CON L’APPROSSIMARSI DELLA CONCLUSIONE DEL CONFRONTO TRA GOVERNO E PARTI SOCIALI, CRESCE L’ATTENZIONE PER IL MIO ULTIMO LIBRO, NEL QUALE LA VICENDA POLITICA IN CORSO È PREVISTA CON NOTEVOLE PRECISIONE
Estratto dal quarto capitolo del mio libro Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma (Mondadori, novembre 2011) – Il libro è scritto nella forma di una mia discussione con un immaginario ispettore del Pd: sono in corsivo le parti imputabili a questo interlocutore
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Anche nel 1997 i voti di Rifondazione comunista erano decisivi per la maggioranza di centrosinistra, il primo governo Prodi; eppure quell’anno Tiziano Treu riuscì a fa passare la sua legge che introduceva per la prima volta in Italia l’attività delle agenzie di lavoro temporaneo. Quella legge rompeva un tabù che per vent’anni aveva impedito al nostro paese di allinearsi, su questa materia, con tutti gli altri paesi più avanzati d’Europa. Questo non sarebbe stato possibile senza un ministro aperto al confronto con le migliori esperienze straniere e consapevole del ritardo dell’Italia rispetto a esse; ma ciò che ha reso possibile quella svolta è stato anche il fatto che alcuni altri studiosi durante quel ventennio avevano sfidato il tabù costringendo la sinistra e il movimento sindacale a familiarizzarsi con quelle esperienze, a ragionare sui pro e i contro, sulle tecniche normative migliori per regolare la nuova materia. Quante contumelie mi sono preso per aver contribuito ad aprire quel discorso con il libro Il collocamento impossibile nel 1982! È molto difficile abbattere i tabù politici pretendendo di stroncarli dall’oggi al domani con uno strappo improvviso, come ogni tanto pretende di fare oggi il ministro del Lavoro Sacconi: infatti le sue uscite di questo genere non producono alcun risultato, tranne quello di provocare l’arroccamento della vecchia sinistra politica e sindacale. In realtà servono soltanto a lui per salvarsi l’anima. Per far cadere i tabù occorre la talpa che scava sotto di essi minandone le basi nell’opinione pubblica; occorre il lavorio faticoso della semina che richiede tempo per dare frutti, articoli e interviste sui quotidiani, discussioni sul web, dibattiti serali alle feste dei partiti, di sinistra e di destra, anche nei posti più sperduti, con 50 o 100 persone per volta. È quel che ho cercato di fare, in questi tre anni di legislatura, accogliendo il maggior numero possibile di inviti in tutte le parti di Italia.
Creando problemi a non finire al Partito democratico: i nostril militanti sentivano i responsabili nazionali, Cesare Damiano, Stefano Fassina, Emilio Gabaglio, poi sentivano te e non capivano più nulla.
È lo stesso discorso che ho cercato di proporti prima [v. capitolo I, pag. 15-16 – n.d.r.]: il partito non può limitarsi a coltivare il consenso possibile oggi, ma deve saper costruire un ponte fra il consenso dell’oggi e quello del domani. Questa è la funzione di un grande partito moderno. Questo è l’impegno che distingue la buona politica dalla demagogia, dalla «politica dell’annuncio». E proprio in tema di lavoro ne abbiamo un esempio in questi giorni: la crisi finanziaria costringe l’Italia – per salvarsi – a prendere seriamente in considerazione le indicazioni di rotta della Banca centrale europea, che diventerà probabilmente, fra breve, il suo creditore principale; la quale ci chiede, insieme ad alcune altre cose, meno rigidità nelle norme sui licenziamenti nei contratti a tempo indeterminato, superamento del modello attuale imperniato sull’estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri. Se nel Partito democratico ci fossero stati soltanto i coltivatori del tabù, e non ci fosse stata qualche talpa che ha fatto il suo lavoro di scavo sotterraneo, ora esso sarebbe tagliato fuori dal discorso: sarebbe costretto a subire questa riforma come una smentita ingloriosa, come l’ennesima conferma di una immaturità della sinistra italiana rispetto alle sue ambizioni di forza di governo nazionale. Pure il centrodestra, peraltro, sarebbe