QUANTO COSTA ALLE IMPRESE SPERIMENTARE LA FLEXSECURITY?

Intervista a cura di Antonio Ambrosio pubblicata sulla rivista on-line illaboratorio.net l’8 febbraio 2012 – In argomento v. anche l’intervista a Giuliano Cazzola pubblicata sulla stessa rivista il 2 febbraio 2012

Professor Ichino, nell’impianto della sua proposta l’impegno economico a cui sarebbero sottoposte le aziende in caso di licenziamento del lavoratore per motivo economico od organizzativo diviene una sorta di incentivo a non licenziare ed anche un forte incentivo a impegnarsi al reimpiego del dipendente. Non crede che con questo meccanismo le aziende sarebbero chiamate, però, a sobbarcarsi dei costi troppo elevati?
Non lo credo. Perché il meccanismo proposto prevede un costo molto ridotto, a carico dell’impresa, nel caso in cui il lavoratore venga ricollocato entro il primo anno: solo il 10 per cento di differenza fra il trattamento di disoccupazione erogato dall’Inps, pari all’80 per cento, e il 90 per cento che viene garantito al lavoratore. E tutti i dati disponibili mostrano come oggi i lavoratori che perdono il posto, senza assistenza, lo ritrovino in otto casi su dieci entro il primo anno. Se dunque l’impresa ex-datrice di lavoro si attiva, nell’ambito del “contratto di ricollocazione” previsto nel progetto, per fornire al lavoratore un buon servizio di outplacement e di riqualificazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti, e per controllare che il lavoratore stesso cooperi attivamente, nella maggior parte dei casi si può puntare a una media di nove lavoratori ricollocati entro un anno dal licenziamento.

E in quel caso o due su dieci nei quali il lavoratore non verrà ricollocato neppure entro il terzo anno?In quel caso l’onere complessivo gravante sull’impresa non sarà certo superiore a quello che essa deve sobbarcarsi oggi normalmente per un piano di incentivazione all’esodo di propri dipendenti. L’80 per cento del secondo anno più il 70 per cento del terzo anno corrisponde a una annualità e mezzo di retribuzione, ma senza contribuzione previdenziale: dunque, all’incirca una annualità di costo aziendale del rapporto di lavoro.

Senza contribuzione previdenziale. Vuol dire che, se non viene ricollocato entro il primo anno, il lavoratore soffrirà una scopertura contributiva per i due anni successivi?
La copertura contributiva figurativa per il secondo e il terzo anno non sarebbe a carico dell’impresa, ma a carico del sistema previdenziale. Onere, questo, di cui già oggi il sistema stesso si fa carico in tutti i casi – e sono assai numerosi – in cui la Cassa integrazione “a zero ore” si protrae per più di un anno. Con la differenza, però, che nel nuovo regime l’impresa ex-datrice di lavoro sarà notevolmente incentivata per tutto il periodo di erogazione del sostegno del reddito a operare per la ricollocazione del lavoratore e a controllarne la disponibilità effettiva.

Cosa risponde a chi sostiene che con il suo progetto si abbattono le possibilità di tutela legale del lavoratore che sia impiegato scorrettamente con un contratto a progetto o comunque di collaborazione autonoma?
Piergiovanni Alleva, che mi ha mosso l’obiezione, propone questo ragionamento: oggi il lavoratore ingaggiato come collaboratore autonomo può fare causa, vincerla e ottenere il posto di lavoro stabile regolare a tempo indeterminato, coperto dalla protezione dell’articolo 18; domani, invece, nel regime delineato nel mio disegno di legge, il collaboratore autonomo non potrà puntare a conseguire questa protezione. Le risposte sono due. La prima è questa: oggi, di fatto, i casi in cui il collaboratore autonomo ricorre in giudizio contro l’impresa committente sono meno dell’uno per mille, con esiti che solo nella metà circa dei casi, o poco più, sono favorevoli al ricorrente. Ma l’argomento decisivo è questo: nel regime che propongo, non solo uno su mille, ma tutti i collaboratori operanti con continuità in situazione di monocommittenza, con reddito annuo inferiore a un limite medio-basso, saranno automaticamente ricompresi nell’area di applicazione del diritto del lavoro; godranno pertanto dell’articolo 18 contro i licenziamenti discriminatori o per rappresaglia, e nel caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi godranno di una garanzia di sicurezza economica e professionale di livello scandinavo. Mi sembra che il guadagno per loro sia netto.

