L’ITALIA HA BISOGNO DI UNA GRANDE RIFORMA DEL LAVORO MA UNA RIVOLUZIONE NON SI PUÒ FARE IN POCHE SETTIMANE

LA STRADA NON É ANCORA IN DISCESA MA L’EVOLUZIONE DELLA TRATTATIVA LASCIA SPERARE IN UN ACCORDO TRA GOVERNO E PARTI SOCIALI ENTRO LA FINE DI FEBBRAIO

Intervista a cura di Marina Nemeth pubblicata sul sito www.firstonline.info il 14 febbraio 2012 e ripresa sul quotidiano l’Arena di Verona il giorno successivo

Mario Monti accelera sulla riforma del mercato del lavoro e la trattativa con le parti sociali si fa più serrata, fra dichiarazioni ufficiali e scoop, o presunti tali, come l’incontro segreto tra il premier il segretario della Cgil Susanna Camusso. La situazione è tutta in movimento, ma secondo alcuni comincerebbe a delinearsi una base di partenza per arrivare ad un compromesso onorevole che metta d’accordo tutti. E’ davvero così? Lo abbiamo chiesto al senatore del Pd e giuslavorista Pietro Ichino.

Riforma del mercato del lavoro: secondo il premier Monti e il ministro Fornero “siamo vicini alle conclusioni”. La volontà del Governo di affrontare la questione senza tabù e in tempi rapidi ha costretto quantomeno sindacati e Confindustria a dialogare fra loro. Ma siamo sicuri che la strada sia diventata in discesa?
Non lo siamo affatto. L’impressione è che si stiano riducendo gli ostacoli di natura politica. Ma restano tutti gli ostacoli tecnici di una riforma di difficile fattura, nella quale più che in qualsiasi altra il diavolo si nasconde nei dettagli. In ogni caso dei grossi passi avanti si sono fatti in questo primo mese di confronto tra Governo e parti sociali.

La strategia di sindacati e Confindustria sembra quella di lasciare sullo sfondo il tema caldo dei licenziamenti. Non sarà un’intesa al ribasso?
Direi piuttosto che si tratta di un riconoscimento della grande difficoltà di un accordo tra sindacati e imprenditori su questo tema specifico, accompagnato però dalla rinuncia a fare barricate su questo stesso tema. Così, le parti potrebbero accordarsi tacitamente di affidare al Governo una sorta di mandato arbitrale, confidando che esso sappia esercitarlo in modo equilibrato. Tutto questo sul presupposto – fin dall’inizio ribadito dal Governo – che comunque la nuova disciplina non si applicherà ai rapporti già costituiti, ma soltanto ai nuovi, in funzione di una forte promozione dei contratti a tempo indeterminato.

Contrasto alla precarietà e ammortizzatori sociali: sono i nodi dai quali il sindacato vuole partire. Come si può farlo senza affrontare il nodo dell’articolo 18?
Effettivamente è difficile farlo. Si tratta, in sostanza, di attivare la transizione a un nuovo equilibrio più virtuoso, ispirato ai migliori modelli del nord-Europa, abbandonando il nostro vecchio “equilibrio mediterraneo” di cui l’articolo 18 costituisce una chiave di volta.

