ACCUSARMI DI “INTELLIGENZA COL NEMICO” È L’OBIEZIONE DI CHI NON COMPRENDE IL SENSO DI CIÒ CHE STA ACCADENDO NEL NOSTRO PAESE – IL “BENALTRISMO” È L’OBIEZIONE DI CHI NON COMPRENDE CHE PER SPOSTARSI DA UN EQUILIBRIO DETERIORE A UNO PIÙ AVANZATO OCCORRE AGIRE SU TUTTE LE LEVE POSSIBILI CONTEMPORANEAMENTE
Quella che segue è la seconda parte di una lunga intervista a cura di Andrea Mollica per il sito Giornalettismo.com, 20 febbraio 2012 (non riporto qui la prima parte, nella quale ripeto cose già sostanzialmente contenute in miei scritti e interviste precedenti)
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Cosa risponde a chi sostiene che la modifica dell’articolo 18 è “l’ultima cosa da fare”, perché prima va rimessa in moto la crescita, va combattuta la criminalità, vanno ridotti i costi dell’energia o va risolta l’eurocrisi per rendere più sostenibile il costo del debito?
Il “benaltrismo” (“ciò che occorre veramente è ben altro!”) è una caratteristica molto radicata della nostra vecchia sinistra. La riforma della materia dei licenziamenti e del mercato del lavoro non è l’ultima, ma una delle tante cose da fare per far ripartire la crescita del nostro Paese. Uno dei nostri obiettivi deve consistere nel favorire la crescita delle dimensioni medie delle nostre imprese. Un altro obiettivo di grande importanza è quello di aprire il nostro Paese agli investimenti stranieri, ai quali esso oggi è drammaticamente chiuso. È vero che ci vogliono nuovi investimenti in Italia come dicono i sindacati; ma questi oggi possono venire solo in minima parte dallo Stato, mentre possono venire in massima parte dall’aprire il Paese agli investimenti stranieri. Se riuscissimo ad allinearci alla media europea, sotto il profilo dell’attrattività del sistema per gli investimenti stranieri, questo significherebbe un maggior flusso di investimenti in entrata di molte decine di miliardi l’anno. Certo, per questo occorre correggere molte storture nel sistema-Italia: per esempio, smettere di trattar male chi si propone di investire in casa nostra, come abbiamo fatto sistematicamente nell’ultimo quarto di secolo. Ridurre il costo dell’energia e dei servizi alle imprese, che in Italia è molto superiore agli altri Paesi: per questo aumentare la concorrenza è essenziale. Rendere più efficienti le nostre infrastrutture di trasporto e di comunicazione. Far funzionare meglio le amministrazioni e ridurre la burocrazia. Semplificare una legislazione del lavoro farraginosa e non traducibile in inglese, allinearla ai migliori standard del Centro e Nord Europa, così come far funzionare meglio il nostro mercato del lavoro.
Oltre a una nuova regolamentazione dei licenziamenti, quali sono le riforme principali delle quali ha bisogno il nostro mercato del lavoro per aumentare la produttività totale dei fattori del sistema Italia?
Ciò che ci si chiede, in funzione della nostra integrazione nell’Unione europea e in particolare nel sistema dell’euro, è la transizione dal nostro vecchio “equilibrio mediterraneo” a un equilibrio più virtuoso, ispirato ai modelli centro e nord-europei. Cioè da un equilibrio fondato sul posto fisso del capofamiglia a garanzia di un welfare centrato sulla solidarietà familiare, a un equilibrio fondato sulla garanzia della sicurezza economica e professionale della persona che lavora, in una vita lavorativa nella quale sarà fisiologico che essa cambi più volte occupazione. Questo significa superare l’attuale modello di welfare. La mia proposta, contenuta in disegno di legge che ho presentato nel 2009, consiste in questo: reperire le risorse necessarie per garantire ai lavoratori un trattamento di disoccupazione di livello scandinavo eliminando gli sprechi e le piccole e grandi posizioni di rendita che oggi conseguono al vecchio modo con cui siamo soliti affrontare le crisi occupazionali aziendali. Ciò significherebbe il superamento della cassa integrazione straordinaria o in deroga, ma quel che si risparmierebbe riconducendo la cassa integrazione alla funzione sua propria, basta e avanza per rafforzare e universalizzare il trattamento “di mobilità” oggi previsto per il solo settore industriale. E l’azzeramento del ritardo medio di anni, con cui oggi le imprese sono costrette a operare l’aggiustamento degli organici, genera risparmi dei quali si può ben chiedere alle imprese stesse di destinare una metà a un trattamento complementare di disoccupazione. L’onere di questo trattamento complementare, poi, diventerà uno stimolo efficace alle imprese per la più rapida ricollocazione dei lavoratori licenziati, anche attraverso il controllo sulla reale disponibilità di questi ultimi.
Che cosa pensa della riforma Boeri-Garibaldi sul tema del mercato del lavoro? È una possibile sintesi per una riforma efficace o una soluzione all’italiana che risolve poco o nulla cercando di mettere tutti d’accordo?
Il progetto Boeri-Garibaldi è contenuto nel disegno di legge che ha come primo firmatario Paolo Nerozzi. Non soltanto ho firmato quel progetto di legge, ma ho anche contribuito alla sua redazione. È sicuramente un passo avanti utile: tutti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile nei primi tre anni. Il limite di quel progetto è che non affronta la questione degli ammortizzatori sociali. E poi quella soglia dei tre anni può rivelarsi difficile da superare per i new entrants. Insomma: penso che il nostro Paese abbia bisogno di una riforma più profonda e incisiva, che promuova una nuova cultura del mercato del lavoro; il progetto Boeri-Garibaldi è soltanto un primo passo – anche se molto importante – in quella direzione.
