ITALIA FUTURA: COME RIMETTIAMO GRADUALMENTE IN MOTO IL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO

L’ALTERNATIVA TRA LA SPERIMENTAZIONE DELLA NUOVA TECNICA DI PROTEZIONE IN UN AMBITO LIMITATO, MA CON MAGGIORI RISORSE, E LA SUA APPLICAZIONE DA SUBITO A TUTTI I NUOVI RAPPORTI DI LAVORO, CON UN SOSTEGNO DEL REDDITO MENO ROBUSTO

Intervista a cura di Isolina Rossi pubblicata sul sito di Italia Futura il 2 marzo 2012

Il dibattito sulla riforma del lavoro è stato a lungo caratterizzato da una netta biforcazione tra la sostanza politica della discussione e la realtà economica del tema in questione. Facciamo il punto con Pietro Ichino sulle determinanti economiche e normative alla base dei fenomeni che osserviamo all’interno del sistema-lavoro.

 Al di là del dibattito tra Eurostat e Istat, il livello dei salari italiani rispetto agli altri paesi dell’UE è comunque piuttosto basso. Qual è il rapporto tra mercato del lavoro e livelli salariali?
Il problema delle basse retribuzioni in Italia in riferimento al contesto europeo nasce da numerosi fattori che generano un effetto depressivo sui salari. Il primo elemento riguarda la vischiosità del nostro mercato del lavoro, nella sua area protetta, che genera una peggiore allocazione delle risorse e quindi minore produttività. Un altro dato con cui fare i conti è il premio che i lavoratori italiani pagano al datore del lavoro in modo implicito (non compare in nessuna busta paga) per il maggior carico assicurativo che l’imprenditore sopporta per effetto della disciplina sui licenziamenti, da noi particolarmente vincolante. Uno studio di Piero Cipollone e Anita Guelfi (Banca d’Italia, Temi di discussione 583/2006) quantifica intorno al 9-10% l’entità del maggiore premio assicurativo imputabile al sistema di protezione vigente in Italia rispetto a un meccanismo di tipo indennitario quale quello che funziona in altri paesi. Il terzo fattore da considerare riguarda l’effetto che il carente funzionamento della scuola e la mancanza sostanziale di un servizio di orientamento professionale capillare ha sulla produttività del lavoro. Entrambi i fattori uniti a un’interazione carente tra sistema scolastico e lavoro generano livelli bassi di produttività e debolezza sostanziale dei lavoratori italiani. L’ultimo fattore riguarda il nostro modo di stare nell’economia globale. Da una parte subiamo la concorrenza della manodopera dei paesi emergenti nelle fasce professionali medio-basse, che produce un effetto di abbassamento delle retribuzioni. Dall’altra non sfruttiamo le opportunità che la globalizzazione ci offre: attrarre in casa nostra il meglio dell’imprenditoria internazionale, che porterebbe maggiori investimenti e maggiore domanda di lavoro.
Per dare un’idea, nel quinquennio 2004-2008, il gap in termini di capacità di attrazione degli investimenti stranieri tra un paese mediano come l’Olanda (o la Francia) e l’Italia è valso mediamente il 3,6% del PIL annuale (57 miliardi c.a.): sono migliaia di posti di lavoro a cui rinunciamo per effetto di questo fenomeno.

Il Governo ha dichiarato di voler ripensare lo strumento della cassa integrazione, in particolare quella straordinaria, e limitarne l’uso in futuro, implementando al suo posto efficaci sussidi di disoccupazione. Lei reputa che questa sia una via percorribile?
La riforma degli ammortizzatori sociali è necessaria. Nel nostro mercato l’uso dei sussidi di disoccupazione, in forma ordinaria e speciale, è piuttosto marginale e non è prevista nessuna coniugazione tra l’erogazione dei fondi e l’assistenza a chi ha perso il lavoro o il controllo della sua effettiva disponibilità a ricollocarsi sul mercato del lavoro. Di fatto è molto esteso l’uso della cassa integrazione come trattamento sostitutivo dell’indennità di disoccupazione e questo genera un danno sia per la collettività sia per i lavoratori. La cassa integrazione risponde infatti all’esigenza inversa: tenere il lavoratore legato all’impresa in un’ottica di reimpiego. Vedo la riforma della cassa integrazione come parte integrante di un disegno complessivo di riforma del mercato del lavoro, del quale fa parte anche una nuova disciplina del licenziamento per motivi economici, del trattamento di disoccupazione e dei servizi di outplacement e riqualificazione mirata.

Quali sono gli effetti che produce l’utilizzo distorto della Cassa integrazione?
L’uso improprio della cassa integrazione genera un danno sia per la collettività sia per i lavoratori. I danni per la collettività consistono nei costi elevati che l’abuso di questo strumento porta con sé; il danno per i lavoratori consiste nel ritardo grave con cui viene affrontato il problema della loro ricollocazione nel tessuto produttivo. Alle crisi occupazionali aziendali siamo purtroppo abituati a rispondere mettendo per prima cosa i lavoratori in cassa integrazione e consideriamo normale che ci restino per tre anni o più (anche 7 anni in alcune realtà), a meno che non vengano reimpiegati in blocco. Quando invece non interviene la cassa integrazione, l’80% di chi perde il posto lo ritrova entro un anno e il 93% entro due anni. Qualsiasi sostegno del reddito ha l’effetto di allungare i periodi di disoccupazione, a meno che non sia fortemente condizionato alla disponibilità del lavoratore a tutto quanto è necessario per la sua ricollocazione.

