavoro, ma assai più indulgenti quando si tratta di denunciare le responsabilità delle imprese. La Confindustria non è un cenacolo di anime belle…
Per quel che mi riguarda, non ho mai mancato di denunciare il conservatorismo dell’apparato confindustriale: per esempio sulla questione della struttura centralizzata della contrattazione collettiva. Oppure il silenzio degli imprenditori nella battaglia contro il dualismo del nostro mercato del lavoro: solo in questi giorni, finalmente, la Confindustria, per bocca del suo direttore generale Beretta, ha manifestato un’importante apertura sul discorso del “contratto unico” a stabilità progressiva. Ma il sistema di relazioni industriali è un gioco sistemico: i ritardi della Confindustria sono lo specchio dei ritardi del sindacato, e viceversa.
Vivi ancora sotto scorta?
Sì, ormai da sei anni. E la tensione creatasi intorno alla mia candidatura in questi giorni, per qualche uscita sconsiderata di esponenti della vecchia sinistra, al di là delle loro intenzioni, rende la scorta oggi più necessaria più di prima.
Sul Sole 24 Ore di ieri D’Alema, pur parlando bene di te, ha detto però che una cosa è fare lo studioso, il commentatore, altra cosa è fare il politico.
La mia scommessa – che Walter Veltroni ha accettato integralmente – è di riuscire a mantenere, pur nel ruolo di parlamentare, la stessa identica schiettezza e libertà di giudizio su cui si è costruita negli ultimi 25 anni la fiducia nei miei confronti di centinaia di migliaia di lettori, studenti, interlocutori di ogni genere. Conservare, anzi accrescere questa fiducia è comunque la cosa a cui tengo di più.
Forse oggi è proprio questa libertà e limpidezza che la gente chiede alla politica; ed è il motivo dell’entusiasmo contagioso che la svolta del P.D. ha suscitato nel Paese.
Io credo proprio che sia così. E se è così, vuol dire che, almeno nel P.D., non c’è alcuna incompatibilità tra il ruolo dello studioso, dell’osservatore critico, e quello del politico.