Lei è il sostenitore di un modello di flexsecurity – quello delineato nel disegno di legge n. 1873/2009 – che prevede un contratto prevalente a tempo indeterminato con la possibilità di licenziamento individuale per motivi economici, tecnici o organizzativi, ma con un indennizzo per i licenziati e un assegno di disoccupazione finanziato anche dalle aziende. Le imprese inoltre dovrebbero farsi carico della riqualificazione e del ricollocamento dei licenziati, con il rimborso da parte delle Regioni del relativo costo-standard di mercato. Le collaborazioni autonome in regime di monocommittenza dovrebbero essere ammesse solo oltre la soglia di 40 mila euro di reddito annuo. Oggi quante probabilità ci sono che questa soluzione venga adottata?
Il disegno di legge che lei ha citato propone anche una riscrittura integrale della nostra legislazione in materia di lavoro, con una sua drastica semplificazione: la riduce a una settantina di articoli brevi, chiari e scritti per essere traducibili in inglese. Non è plausibile che una riforma di questa portata possa essere varata in poche settimane come riforma generale, applicabile a tutti i nuovi rapporti di lavoro. Si può pensare, però, che un ordinamento così riformato e semplificato diventi oggetto di sperimentazione, nei casi limitati in cui una Regione e un’impresa intendano impegnarsi a sostenerne i costi. Così, per esempio, si potrebbe offrire a una multinazionale interessata a un insediamento nel nostro Paese di compierlo applicando a tutti i nuovi assunti questo nuovo ordinamento, con costi modestissimi o addirittura azzerati per lo Stato.

Ci sono Regioni e imprese disponibili per una sperimentazione di questo genere?
La provincia autonoma di Trento ha già posto ufficialmente la propria candidatura, mentre la provincia di Torino ci sta pensando seriamente. La Giunta regionale lombarda ha presentato un progetto di legge che contiene una disposizione in larga parte modellata su questa ipotesi. Quanto alle imprese, già quando venne presentato il mio disegno di legge, nel 2009 gli amministratori o responsabili del personale di 75 aziende di varie dimensioni e collocazioni geografiche inviarono una lettera aperta al ministro del Lavoro dichiarando la propria disponibilità a sperimentare il nuovo modello per i nuovi rapporti di lavoro.

Che cosa ci si aspetta dalla sperimentazione?
Se essa decollerà, questo potrà innanzitutto facilitare i nuovi investimenti dall’estero, i quali potranno avvalersi del nuovo ordinamento, più chiaro, semplice ed allineato ai migliori standard nord-europei. Poi, fra tre o quattro anni, potremo valutare pragmaticamente i risultati. Se constateremo che nelle aziende impegnate nella sperimentazione effettivamente le nuove assunzioni sono state quasi tutte a tempo indeterminato, e che i lavoratori eventualmente licenziati saranno stati trattati in modo civile, con tutte le garanzie previste per una loro sicurezza economica e professionale nettamente superiore e più efficace rispetto a quella che sarebbe stata garantita loro nel vecchio regime, a quel punto la decisione di generalizzare l’applicazione della nuova disciplina potrà essere presa senza lacerazioni. Se ci sarà qualche cosa da correggere, lo si potrà fare prima della riforma generale. Se invece si constaterà che il nuovo schema non ha funzionato, si cambierà strada.

Lei ha recentemente affermato che “Il no al posto fisso fa bene anche a chi non ce l’ha”: perché?
Quello che volevo dire è che la possibilità di muoversi, di scegliere, rafforza il potere contrattuale del lavoratore nei confronti dell’imprenditore. Non c’è legge, giudice, sindacato o ispettore che garantisca meglio la libertà, la dignità e la professionalità di chi lavora di quanto le garantisca la possibilità di andarsene sbattendo la porta da un’azienda perché ce n’è un’altra che offre un trattamento migliore. Per questo occorre un mercato del lavoro fluido non solo nella sua metà non protetta, ma anche in quella del lavoro regolare a tempo indeterminato: quella metà che oggi invece è molto vischiosa.

Se non capisco male, lei sostiene che, paradossalmente, l’articolo 18, misura nata per tutelare i lavoratori, ha finito per creare diseguaglianze e ha complicato la ricerca di lavoro di due generazioni di lavoratori (i giovani e quelli di ogni età usciti dal mercato del lavoro che non possono più reinserirsi): è così?
È proprio quello che voglio dire. Non è un caso che i nostri ragazzi oggi trovino facilmente un lavoro soddisfacente in Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Svezia, per non parlare degli Stati Uniti, mentre da noi, quando va loro bene e trovano qualche cosa, in nove casi su dieci trovano dei bad jobs.

