A DUE ANNI E MEZZO DALLA SUA EMANAZIONE, LA NORMA SULLA TRASPARENZA TOTALE NELLE AMMINISTRAZIONI È RIMASTA TOTALMENTE IGNORATA, ANCHE PER L’INERZIA DELL’AUTORITÀ CHE AVREBBE DOVUTO PROMUOVERNE LA CONOSCENZA E UN’APPLICAZIONE CAPILLARE
Articolo di Salvatore Bragantini pubblicato sul Corriere della Sera il 27 febbraio 2012
La revisione della spesa (spending review, per gli italiani che ignorano la propria lingua) avviata da Tommaso Padoa-Schioppa nel secondo governo Prodi, buttata nel cestino da Giulio Tremonti e ora tornata all’onor del mondo, dovrà giovarsi dell’aiuto di tutti. Questo non è un governo «tecnico», ma di salvezza civile; oltre a rassicurare «i mercati», vorrà rinsaldare il legame, appunto civile, che tiene assieme ogni comunità, mancando il quale anche i mercati non si fidano. Il presidente del Consiglio Mario Monti da commissario dell’Unione europea si batté per spostare pesi fiscali dall’immobile lavoro al mobilissimo capitale: dovrà comunicarlo a quella parte del Paese che ancora lo vede freddo tecnocrate, magari in combutta con finanzieri margniffoni. Egli ben sa che, se quella del salario variabile indipendente fu follia, non lo è meno un assetto nel quale è ora il capitale la nuova variabile indipendente: non ha funzionato quella, e non funzionerà questa.
La competenza tecnica, utile sempre, lo è in questi mesi più che mai; serve perizia per non smarrire il sentiero angusto che potrà farci uscire a riveder le stelle. Se il tempo, come Monti ricorda, è poco, va sfruttato al massimo. Il governo perciò dovrà mobilitare le risorse di tutti, per individuare sprechi e inefficienze nel gran calderone delle spese della Pubblica amministrazione (la cosiddetta «Pa»), centrale e locale. Così le poche energie qualificate di cui dispone si moltiplicheranno, e i risultati saranno più efficaci, anche perché partecipati dal basso, e non solo calati dall’alto. A questo fine è necessario aprire al pubblico quell’immensa serie di dati che le Pa ignorano o occultano, per ottusità o per interesse, quasi fossero segreti di Stato, anziché una negletta miniera di informazioni su come si spendono i soldi di tutti.
Pochi sanno che la legge delega 15 del 2009 impone alle Pa – sia pur con stile sciatto e di irritante, prolissa vaghezza – non solo di pubblicare i «loro» dati, ma di attivarsi in ogni modo perché essi siano realmente conosciuti dai cittadini. Ciò anche per contrastare la devastante corruzione, il cui gravame c’è appena stato ricordato dalla Corte dei conti. Ad attuare tali principi dovrebbe concorrere – ma nessuno se n’è accorto – una «Commissione per la valutazione, trasparenza e integrità delle amministrazioni pubbliche» (Civit), presieduta da Antonio Martone (padre del vice ministro Michel) e di cui faceva parte fino a ieri Filippo Patroni Griffi, ora ministro per la Pa. La Civit dovrebbe fra l’altro garantire l’accesso del pubblico ai dati sul funzionamento delle Pa, anche grazie ad Internet. Se la legge fosse più che un pezzo di carta, a quasi tre anni dalla sua approvazione cittadini e governo avrebbero a portata di clic, Civit juvante, una vastissima messe di dati sul funzionamento delle Pa; il controllo dall’alto si incrocerebbe con quello dal basso. Nella realtà, scrive Sergio Rizzo (Corriere del 23 febbraio), lo Stato non riesce nemmeno a sapere quanto paga i suoi alti burocrati, ed è costretto a chiedere loro di autodenunciare le retribuzioni in eccesso rispetto al massimo testé fissato!
Ecco un’azione a costo zero, complessa ma potenzialmente efficacissima, che un governo di competenti deve far partire subito, sfruttando le conoscenze che ha «in casa» (o «in famiglia»). Attuare davvero la legge 15 del 2009 consentirà di contenere la spesa e razionalizzarla, anche sul critico versante delle spese per sanità e welfare. Qui sono immesse ingenti risorse, senza che si riesca a valutarne l’efficacia. Come i comunisti al crollo del Muro ignoravano il funzionamento di un’economia di mercato, noi siamo incapaci di misurare l’impatto reale della spesa sociale, pubblica e privata. Scavando in questa miniera potremmo sceverare fra i soldi sprecati e quelli investiti in benessere e coesione sociale.
Va però capito, e valorizzato, l’enorme aiuto che alla revisione della spesa potrà venire dalla partecipazione dei cittadini – che non sono un petulante ingombro alla marmorea saggezza della Pa – ma soprattutto della stessa Pubblica amministrazione. Il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) è sempre alla ricerca di un’identità e l’Istat potrebbe impostare tecnicamente il lavoro e ripartirlo sul campo, in funzione delle competenze, fra le università. Siccome sarà un lavoro lungo, partiamo subito, anche con qualche mossa simbolica. Smantelliamo l’inutile Civit e richiamiamo in patria dal Regno Unito – dove di questi temi si occupa con successo – il professor Pietro Micheli, che la Civit rigettò come corpo estraneo; liquidiamo, per conseguimento dello scopo sociale (sviluppare l’automobilismo in Italia!) quell’Aci che non appartiene ai soci più di quanto la Banca d’Italia appartenga alle banche partecipanti. I 38 milioni di utile della sua compagnia assicuratrice, la Sara, danno la misura dell’apporto che verrà da quest’operazione, purché affidata a professionisti seri e non alla fauna che intorno all’Aci pastura beata.
JJ