Una delle maggiori difficoltà delle aziende – soprattutto straniere – è costituita dalla giungla normativa in materia di lavoro. Non crede che un eventuale testo unico sul lavoro, con aggiornamento delle leggi più vetuste (come quella sugli impianti audiovisivi contenuta nell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori) possa rivelarsi uno strumento efficace e necessario nella direzione della semplificazione della normativa, incentivando gli investimenti stranieri e le assunzioni nel nostro Paese?
Tanto ne sono convinto, che ho dedicato tre anni di lavoro a fare il censimento di tutte le norme legislative in vigore nel nostro ordinamento in materia di lavoro, per distillarne il contenuto in un “Codice del lavoro semplificato” composto di una sessantina di articoli semplici, leggibili da parte di chiunque e facilmente traducibili in inglese. È il testo legislativo contenuto nel disegno di legge n. 1873, presentato insieme a 54 altri senatori nel 2009, suscettibile di sostituire un centinaio di leggi in materia di lavoro, che oggi occupano migliaia di pagine. Questa semplificazione è dunque matura sul piano tecnico. Ma lo è anche sul piano politico, se è vero che su di una mozione che impegnava il Governo a varare questo Codice del lavoro si è registrato un voto quasi unanime del Senato già il 10 novembre 2010.

Le sembra ragionevole o ipotizzabile una riforma che, pur mantenendo inalterate le garanzie in uscita di cui all’articolo 18, riconosca al datore di lavoro garanzie di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro e, in cambio, al lavoratore di ottenere da subito il contratto a tempo indeterminato?
Ipotizziamo che un nuovo ordinamento consentisse all’imprenditore di ridurre drasticamente la retribuzione del dipendente in una situazione di difficoltà economica aziendale, oppure di trasferirlo unilateralmente a 500 chilometri di distanza: questa “flessibilità interna” al rapporto di lavoro avrebbe effetti pressoché identici alla “flessibilità in uscita” consistente nella facoltà di licenziamento. Non mi pare che al lavoratore questo ampliamento della “flessibilità interna” porterebbe un gran guadagno, rispetto all’ipotesi di ampliamento della “flessibilità in uscita” coniugato con un netto rafforzamento del sostegno del reddito e dell’assistenza per la ricollocazione.

A proposito di articolo 18, la sua eventuale abrogazione viene assunta quale strumento di flessibilità in uscita, ma da più parti si ricorda che comunque in tutta Italia il licenziamento per motivi oggettivi e per riorganizzazione aziendale sono possibili già oggi, purché effettivi e reali; che, in altre parole, già nel nostro ordinamento attuale vige il principio di insindacabilità delle scelte gestionali dell’imprenditore. Questa obiezione è fondata?
Se questa obiezione corrispondesse alla realtà dei fatti, non si comprenderebbe davvero perché mai le stesse persone che la sollevano si oppongano in modo reciso a una riforma che sancisca esplicitamente l’esenzione del motivo economico od organizzativo del licenziamento dal controllo giudiziale, offrendo al lavoratore in questo caso un sostegno del reddito maggiore e un’assistenza intensiva migliore.

Come stanno, dunque, le cose secondo lei?
La realtà è che la nostra giurisprudenza enuncia soltanto in astratto il principio dell’insindacabilità delle scelte gestionali dell’imprenditore; ma poi lo contraddice quotidianamente, con tutte le sentenze con le quali il giudice annulla il licenziamento perché mirato soltanto ad aumentare i profitti aziendali, oppure – che è lo stesso lo convalida in considerazione del fatto che il bilancio è in rosso, oppure si arroga il compito di indagare se e come il lavoratore licenziato possa essere invece “ripescato” in altra funzione o mansione in seno all’azienda, oppure ancora attribuisce rilievo decisivo alla questione se la scelta imprenditoriale sia qualificabile come “soppressione di un posto”, oppure come “sostituzione di un lavoratore con un altro”. La rigidità del sistema italiano deriva anche dal fatto che su ciascuna delle questioni qui menzionate ogni giudice del lavoro ha la propria opinione; onde può accadere che tre giudici, in tre gradi diversi del procedimento, sostengano tre tesi diverse sulla stessa questione, magari ad anni di distanza: un’impresa non può attendere anni per sapere se la ristrutturazione o l’aggiustamento operato sono approvati o no. Per questo motivo sostengo che, in questa materia diversissima sia da quella del licenziamento disciplinare sia da quella del licenziamento discriminatorio, occorre una tecnica protettiva della sicurezza economica e professionale diversa da quella dell’articolo 18. E più vantaggiosa anche per il lavoratore: perché quando oggi è lui a perdere la causa, rimane con un pugno di mosche in mano, magari dopo avere perso anni della propria esistenza nell’attesa dell’agognata sentenza di reintegrazione nel vecchio posto.

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