Per diminuire la precarietà bisognerebbe dare alle imprese delle contropartite in termini di flessibilità, soprattutto in uscita. Da qui il dibattito su flessibilità buona e cattiva. Cosa ne pensa?
Dobbiamo superare l’idea, molto radicata nell’opinione pubblica di sinistra, che un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza articolo 18 sia un rapporto precario, nel quale non è protetta la dignità e la libertà morale, politica e sindacale del lavoratore. In nessun altro Paese d’Europa si applica una disposizione di questo genere per i licenziamenti di natura economica od organizzativa: i nove milioni di lavoratori italiani a cui esso si applica sono meno del cinque per cento della forza-lavoro europea; non si può ragionevolmente affermare che il novanta per cento dei lavoratori europei operi in condizioni incompatibili con la loro libertà e dignità personale!
Viceversa, tutti coloro che esaminano da vicino l’esperienza in questo campo dei Paesi scandinavi, dove i vincoli al licenziamento per motivi economici od organizzativi sono ridotti al minimo ma è massimo l’impegno per garantire la sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato, nel passaggio dal vecchio posto al nuovo, concordano nel riconoscere che essa costituisce un first best su scala mondiale.

Ma aggiungono che in Italia quell’esperienza non si può trasferire.
Perché mancherebbero le risorse e i servizi di alta qualità nel mercato del lavoro. Ma là dove Regioni e imprese siano disposte a metterci le risorse necessarie, anche per ingaggiare i migliori servizi di outplacement offerti dalle agenzie private, perché non dovremmo provarci anche noi?

Obiettano che da noi il mercato del lavoro è asfittico, non offre possibilità di ricollocazione.
Questa affermazione è vera soltanto in parte. È molto diffusa da noi la sottovalutazione di quello che offre il nostro mercato del lavoro. Per fare soltanto due esempi: entro i confini del Comune di Milano, nel corso del 2011 sono stati stipulati 108.000 contratti di lavoro. Nella Regione Veneto 843.000. Le persone che hanno perso il posto nello stesso anno in situazioni di crisi aziendali si contano con due zeri di meno. Certo, per quattro quinti questi nuovi contratti di lavoro sono a termine. Per questo è importante invertire il rapporto: dobbiamo fare in modo che i quattro quinti siano di rapporti a tempo indeterminato, e solo un quinto a termine.
Ma non potremo mai conseguire questo obiettivo, finché rapporto a tempo indeterminato vorrà dire applicazione dell’articolo 18. E poi dobbiamo sfruttare i giacimenti di occupazione che oggi ignoriamo: gli skill shortages, le decine di migliaia di posti che restano permanentemente scoperti in ciascuna regione per mancanza di personale con una formazione adeguata. E dobbiamo aprire il sistema agli investimenti stranieri: se riuscissimo ad allinearci alla media europea per questo aspetto, questo significherebbe più di 50 miliardi di investimenti esteri in più ogni anno nel nostro Paese: centinaia di migliaia di posti di lavoro aggiuntivi. Ma questo presuppone semplificazione e allineamento della nostra legislazione a quelle dei Paesi più avanzati.

Cassa integrazione: così come è oggi questo strumento è diventato una sorta di welfare che non aiuta il lavoratore a riqualificarsi e a rientrare nel mercato. Come cambiarla?
La Cassa integrazione non può svolgere questa funzione, per il semplice motivo che è uno strumento concepito per l’obbiettivo esattamente opposto: quello di tenere legato il lavoratore all’impresa da cui dipende, nei periodi di difficoltà temporanea. Quando invece è certo che il lavoro non riprenderà mai più presso l’azienda di provenienza, occorre attivare uno strumento diverso, che si chiama trattamento di mobilità o di disoccupazione, e che deve essere coniugato robustamente con iniziative di assistenza intensiva per il reperimento della nuova occupazione e per la riqualificazione mirata del lavoratore. Il sostegno del reddito di chi ha perso il posto deve essere anche più elevato rispetto a quello garantito dalla Cassa integrazione, ma sempre condizionato alla partecipazione attiva del lavoratore alle iniziative per il reperimento della nuova occupazione.