Come definirebbe il rumor governativo che postula che modificare l’articolo 18 equivarrebbe alla riduzione di 200 punti base di spread ?
Una cosa è vera, in questo rumor: che gli osservatori e operatori stranieri considerano il nostro come un paese bizantino, del quale dal di fuori non si capiscono i meccanismi, le regole di funzionamento; le imprese possono attingere alla metà della forza-lavoro non protetta per ottenere la flessibilità di cui hanno bisogno, ma soltanto gli imprenditori indigeni hanno il know-how necessario per attingervi, con la dissimulazione di lavoro dipendente sotto la forma delle collaborazioni autonome, la dissimulazione di appalto di manodopera sotto la forma di appalti di servizi, e così via. Una riforma che riunificasse progressivamente il mercato del lavoro, assoggettandolo a regole chiare, allineate ai migliori standard nord-europei, segnerebbe un miglioramento straordinario dell’immagine del nostro Paese agli occhi degli stranieri. E questo influirebbe notevolmente sulla loro fiducia circa la possibilità di tenuta del nostro debito pubblico, anche sul medio e sul lungo periodo.
Come valuta, a due mesi dal suo insediamento, l’operato del governo Monti?
In estrema sintesi, darei al nuovo Governo un voto 10 sul piano del recupero del prestigio nella comunità internazionale e della capacità di riassegnare all’Italia un ruolo da protagonista nella costruzione dell’unione politica europea; voto 8 per la qualità personale dei ministri; voto 7 per la capacità di attuazione effettiva e tempestiva dei punti salienti del programma; voto 5 per la capacità di comunicazione.
Il governo Monti sta creando qualche subbuglio all’interno della maggioranza del suo partito, il Partito democratico. È possibile una sintesi tra la linea di Fassina e quella di Ichino?
In un grande partito democratico moderno, che aspira a rappresentare la maggioranza di un grande Paese, devono poter convivere anche visioni diverse. Il vero problema è che la fase politica apertasi con il Governo Monti sta mettendo pesantemente sotto stress sia il centrosinistra, sia il centrodestra; e, anche se in modo meno evidente, pure il terzo polo. Dei nostri 2000 miliardi di debito pubblico e del non aver compiuto negli ultimi quindici anni le riforme necessarie per consentirci di rimanere nel sistema dell’Euro portano la responsabilità tanto gli eredi della Democrazia Cristiana quanto gli eredi della vecchia sinistra. È con questa responsabilità che il Partito democratico deve fare i conti fino in fondo. Su questo terreno ci sono ancora numerose questioni aperte, che il Pd stenta ad affrontare con la chiarezza necessaria. Tra le più importanti io vedo quella dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche, quella dell’efficienza del mercato del lavoro e quella dell’efficienza del sistema scolastico.
Come si sente, da iscritto Cgil e militante storico della sinistra italiana (ex parlamentare del Pci, tra le altre cose), a essere definito “di destra”? Anche solo recentemente il sindaco di Bari Emiliano ha detto che lei dovrebbe stare in Forza Italia, non nel Pd. Come risponderebbe a lui o ai suoi critici “bersaniani” come Fassina od Orfini?
Ho dedicato il mio ultimo libro, Inchiesta sul lavoro, a rispondere a questa domanda. Mi dicevano le stesse cose negli anni ’80, quando proponevo il superamento del monopolio statale dei servizi di collocamento; poi questa riforma è stata varata, nel 1997, da un Governo di centrosinistra di cui faceva parte anche Rifondazione Comunista. I Fassina e gli Orfini, poi, erano quelli che mi accusavano di voler “destrutturare il sistema sindacale italiano” quando, con il libro “A che cosa serve il sindacato” del 2005 proponevo che il contratto aziendale potesse derogare al contratto collettivo nazionale; ora la riforma della struttura della contrattazione collettiva che proponevo in quel libro è stata attuata con l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato anche dalla Cgil; e i Fassina e gli Orfini ora dicono che questo accordo deve costituire “la stella polare” per tutti. La vecchia sinistra italiana è sistematicamente in ritardo rispetto ai segni dei tempi, da più di mezzo secolo: basti ricordare la sua resistenza iniziale all’integrazione europea, la sua battaglia negli anni ’60 e ’70 contro la televisione a colori, in quegli stessi anni e ancora negli anni ’80 la sua battaglia contro il part-time, e tante altre. Su ognuna di queste questioni chi, in seno alla sinistra, ha capito prima i segni dei tempi è stato tacciato di “essere di destra”, o di “intelligenza col nemico”. Ma per fortuna il mondo va avanti lo stesso.
Come giudica la politica di austerità di Angela Merkel? È possibile un’alternativa europea più attenta allo sviluppo e alla coesione sociale?
La Germania ha bisogno dell’integrazione europea; ma non può imporre a tutta l’Europa una politica economica ritagliata su misura sulle sue esigenze. Se il Governo Monti avrà successo in patria, sarà probabilmente, subito dopo, lo stesso Mario Monti a guidare l’Europa sulla via di una politica economica espansiva, correggendo la miopia della visione tedesca attuale dell’economia del continente.