E’ CURIOSO CHE IL VERTICE DEL PARTITO DEMOCRATICO VIVA CON DISAGIO UN PROGETTO DI CAMBIAMENTO CHE SI ISPIRA PER LA MAGGIOR PARTE A PROGETTI NATI IN SENO AL PARTITO STESSO E AFFRONTA PER LA PRIMA VOLTA IN MODO INCISIVO LA PIAGA DELL’APARTHEID FRA LAVORATORI PROTETTI E NON PROTETTI
Intervista a cura di Angela Gennaro pubblicata sul sito on line Linkiesta.it il 27 febbraio 2012
Quanto è urgente oggi per l’Italia la riforma del mercato del lavoro?
Molto.
Quali sono i rischi concreti se la situazione rimanesse quella attuale, nella presente congiuntura economica?
Il dualismo del mercato del lavoro non è soltanto un fattore di iniquità, ma anche di inefficienza, per la vischiosità che esso determina nella metà protetta del tessuto produttivo e per l’impedimento all’investimento in formazione professionale nell’altra metà. Mantenere questo dualismo significherebbe anche condannare l’Italia a essere poco attrattiva per gli investitori stranieri, i quali capiscono poco i meccanismi attraverso cui gli imprenditori italiani attingono flessibilità nel settore non protetto. Maggiore vischiosità significa anche minore produttività, minore crescita, dunque anche meno opportunità e sicurezza per le nuove generazioni.
Quali, quindi, i rischi concreti per la società, il lavoro, le pensioni, la previdenza, il welfare?
Il freno alla crescita economica complessiva è dannoso sotto tutti questi punti di vista. E a frenarla contribuisce anche la chiusura del nostro sistema agli investimenti stranieri, di cui la nostra legislazione del lavoro costituisce una delle cause principali.
A che punto è la richiesta alla Commissione Europea di aprire un procedimento di infrazione contro l’Italia per il suo mercato del lavoro iniquo presentata da lei, Bonino, Della Vedova, Rossi, Avaaz? Cosa potrebbe fare l’Europa e in quanto tempo?
La nostra denuncia è ancora in attesa di una risposta della Commissione. Se essa aprirà una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, questo accelererà il cammino della riforma del nostro mercato del lavoro.
Riuscirà il governo Monti a ottenere secondo lei questo risultato?
Spero proprio di sì. E, a questo punto, mi sembra probabile che questo accada.
Cosa pensa della “monotonia del posto fisso”?
Con questa espressione Mario Monti si è rivolto a quei giovani che ancora aspirano al “posto della vita”, per metterli in guardia contro il rischio che quel posto diventi una gabbia. E ha proposto loro una riflessione che può apparire ovvia, ma nella nostra cultura prevalente non lo è affatto: non c’è legge, giudice, sindacato o ispettore che garantisca meglio la libertà, la dignità e la professionalità di chi lavora di quanto le garantisca la possibilità di andarsene sbattendo la porta da un’azienda perché ce ne è un’altra che offre un trattamento migliore.
Perché fino ad oggi non si è politicamente intervenuti? Quali sono gli interessi difesi nel non modificare lo status quo?
Il problema è che le organizzazioni sindacali rappresentano soltanto gli insiders, cioè i lavoratori stabili regolari delle aziende medio-grandi. Non sono certo loro i principali interessati al superamento del dualismo del nostro tessuto produttivo.
Perché secondo lei non si è mai intervenuti nel palese abuso da parte delle aziende di collaborazioni autonome che crea l’apartheid lavorativo tra lavoratori di serie A e gli altri, i paria del lavoro, le finte partite Iva usate come collaboratori stabili?
Se si riferisce all’abuso delle collaborazioni autonome in posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente, il problema nasce dal fatto che la violazione della legge non è affatto palese: la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo è talmente complessa, che restano aperti varchi molto ampi all’evasione e all’elusione.
Quali sono i punti di contatto tra le proposte dell’attuale esecutivo e la sua?
Innanzitutto l’idea – politicamente necessaria – di ridisegnare il diritto del lavoro soltanto per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti. Poi l’idea di ridefinire la nozione di lavoro dipendente, in modo da contrastare efficacemente gli abusi delle collaborazioni autonome. Infine l’idea della flexsecurity: coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale dei lavoratori nel passaggio dal vecchio posto al nuovo.
Come è possibile trovare i fondi per sostituire all’articolo 18 il modello scandinavo come da lei proposto?
Oggi il nostro modo sbagliato di affrontare le crisi occupazionali aziendali produce uno sperpero grave di risorse pubbliche e private: per un verso Cassa integrazione a perdere, trattamenti di disoccupazione non condizionati alla disponibilità effettiva del lavoratore per la ricerca della nuova occupazione, per altro verso ritardi sistematici nell’attuazione degli aggiustamenti degli organici necessari alle imprese.
Tutta questa attenzione per l’art. 18 è giustificata? È davvero il perno della nostra arretratezza nel lavoro?
Per il modo in cui è stato applicato è diventato il presidio principale di un regime di job property, nell’area protetta. E ne è diventato anche il simbolo.
Pd: la riforma del lavoro è da sempre uno dei “punti deboli” del partito. Un grande partito nazionale e riformista deve certo avere al suo interno dibattito e posizioni differenti. Ma non crede che proprio nella discussione sull’articolo 18 si sintetizzino tutte le contraddizioni e le incompatibilità del suo partito?
È un banco di prova importante. Da come il Partito democratico affronterà e risolverà questa sua contraddizione interna dipenderà molto del suo futuro. Tuttavia va anche detto che tutte le idee sulle quali si sta discutendo in queste settimane al tavolo del confronto tra Governo e Parti sociali sono nate all’interno dello stesso Partito democratico.
Il Pd potrebbe spaccarsi su questo banco di prova?
Tutto è possibile, ma non credo che questo accadrà.
Come può Bersani individuare una sintesi che metta assieme Monti, Napolitano, Fornero, Camusso, Fassina, Ichino, Vendola, Di Pietro e Veltroni?
Da come stanno andando le cose, direi che la sintesi la stanno trovando il Governo Monti e il Presidente Napolitano. Se poi Vendola e Di Pietro non la accetteranno, ce ne faremo una ragione.
Che cosa dovrebbe fare Confindustria per agevolare il processo di riforma?
Dovrebbe essere più coraggiosa nel guidare le imprese proprie associate nella sperimentazione del nuovo modo di affrontare le crisi occupazionali, facendo loro comprendere come questo costituirebbe un gioco a somma positiva, nel quale tutti hanno da guadagnare.
Ha ancora senso il suo ruolo nel nuovo contesto?
Può averlo, se Confindustria si proporrà questo compito e si attrezzerà per svolgerlo al meglio.
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