COME LE RIFORME IN CANTIERE POSSONO AUMENTARE LA CAPACITÀ DELLE NOSTRE REGIONI PIÙ ARRETRATE DI ATTRARRE INVESTIMENTI
Intervista a cura di Anthony Muroni pubblicata su L’Unione Sarda il 2 marzo 2012
Il governo Monti, tecnico e di larghe intese, ha l’occasione forse irripetibile di fare riforme attese da decenni. Ce la farà e da cosa potrebbe essere bloccato?
Se non lo fanno cadere prima, andrà avanti fino in fondo, perché queste riforme sono la sua stessa ragion d’essere. Ma anche perché andare fino in fondo con decisione è, a ben vedere, l’unico modo per restare in piedi. Questo Governo è come una bicicletta: se si ferma cade da sé, senza bisogno di qualcuno che lo faccia cadere.
Giornalisticamente si tende a semplificare il dibattito sulla riforma del lavoro concentrandosi soprattutto sull’articolo 18. Ma la questione non è un po’ più complessa?
Certo che è più complessa. Sia perché “articolo 18” vuol dire molte cose, delle quali alcune vanno cambiate altre no, altre ancora rafforzate ed estese. Sia perché il mutamento complessivo di equilibrio del nostro mercato del lavoro che il Governo si propone presuppone un insieme organico di cambiamenti, a 360 gradi. Oltre alla flessibilità in uscita va riformata quella in entrata, vanno riformati gli ammortizzatori sociali, i servizi al mercato del lavoro e l’assetto contributivo dei rapporti di lavoro.
La riforma dell’articolo 18, da sola, sarebbe sufficiente a dare risultati dal punto di vista dell’incremento dell’occupazione?
La riforma della materia dei licenziamenti, in direzione del modello della flexsecurity, ha sicuramente l’effetto di avviare al superamento l’attuale dualismo del mercato del lavoro, il regime di apartheid fra protetti e non protetti; conseguentemente anche l’effetto di modificare la qualità prevalente della disoccupazione, riducendo quella di lunga durata. E probabilmente ha anche l’effetto di migliorare l’allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo e di aumentare la produttività oraria. Non c’è, invece, una evidenza empirica del fatto che una riforma di questo genere produca di per sé un incremento del tasso di occupazione. Questo potrebbe prodursi se l’allineamento della nostra legislazione del lavoro ai migliori standard centro- e nord-europei favorisse un maggior afflusso di investimenti stranieri nel nostro Paese, che oggi è drammaticamente incapace di attirarli.
Perché in Italia si usano ancora poco strumenti come part time, contratti di formazione e di solidarietà?
In parte per la complessità della disciplina di queste materie e i conseguenti costi di transazione troppo alti. In parte perché per le imprese è più semplice ottenere la flessibilità di cui hanno bisogno attingendo alla metà non protetta della forza-lavoro.
Economie deboli, come quelle della Sardegna, avrebbero bisogno di strumenti o incentivi diversi rispetto a quelli del resto d’Italia per vincere la crisi?
Avrebbero bisogno di Governi regionali e sindacati capaci di cercare in tutto il mondo buoni imprenditori con buoni piani industriali, da “ingaggiare” per portarli a casa propria, negoziando con loro su tutto, dall’organizzazione del lavoro all’inquadramento professionale, ai tempi di lavoro, alla struttura della retribuzione. Sarebbe utile anche che i lavoratori interessati fossero disposti a scommettere una parte delle loro retribuzioni sul successo della nuova impresa, come hanno fatto i lavoratori in altre parti del mondo. Per esempio, il discorso potrebbe essere questo: “siamo disposti a contribuire al finanziamento dello start up con il 20 per cento delle nostre retribuzioni per i primi anni, con l’intesa che se si raggiungeranno questo e questo parametro di produttività e di redditività quel 20 per cento ci verrà restituito con gli interessi”.
Una pattuizione di questo genere sarebbe consentita?
Proprio in questi giorni la Commissione Lavoro del Senato sta discutendo un disegno di legge sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa, che tra le altre cose prevede e disciplina anche questa possibilità. Che peraltro è già ammessa dall’Accordo Interconfederale del 28 giugno dell’anno scorso; ed è stata largamente sperimentata in altri Paesi, con successo.
Perché all’interno del Pd e del centrosinistra in generale c’è ancora diffidenza nei confronti delle sue ricette in tema di lavoro?
Perché il mio mestiere, di politico di complemento, è diverso da quello del politico di professione, il quale è costretto a cercare il consenso immediato. Lo studioso prestato alla politica, invece, deve capire in anticipo i segni dei tempi, proporre le sue idee anche se oggi sono impopolari, cercare di creare un ponte tra il consenso dell’oggi e quello di domani. Ho dedicato a questo tema il mio ultimo libro “Inchiesta sul lavoro” (Mondadori). Negli ultimi quarant’anni le mie idee e proposte in materia di politica del lavoro sono sempre state un po’ eccentriche rispetto alla “linea ortodossa” della sinistra politica e sindacale; ma hanno sempre finito con l’essere poi metabolizzate e accettate. A cominciare dalle proposte sul part-time degli anni ’70, proseguendo con quelle sul superamento del monopolio statale dei servizi di collocamento degli anni ’80, fino al decentramento della contrattazione collettiva nell’ultimo decennio. Anche la flexsecurity è destinata a diventare patrimonio culturale della sinistra italiana; prima di quanto non si pensi.
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