NON C’È LEGGE, GIUDICE O SINDACATO CHE PROTEGGA MEGLIO LA DIGNITÀ, LA LIBERTÀ E LA PROFESSIONALITÀ DI CHI LAVORA DI QUANTO LE GARANTISCA LA POSSIBILITÀ DI ANDARSENE DALLA PROPRIA AZIENDA, PERCHÉ CE N’È UN’ALTRA CHE OFFRE UN TRATTAMENTO MIGLIORE
Editoriale per la Newsletter n. 186, 6 febbraio 2012
L’accenno alla “monotonia del posto fisso” fatto da Mario Monti in una tramissione televisiva la settimana scorsa è stato infelice sul piano della comunicazione. Ma il premier intendeva proporci una considerazione sensata: un tessuto produttivo vischioso, nel quale il lavoro regolare a tempo indeterminato si caratterizza per una scarsa mobilità, non fa danno soltanto agli outsiders e ai new entrants, bensì anche a chi è riuscito a trovare un posto nella cittadella del lavoro protetto. Vediamo perché.
Per qualsiasi persona che cerchi un’occupazione, le occasioni di lavoro regolare non hanno tutte lo stesso valore: è facile convincersi che la loro appetibilità per ciascun lavoratore varia tra un minimo e un massimo, per la loro diversa dislocazione geografica, il loro diverso contenuto professionale, la diversa qualità dell’ambiente e dei colleghi, con i quali si può andare più o meno d’accordo. Per ciascuno di questi aspetti, l’azienda che è il first best per una persona può essere un second o un third best per un’altra. Ed è difficile che chi cerca un lavoro trovi il first best al primo colpo: in genere occorrono alcune esperienze di lavoro diverse prima di raggiungerlo. Sovente, poi, quella che è stata una buona occasione in una prima fase della vita lavorativa perde il suo appeal col passare degli anni; qualche volta essa diventa addirittura un inferno, quando accade che il lavoratore litighi con i propri colleghi o con i propri superiori nella gerarchia aziendale. Il lavoratore stesso ha dunque interesse a stare in un tessuto produttivo in cui ci sia una discreta mobilità non soltanto nel settore dei rapporti poco o per nulla protetti, ma anche nel settore dei rapporti a tempo indeterminato.
In Italia, invece, oggi quattro quinti dei nuovi contratti di lavoro sono contratti a termine, con un tasso di conversione a tempo indeterminato molto basso. È questo il motivo per cui nell’area del lavoro a tempo indeterminato protetto, quando l’abbinamento tra lavoratore e impresa si rivela – o diventa col passare del tempo ‑ insoddisfacente, non è soltanto quest’ultima a non poter sciogliere il rapporto, ma è anche il lavoratore a non potersene andare, per carenza di alternative se non nell’area del lavoro precario. Occorre invece un tessuto produttivo più fluido, nel quale le protezioni siano distribuite in modo più equo e il lavoratore abbia maggiore libertà di passare da un posto a un altro senza peggiorare il proprio status giuridico. Il difetto di questa mobilità nel settore del lavoro più protetto è una delle cause della peggiore allocazione delle risorse umane e della conseguente minore produttività e più bassa retribuzione media del lavoro degli italiani.
Mario Monti si è rivolto a quella parte di essi che ancora aspira al “posto della vita”, per metterla in guardia contro il rischio che quel posto diventi una gabbia. E ha proposto loro una riflessione che può apparire ovvia, ma nella nostra cultura prevalente non lo è affatto: non c’è legge, giudice, sindacato o ispettore che garantisca meglio la libertà, la dignità e la professionalità di chi lavora di quanto le garantisca la possibilità di andarsene sbattendo la porta da un’azienda perché ce ne è un’altra che offre un trattamento migliore.