PER ATTIVARE UNA COMPETIZIONE VIRTUOSA TRA GLI ISTITUTI UNIVERSITARI, TOGLIERE VALORE AL TITOLO DI STUDIO È NECESSARIO MA NON SUFFICIENTE
Articolo di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese pubblicato sul Sole 24 Ore il 10 febbraio 2012 – Segue una mia nota tecnica sulla questione del valore legale della laurea – Sul progetto di attivazione di una forma nuova di finanziamento degli atenei migliori attraverso la concessione agli studenti migliori di income contingent loans, v. il nuovo portale dedicato agli scritti in proposito
Il dibattito sul valore legale dei titoli di studio, stimolato dalla consultazione pubblica annunciata dal Governo, non può prescindere da una riflessione più generale sul sistema universitario di cui il Paese ha bisogno per crescere. Questa prospettiva più ampia consente di chiarire due equivoci.
Il primo è che basti eliminare il valore legale della laurea per risolvere magicamente tutti i problemi. Non è così: senza creare le basi per una vera concorrenza tra gli atenei, sul piano della ricerca e della didattica, la sola abolizione del valore legale avrebbe scarsa efficacia. Il secondo è che sia in gioco una pericolosa riduzione delle tutele che proteggono i cittadini nei loro rapporti con i professionisti laureati. Anche in questo caso non è cosí: non è in discussione un controllo rigororoso sul rispetto di standard minimi per l’accreditamento degli atenei e per l’accesso ad alcune carriere, soprattutto in tutti quei casi in cui il consumatore non ha il tempo o le informazioni sufficienti per scegliere a ragion veduta prima di subire le conseguenze della prestazione di un professionista.
Chi, come noi, auspica l’abolizione del valore legale della laurea vuole evitare che la forma possa prevalere sulla sostanza. Se lo Stato nei concorsi pubblici considera lauree prese in diversi atenei come equivalenti, i cittadini possono dedurne che non sia necessario fare una distinzione tra quelle lauree, quando devono decidere in quale ateneo studiare o quali laureati assumere. Se né lo Stato né i cittadini fanno distinzioni, gli atenei hanno un minore incentivo a migliorare la qualità della loro offerta formativa. Inoltre, se la garanzia formale dello Stato induce il cittadino a pensare che due università siano di pari qualità quando in realtà non lo sono, quella peggiore gode di una protezione contro la concorrenza, e quindi di una rendita ingiustificata. Il Governo sta cercando di abbattere le barriere contro la concorrenza che proteggono, per esempio, i tassisti, i notai o i farmacisti; perché non dovrebbe fare lo stesso con i professori universitari e i loro atenei? Non dovrebbero anche loro essere soggetti al giudizio dei loro utenti?
Affinché questo giudizio abbia effetti concreti, però, è necessario che i cittadini, e in primo luogo gli studenti, abbiano una possibilità reale di scegliere, e che gli atenei abbiano l’autonomia e le risorse per rispondere efficacemente alla domanda di maggiore qualità. Abbiamo esposto su queste colonne i lineamenti di una proposta che va in questa direzione (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/rilanciamo-le-universita-con-prestiti-agli-studenti). É una proposta che non si pone in alternativa al sistema di accreditamento e di valutazione centralizzato previsto dalla riforma Gelmini e confermato dall’attuale governo. Ne rappresenta piuttosto un complemento. Essa mira a responsabilizzare gli studenti, mettendoli in condizione di esercitare una scelta consapevole, liberi dal vincolo economico rappresentato dalle risorse della famiglia d’origine. Per ottenere questo risultato la proposta fa perno su un sistema di prestiti per gli studenti con rimborso proporzionale al reddito futuro, garantiti da risorse fornite dagli stessi atenei, senza gravare sul bilancio pubblico. Gli atenei beneficerebbero di maggiore autonomia gestionale e della libertà nel fissare le tasse universitarie su livelli più prossimi al costo del servizio offerto. Proprio questa maggiore autonomia, unita alle maggiori risorse portate dagli studenti, consentirebbe agli atenei di costruire un’offerta formativa di maggiore qualità. E quest’ultima genererebbe i maggiori redditi futuri necessari a rimborsare i prestiti iniziali. In questo modo il valore delle diverse lauree, al di sopra del minimo necessario per ottenere l’accreditamento, non sarebbe certificato da una delibera ministeriale ma dalle scelte di studenti dotati di una effettiva facoltà di scegliere. Facoltà di cui oggi, di fatto, non dispongono.
