STEFANO SCABBIO: UNA VIA ITALIANA PER LA “FLEXSECURITY”

PER FAR SÌ CHE IL MERCATO DEL LAVORO DIVENTI FONTE DI SICUREZZA E POTERE CONTRATTUALE PER I LAVORATORI, OCCORRE INNERVARLO CAPILLARMENTE DI SERVIZI EFFICIENTI DI ASSISTENZA INTENSIVA ALLA RICERCA DELL’OCCUPAZIONE

Articolo di Stefano Scabbio, vice-presidente di Assolavoro e amministratore delegato di Manpower Group Italia&Iberia, pubblicato sul Corriere della Sera il 6 febbraio 2012

La disoccupazione sarà l’emergenza sociale dei prossimi 10 anni. E’ quanto riportato dal rapporto Global Employement Trend 2012. Sono circa 200 milioni i disoccupati nel mondo (23,8 milioni nell’area euro) e la previsione è di raggiungere i 203 milioni entro quest’anno con i tassi di crescita stimati al 2% del Pil mondiale. Nei prossimi 10 anni il sistema economico globale dovrà creare almeno 400 milioni di nuovi posti di lavoro per assorbire la crescita annua di persone in età di lavoro, stimata in circa 40 milioni di unità. Questi numeri evidenziano un pericoloso aumento della popolazione che si troverà in difficoltà “occupazionale” e, quindi, c’è e ci sarà sempre più bisogno di buoni servizi al lavoro e di politiche attive che aiutino al reinserimento nel mercato.
Non c’è dubbio che la priorità di tutti i governi è quella di rivedere il proprio sistema di welfare per mantenere la coesione sociale e poi creare sviluppo con l’obiettivo di generare nuovi posti di lavoro. In questi giorni è vivo il confronto sul tema del mercato del lavoro, tra governo e parti sociali, per valutare come riformarlo. L’Italia è rimasto l’unico paese europeo che privilegia ancora le politiche passive del lavoro: casse integrazioni, mobilità, conservazione ad oltranza del posto fisso, che non richiedono nessun impegno attivo da parte del soggetto coinvolto. A queste condizioni, il lavoratore in difficoltà attende passivo che qualcuno gli risolva il problema.
Questo modus operandi è davvero controproducente perché alimenta il lavoro nero. In tutti gli altri paesi chi riceve un sussidio ha l’obbligo di dimostrare che sta cercando un altro impiego o perde ogni diritto.
Se consideriamo che ogni lavoratore in cassa integrazione costa agli enti previdenziali circa 1300 euro al mese, abbiamo facilmente un’idea del potenziale risparmio economico che si avrebbe introducendo un sistema che premi la ricerca attiva, con conseguente riduzione dei tempi di ricollocazione. Non utilizzare il periodo di cassa integrazione per la ricerca di una nuova occupazione produce almeno due effetti controproducenti; primo: un anno di disoccupazione  riduce drasticamente l’impiegabilità dei lavoratori, secondo ha un forte impatto sull’equilibrio familiare dei lavoratori e sulla loro capacità di reagire. Quindi passare da politiche passive a politiche attive con una strategia di ricollocamento che coinvolga aziende e lavoratori permetterebbe di risparmiare denaro pubblico e di ottenere risultati più concreti.
In Francia, Belgio, Danimarca e paesi Nordici questo approccio è molto diffuso. Per esempio in Francia, paese culturalmente più vicino a noi, è obbligatorio per le imprese più grandi applicare il cosiddetto “permesso di reimpiego”, che prevede per nove mesi il supporto al lavoratore di società specializzate nella ricerca di nuova occupazione e una integrazione del 65% del salario. Va sottolineato che si tratta di un obbligo per l’azienda ma anche per il lavoratore, che deve muoversi attivamente sul mercato se vuole conservare questi benefici.
Ma come sarebbe possibile garantire questo processo nel nostro Paese? I servizi pubblici in Italia non hanno le professionalità necessarie e preparate per gestire simili attività, mentre queste competenze oggi sono presenti nel network professionale e capillare che è quello delle agenzie per il lavoro. Oggi questo sistema garantisce una serie di attività essenziali per l’efficienza del nostro mercato del lavoro. Mi riferisco in particolare all’attività di orientamento, specialmente dei giovani alla ricerca della prima occupazione e all’attività di formazione continua e professionale completamente autofinanziata che garantisce lo sviluppo e il mantenimento delle competenze che garantiscono l’occupabilità nel tempo e infine all’attività di ricollocazione.
Il tema sensibile di ogni sistema di welfare è il suo costo finanziario e quindi la sua sostenibilità nel tempo. Prendere spunto dal modello e dal meccanismo di funzionamento oggi degli enti bilaterali allargandone lo scopo potrebbe essere una soluzione che garantisce al nostro sistema funzionalità, efficacia e sostenibilità.
Se guardiamo i dati, le percentuali di ricollocazione sono molto elevate e superano l’80% per i lavoratori per i quali sono stati costruiti  percorsi individuali o dove è previsto il trattamento di mobilità, mentre scendono al 50% dove è in atto la cassa integrazione. I tempi medi di ricollocazione oscillano tra i 6 e gli 8 mesi contro gli oltre 30 mesi necessari oggi per trovare una nuova occupazione.
Da questi dati emerge con forza un interrogativo legittimo: tutti i ricollocati hanno un contratto a tempo indeterminato? La risposta è superflua, ma i dati sono interessanti: più del 33% trova nuova occupazione con contratto a tempo indeterminato, circa il 45% a tempo determinato, il 22% con altre forme contrattuali. A volte non è necessario creare qualcosa di nuovo per forza, è sufficiente guardare in casa per scoprire l’esistenza di “best practice” che possiamo facilmente replicare.

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