a mal partito, essendo rimasto per otto anni paralizzato anche nell’attività progettuale, su questo terreno, dopo la débacle del 2003. Invece la talpa ha già scavato a lungo, sia a sinistra sia a destra. Lo ha fatto su un progetto di radicale riscrittura e semplificazione dell’intera disciplina dei rapporti di lavoro nella forma di un nuovo codice del lavoro in 70 articoli, che mira al superamento del regime attuale di apartheid tra protetti e non protetti, comprendendo anche una radicale riforma della materia dei licenziamenti ispirata alle migliori esperienze nordeuropee. Il progetto è stato presentato in Parlamento già due anni fa da 55 senatori del Pd e radicali: il disegno di legge n. 1873. Da allora, attraverso centinaia di convegni, dibattiti, confronti pubblici e privati, il progetto ha allargato notevolmente la propria base di consenso, come è dimostrato dalla mozione bipartisan, primo firmatario Francesco Rutelli, che il 10 novembre scorso il Senato ha approvato con 255 voti favorevoli e soltanto 24 contrari o astenuti, alla presenza del ministro del Lavoro Sacconi. Quella mozione, motivata dalla necessità di stimolare la ripresa della crescita economica del paese, impegna il governo a varare un testo unificato delle norme sul lavoro modellato proprio sul disegno di legge n. 1873.
È stato un momento di distrazione del Senato, al termine di una lunga sessione di bilancio. Un fuoco di paglia.
Pensala come vuoi. Ma che non si sia trattato di un episodio casuale, politicamente poco significativo, è dimostrato dal fatto che, dopo l’approvazione di quella mozione, a Palazzo Madama alcuni senatori della Lega hanno manifestato esplicitamente il proprio favore al progetto, e alla Camera alcuni deputati di Futuro e Libertà, capeggiati da Benedetto Della Vedova ed Enzo Raisi, hanno lanciato l’iniziativa di un progetto di legge per una riforma del diritto del lavoro ispirata esplicitamente all’impianto di quello stesso disegno di legge. Poco dopo, ai primi di aprile, hanno fatto proprio pubblicamente quel progetto, con un intervento sul Corriere, anche Luca Cordero di Montezemolo e Nicola Rossi. E la «macchia d’olio» è andata allargandosi anche in seno al centrosinistra, se è vero che hanno espresso consenso a quel progetto non soltanto i leader delle due minoranze interne al Pd, Walter Veltroni e Ignazio Marino, ma anche alcuni esponenti della maggioranza, come Enrico Letta e Massimo D’Alema, e ultimamente il «vecchio saggio» Giuliano Amato. Se oggi il nuovo governo italiano che speriamo si insedi presto potrà soddisfare la richiesta che gli viene dalla Bce, proponendo un progetto credibile e incisivo, maturo sia sul piano tecnico sia su quello politico, è merito di tutti i politici e gli intellettuali che in questi ultimi anni non hanno avuto paura del tabù e non si sono trattenuti dal manifestare il proprio consenso nei confronti di una proposta organica e plausibile per la riforma del diritto del lavoro e delle relazioni industriali; e degli specialisti della materia che in questi anni hanno contribuito ad affinare il progetto attraverso decine di convegni di studio e un confronto capillare con le mille diverse realtà del mondo sindacale e di quello imprenditoriale. Ecco, qui l’«intelligenza col nemico» di cui qualcuno mi accusa è stata utilissima: senza di essa il progetto non avrebbe mai potuto essere perfezionato in ogni sua parte, tenendo conto delle esigenze e dei vincoli con i quali le imprese – quelle più serie soprattutto – devono fare quotidianamente i conti. È stato attraverso questo confronto che ha incominciato a farsi strada anche nel movimento sindacale e nell’opinione pubblica più vicina al centrosinistra l’idea che l’articolo 18 nella sua formulazione attuale non sia affatto il baluardo indispensabile della libertà e della dignità dei lavoratori, se non per la parte che si riferisce ai licenziamenti discriminatori. E che, anzi, per metà di loro esso è diventato un ostacolo grave per l’accesso al diritto del lavoro.
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