GIORNALE DI SICILIA: LA SINISTRA E LA RIFORMA DEL LAVORO

IL COMPITO DI UNO STUDIOSO PRESTATO ALLA POLITICA E’ DI RICONOSCERE IN ANTICIPO I SEGNI DEI TEMPI E COSTRUIRE UN PONTE TRA IL CONSENSO DI OGGI E QUELLO DI DOMANI – NON C’E’ DA STUPIRSI, DUNQUE, DEGLI ATTRITI CHE SI DETERMINANO TRA LA SUA POSIZIONE E QUELLA DEI POLITICI DI PROFESSIONE, VINCOLATI AL CONSENSO DI OGGI

Intervista a cura di Nino Sunseri pubblicata sul Giornale di Sicilia il 27 febbraio 2012

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Professore Pietro Ichino, nel suo libro Inchiesta sul lavoro un immaginario ispettore la interroga sulla base di una denuncia presentata contro di lei all`interno del Partito democratico. La finzione letteraria assomiglia terribilmente alla realtà di questi giorni. Lei soffre per la sua diversità nel centrosinistra?
Se ne soffrissi, avrei smesso di farne parte già da molto tempo. L’intellettuale, lo studioso, l’opinionista che fa politica è sempre un “diverso” rispetto al politico di professione.

Lei però sta ricevendo durissime critiche dalla sua stessa parte politica: c`è chi le contesta addirittura il diritto di restare dentro al Pd. Si sente isolato?
È stato così anche negli anni Settanta, quando sostenevo che occorreva regolare il part time; o all`inizio degli anni Ottanta, quando predicavo l’abolizione del monopolio statale dei servizi di collocamento; o nel 2005, quando nel libro A che cosa serve il sindacato scrivevo che la contrattazione aziendale doveva derogare al contratto nazionale. Su tutti questi punti, dopo 5 o 10 anni, la sinistra politica e sindacale ha finito col fare proprie le mie idee. Oggi il pomo della discordia è il mio progetto di “flexsecurity”. Ma qui i tempi di maturazione sono stati molto più brevi: sono bastati 2 anni.

Il ministro Fornero sembra molto interessata al suo progetto.
Il mio progetto ha dalla sua la forza della logica: se si vuole riformare questa materia in modo efficace, in Italia, è difficile impostare la nuova disciplina secondo uno schema diverso da questo. Tutti a tempo indeterminato, tranne le eccezioni classiche, a tutti le protezioni essenziali, nessuno inamovibile. Se poi l’azienda ha bisogno di ridurre il personale deve pagare un indennizzo.

Il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, bolla il suo progetto di riforma del diritto del lavoro come espressione di «un’ideologia fallita». Come ha preso quella messa all’indice?
Ci ho ritrovato, pari pari, i toni dell’ispettore che conduce l’inchiesta nel mio libro. A Fassina, comunque, ho chiesto di passare dagli anatemi al merito del progetto: di dire, cioè, che cosa secondo lui è sbagliato, in concreto, e come va corretto.

La critica più radicale al suo progetto riguarda il costo. Va bene se applicato in Danimarca perché è un Paese piccolo. Per l’Italia è un lusso. Che cosa risponde?
Le risorse vanno cercate nell’eliminazione degli sprechi, soprattutto nell’uso della cassa integrazione, e nei risparmi derivanti dalla riduzione dei ritardi con cui si consente di fatto alle aziende di operare l’aggiustamento degli organici. Il costo stimato per il 2012 è di 5,2 miliardi di cui 3,9 miliardi a carico delle aziende e il resto lo paga lo Stato. È un sistema molto pesante, che dovrebbe essere alleggerito ricondotto alla sua funzione originaria: quella di tenere legati i lavoratori all’impresa  nelle situazioni di difficoltà temporanea. Dove invece il problema è di ricollocare i lavoratori, lo strumento non può essere questo.

Invece?
Oggi mediamente otto lavoratori su dieci in Italia, quando perdono il lavoro, senza particolari aiuti lo ritrovano entro un anno; con una buona assistenza intensiva si può realisticamente puntare alla ricollocazione entro un anno almeno di nove lavoratori su dieci. E poi anche del decimo lavoratore entro il secondo anno. Come accade da tempo nei Paesi più avanzati del nostro.

Quali sono, secondo lei, i tre punti irrinunciabili dai quali dovrebbe puntare Monti per riformare il mercato del lavoro?
Primo, consolidare la riforma delle relazioni industriali realizzata dall’accordo interconfederale del 28 giugno, con un netto spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso le aziende. Secondo, un nuovo diritto del lavoro semplice e universale per tutti i nuovi contratti, nel segno della mia flexsecurity. Terzo, l’eliminazione di sprechi e rendite nel settore pubblico.

Lei insiste con la flexsecurity: ne discute ormai da oltre 2 anni, eppure il Pd resta contrario. Perché parte della sinistra e gran parte della Cgil non riescono a vedere la positività del suo progetto?
Sono bloccati dalla paura del “piano inclinato” .

Cioè?
Dicono: “Se s’incomincia a modificare lo Statuto dei lavoratori, non si sa dove si va a finire. Se lo tocchiamo noi, possono farlo anche gli altri. Allora è meglio che non lo tocchi nessuno”. Non si rendono conto che l’argomento del piano inclinato è sempre stato il cavallo di battaglia di tutti i conservatorismi.

Le dichiarazioni di Veltroni sull’articolo 18 sono state contestate da Bersani e da buona parte del gruppo dirigente del Pd. Quale assurda legge non scritta impedisce, soprattutto agli uomini della sinistra, di sfiorare certi fili?
Non è una legge. È il tasso di faziosità del sistema politico, che da noi è molto più alto che altrove.
Ed è quello che induce anche gli uomini della destra ad affrontare questi temi in modo provocatorio, sperando sotto sotto che la reazione pavloviana della sinistra sbarri loro la strada.

Non ha mai lasciato nemmeno la tessera Cgil, di cui è stato dirigente fino al 1979, eppure anche la Cgil ha dissentito aspramente dalle sue idee: come mai?
Per una ragione affettiva: è stata la mia casa negli anni forse più belli della mia vita, ho conservato tanti amici nella Cgil. In realtà, la sua base è molto meno diversa da quella della Cisl e della Uil di quanto non si pensi: sono in tantissimi a pensarla come me. E oggi anche la base della Cgil è schierata in larga maggioranza a sostegno del governo Monti.

Che pensa di Susanna Camusso?
Susanna deve guidare una grande organizzazione complessa e io ho molto rispetto per quel mestiere, difficilissimo.
Non mi scandalizzo affatto per il fatto che i dirigenti politici e sindacali debbano prendere le distanze da quel che propongo: devono tener conto dei problemi del consenso immediato, mentre il mio compito è capire che cosa accadrà domani. Sono mestieri diversi, che spesso richiedono comportamenti diversi. L`importante è comprendere che sono entrambi indispensabili.

Lei non crede che la Cgil dovrebbe differenziare molto di più la sua linea dalla Fiom?
Sì, lo penso da molto tempo. Ma il vero problema non è la lentezza della Cgil in questa evoluzione: il problema è il potere di veto che a questa Cgil è stato riconosciuto. Ora, finalmente, con l’accordo interconfederale del 28 giugno e la regola di democrazia sindacale che ha introdotto, si sono poste le basi per superare quel diritto di veto.

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