La Cgil resta ferma nel suo granitico no ad alcuna modifica all’articolo 18. Cisl e Uil hanno invece aperto ad alcune “manutenzioni”: sia Bonanni, sia Angeletti propongono di tagliare i tempi delle sentenze sui licenziamenti e di sottrarre il licenziamento per motivi economici dal campo di applicazione dell’articolo 18. Sono proposte convincenti?
Sullo sveltire la soluzione delle controversie, tutti sono d’accordo; ma se anche riuscissimo a ridurre la durata media dei procedimenti dai sei-otto anni attuali a due o tre, il problema per i licenziamenti di natura economica od organizzativa non sarebbe risolto: un’impresa non può attendere due anni prima di sapere se una ristrutturazione o una riduzione degli organici sono convalidate dal giudice. D’altra parte, l’esperienza insegna che la valutazione dei giudici sul motivo economico od organizzativo di un licenziamento è sempre estremamente aleatoria, anche perché si tratta di questione sempre altamente opinabile, in una materia nella quale i giudici non hanno la competenza tecnica necessaria.
Si dice che il giudice dovrebbe limitarsi ad accertare l’effettività della scelta imprenditoriale, ma non è quasi mai effettivamente così: il giudice valuta anche se il lavoratore licenziato non potesse essere utilizzato altrove, se non si potessero esperire misure alternative, e così via. Per questo motivo è molto importante l’apertura della Cisl e della Uil a una soluzione che limiti il compito del giudice – e quindi l’applicazione dell’articolo 18 – all’accertamento e repressione del licenziamento discriminatorio o di rappresaglia, e che per il licenziamento economico-organizzativo preveda una tecnica protettiva diversa, tesa a responsabilizzare l’impresa, entro un limite predeterminato, per la sicurezza economica e professionale del lavoratore licenziato.

Pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni e riforma fiscale sono i quattro pilastri sui quali costruire un nuovo cambio di rotta in Italia. A suo avviso il Governo deve andare avanti anche se il sostegno delle parti sociali risultasse impossibile?
Quello della concertazione è un metodo utilissimo, che può dare a un Paese una marcia in più. Ma per funzionare, quel metodo presuppone che tra il Governo e le associazioni sindacali e imprenditoriali ci sia almeno una visione comune degli obiettivi da raggiungere e dei vincoli da rispettare. Se manca quel prerequisito, il metodo della concertazione diventa una palla al piede per il Governo, un fattore di paralisi. Nella situazione attuale di crisi economica straordinaria e di pericolo non del tutto superato di default in cui versa l’Italia, anche solo un rallentamento della capacità decisionale del Governo potrebbe essere molto rischioso, anche per l’immediata perdita di credibilità che ne deriverebbe, agli occhi degli operatori internazionali, per il programma di risanamento e di stimolazione della crescita economica del Paese.
Sono questi i motivi per cui Mario Monti in queste settimane sta cercando molto intensamente il più largo consenso possibile delle parti sociali sugli obiettivi e i vincoli da rispettare, nell’opera di riforma del mercato del lavoro; e, sulla base di quello, sta sollecitando una negoziazione rapida delle scelte tecniche praticabili per raggiungere quegli obiettivi. Ma, se il consenso dovesse venir meno al tavolo del confronto con le parti sociali, il Governo non avrebbe altra scelta che presentare in tempi molto brevi un proprio progetto coerente con quegli obiettivi alle forze politiche che lo sorreggono, e spostare la discussione in Parlamento. Mi sembra, comunque, che l’evoluzione della trattativa in questi ultimi giorni consenta di sperare che un accordo entro la fine di febbraio si raggiunga.

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