Come si potrebbe mettere in atto concretamente il principio di condizionalità del sostegno al reddito?
Oggi i servizi pubblici italiani non sono in grado di subordinare davvero il sostegno del reddito dei disoccupati alla loro disponibilità effettiva. Ma l’esperienza di altre nazioni, in particolare di quelle scandinave, indica il modo in cui lo si può fare. Prima dell’erogazione di un sussidio si stila il bilancio delle competenze del lavoratore che ha perso il posto, successivamente si individuano le offerte di lavoro più vicine alle sue attitudini e si definisce insieme alla persona che segue questo iter – il tutor- il percorso di addestramento necessario per rioccuparsi. Con un meccanismo di questo genere si sostiene il reddito di chi ha perso il lavoro, incentivandone il ricollocamento in un nuovo posto. Simultaneamente va responsabilizzata anche l’impresa per un investimento mirato ed efficace sulla riqualificazione professionale del lavoratore.

Lei è sostenitore di un modello di flexsecurity, quello delineato nel disegno di legge 1873/2009; quali sono le sue principali caratteristiche? Ci sono le condizioni per applicare un modello di questo tipo in Italia?
Il disegno di legge sulla flexsecurity propone una riscrittura integrale della nostra legislazione in materia di lavoro, con una drastica semplificazione: la riduce a una settantina di articoli brevi, chiari e scritti per essere traducibili in inglese. In primo luogo il ddl ridefinisce la nozione del ‘lavoro dipendente’ cui si applica il diritto del lavoro, in modo che i suoi elementi essenziali non richiedano l’intervento di ispettori, avvocati e giudici per essere accertati. La definizione si basa sui tre elementi essenziali della continuità, monocommittenza e limite di reddito annuo: sono lavoratori dipendenti, oltre a quelli tradizionalmente qualificati come ‘subordinati’ tutti coloro che prestano continuativamente il proprio lavoro per un’azienda traendone più di due terzi del proprio reddito, sempreché questo non superi la soglia dei 40.000 euro annui. Al ‘lavoratore dipendente’ così delineato si applicano i 70 articoli del nuovo Codice del lavoro semplificato. Gli standard di protezione sono definiti secondo il criterio generale dell’allineamento agli standard fissati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dall’Unione Europea, soprattutto in materia di parità di trattamento e discriminazioni, igiene e prevenzione antinfortunistica, orario e riposi, tutela della malattia e maternità/paternità. In tutta l’area del lavoro subordinato e dipendente si applica un contributo pensionistico universale pari al 28 o 29% della retribuzione. Il modello prevede l’introduzione di un contratto prevalente a tempo indeterminato con la possibilità di licenziamento individuale per motivi economici, tecnici e organizzativi e con un sistema di protezione di tipo nord-europeo rafforzato: indennizzo per i licenziati e assegno di disoccupazione finanziato anche dalle aziende. In materia di licenziamento la nuova disciplina si applica solo ai rapporti costituiti da qui in avanti. Nel nuovo regime, il controllo giudiziale è limitato ai soli licenziamenti disciplinari e a quelli discriminatori. Per i licenziamenti dettati da motivi economici od organizzativi, invece, l’idea centrale è la sostituzione integrale del controllo giudiziale con una ragionevole responsabilizzazione dell’impresa per la ricollocazione del lavoratore. In Italia c’è spazio per lavorare su un progetto di questo tipo, ma è difficile pensare che una riforma di questa portata possa essere varata in poche settimane come trattamento universale applicabile a tutti i nuovi rapporti di lavoro. Per questo sarà probabilmente necessario un periodo di sperimentazione.

Dunque la riforma non si applicherà a tutti i nuovi rapporti di lavoro?
Numerosi aspetti della riforma si applicheranno a tutti i nuovi rapporti: in particolare le norme di contrasto all’abuso delle collaborazioni continuative autonome e quelle di incentivo all’assunzione a tempo indeterminato, con la flessibilizzazione della fase iniziale del rapporto di lavoro. Può essere necessario, invece, sottoporre a una sperimentazione su base più limitata la nuova disciplina dei licenziamenti per motivi economici od organizzativi. Questo consentirebbe di far partire il nuovo regime con la prospettiva di un sostegno del reddito più robusto per i lavoratori che perderanno il posto, per poi gradualmente allargarne il campo di applicazione negli anni prossimi. L’alternativa è partire subito con l’applicazione generalizzata del nuovo regime, ma con la prospettiva di un sostegno del reddito meno robusto e durevole.

Il Partito democratico appoggerà questa riforma?
Ne sono certo. Il Governo Monti sta guidando il Paese sull’unico sentiero compatibile con la scommessa europea. Chi crede nella capacità dell’Italia di allinearsi agli standard UE, e in primo luogo il Pd, non può non impegnarsi affinché ciò avvenga al più presto.

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