Chi si oppone all’abolizione del valore legale dei titoli di studio teme che questa porterebbe a un “far west educativo”, esponendo i cittadini a sedicenti professionisti senza alcuna preparazione e mettendone a rischio, nei casi più estremi, la salute e la sicurezza. Ma l’obiezione si fonda su un fraintendimento. Nessuno contesta infatti che per alcune professioni, come per esempio ingegneri, medici o piloti di aereoplano, sia necessaria la garanzia di un livello minimo di qualità. Come ha chiarito Alessandro Schiesaro su queste pagine, l’abolizione del valore legale del titolo non elimina la necessità di un esame di stato per l’accesso ad alcune professioni, né quella di un accreditamento degli atenei e dei corsi di laurea da parte dell’ANVUR (come previsto nel Decreto del 20 gennaio). Ma, al di sopra di quel livello minimo, i titoli di studio non sono tutti uguali, e non dovrebbero essere trattati come tali. Con una maggiore attenzione alla sostanza, invece che alla sola forma (in primo luogo da parte dello Stato), la tutela dei cittadini ne sarebbe semmai aumentata, e migliorerebbe la qualità dei servizi a loro offerti dalla pubblica amministrazione: le commissioni giudicatrici in un esame di stato o in un concorso pubblico avrebbero la possibilità di adottare i criteri di valutazione che ritengono più idonei, con obblighi di trasparenza e responsabilizzazione a posteriori sui risultati.
Il controllo statale sulle lauree ha peraltro un senso quando il cittadino-consumatore ha molta difficoltà nel valutare la qualità del servizio offerto dal professionista e, allo stesso tempo, quando un servizio di qualità scadente ha conseguenze durature e difficilmente rimediabili, oppure quando le conseguenze negative non ricadono solo su di lui ma anche su altri. Ma guai a credere che il controllo possa essere perfetto: se distoglie il cittadino dall’antico monito caveat emptor, rischia di arrecare più danni che benefici.
NOTA TECNICA SULLA QUESTIONE DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA
Il “valore legale della laurea” non è sancito da una singola disposizione, bensì da una miriade di disposizioni che condizionano l’accesso a uffici e incarichi pubblici, oppure il godimento di determinati benefici, a questo – come ad altri – titoli di studio. Il caso meno virtuoso è quello delle disposizioni che dispongono uno scatto di inquadramento e di retribuzione per l’impiegato che si laurea in costanza di rapporto.
Questo dato normativo rende più problematico abolire il valore legale della laurea, perché si tratterebbe o di abrogare quelle disposizioni una per una (operazione certosina, che presuppone un censimento e poi una analisi caso per caso), oppure di abrogarle tutte in blocco, con un provvedimento grossolano, che produrrebbe numerose situazioni transitorie di difficile gestione.
L’attribuzione per legge di un “valore” alla laurea – cioè in sostanza l’istituzione di una presunzione iuris et de iure di idoneità a determinate funzioni o mansioni di chi possegga questo titolo di studio – serve in sostanza per sopperire al difetto di capacità selettiva, che affligge cronicamente le nostre amministrazioni (si stabilisce una regola burocratica di valutazione, che sostituisce la valutazione in concreto delle qualità intellettuali della persona). L’abolizione del valore legale della laurea presuppone che si disponga di un management pubblico fortemente responsabilizzato circa gli obiettivi da conseguire, cui possano essere quindi restituite integralmente le prerogative proprie del management di una qualsiasi azienda privata, compresa quella della possibilità di valutazione libera della qualità della persona da assumere o da promuovere. (p.i.)