«ATTIVAZIONE», «PROTEZIONE EFFICACE E CONDIZIONATA» E «PREVENZIONE DELL’INATTIVITÀ», SOPRATTUTTO DEI PIÙ GIOVANI: QUESTE LE MISURE SPERIMENTATE CON SUCCESSO IN GERMANIA, ALLE QUALI POSSIAMO ISPIRARCI PER RIATTIVARE LA CRESCITA DEL PAESE
Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 2012
Come convinco i tedeschi a finanziare Paesi in cui il 30% degli adulti è inattivo e un 10% è disoccupato? La domanda sollevata dalla Merkel tocca un nervo scoperto della crisi europea. La Cancelliera si riferiva soprattutto a Spagna e Grecia. Ma, come confermano i dati Istat, anche il mercato del lavoro italiano è messo molto male, appare stanco e immobile, certo non solo agli occhi della Germania. Siamo un Paese incapace di sfruttare adeguatamente il nostro potenziale lavorativo, soprattutto quello femminile. Stiamo clamorosamente sprecando i talenti e il dinamismo dei giovani: al di sotto dei 24 anni la disoccupazione supera il 30%. E il dramma è che questi giovani hanno livelli di istruzione in media più bassi dei coetanei europei: un fatto che indebolisce non solo le loro prospettive di vita ma anche quelle di sviluppo dell’intero Paese. Dobbiamo uscire dal pantano e la priorità più urgente è la riforma delle politiche e più in generale del mercato del lavoro.
L’esperienza tedesca dell’ultimo decennio dimostra che solo cambiando le regole si può riattivare il circolo virtuoso della crescita inclusiva. Ma quali regole, esattamente? La prima nuova regola si chiama «attivazione». L’obiettivo cardine della politica del lavoro non deve essere quello di compensare la disoccupazione ma di mettere ciascun adulto nelle condizioni di lavorare, tramite un mix di servizi, incentivi fiscali e monetari, percorsi guidati. A partire dai governi Schröder, la Germania è riuscita a metter in piedi un sistema robusto ed efficiente di servizi per l’impiego pubblici e privati che si prende cura di ciascun disoccupato, soprattutto se «debole»: ultracinquantenni, giovani e donne con basse qualifiche. Questo sistema si è rivelato preziosissimo quando è scoppiata la crisi. Anche in Germania le imprese hanno fatto ricorso a qualcosa di simile alle integrazioni salariali temporanee, ma solo quelle imprese che avevano (hanno) prospettive rapide di recupero. Le altre hanno chiuso e i loro dipendenti sono entrati nel circuito dell’attivazione.
Le norme sulla cosiddetta «giusta causa» esistono anche in Germania ma, oltre ad essere applicate in modo più rapido e ragionevole dalla magistratura, prevedono deroghe concordate con i sindacati.
L’Italia deve imboccare al più presto una strada simile, convincendosi che alla lunga la cassa integrazione (soprattutto quella straordinaria) è uno strumento perverso di «disattivazione»: paga le persone per non lavorare, tenendo spesso in vita imprese che dovrebbero chiudere. La seconda regola è «protezione efficace e condizionata». Chi transita da un lavoro a un altro deve poter contare su congrui trasferimenti proporzionali alla retribuzione, che durino il tempo necessario anche per eventuali riqualificazioni professionali concordate coi servizi per l’impiego. Vanno però evitati i sussidi «a perdere», senza contropartite da parte dei beneficiari (come succede in Italia). Di nuovo, con le riforme progettate dalla Commissione Hartz nei primi anni 2000, il governo tedesco ha quasi rivoluzionato il suo sistema di ammortizzatori sociali. La percentuale di disoccupati che percepisce l’indennità è oggi in Germania tre volte superiore a quella italiana: ma i soldi si ricevono (fino a un massimo di due anni) solo a patto di rispettare i requisiti di attivazione, anche se questo comporta spostamenti geografici o nuovi tipi di lavoro. L’Italia è ancora molto distante da tale approdo. La riforma messa in cantiere dal ministro Fornero comprende anche questo obiettivo: potenziamento delle prestazioni di «secondo pilastro» (quelle contro la disoccupazione, appunto), e il loro stretto collegamento con i servizi per l’impiego. Se la trattativa aperta con i sindacati non farà passi concreti in questa direzione la riforma non sarà seria. La terza regola si chiama infine «prevenzione», soprattutto nei confronti dei più giovani. Come i Paesi scandinavi, anche la Germania ha avviato numerose iniziative per potenziare il raccordo scuola-lavoro e contrastare i rischi di «deragliamento» che possono manifestarsi nel passaggio da un ciclo formativo all’altro.
Una vasta gamma di programmi locali ha affrontato in particolare la sfida dei cosiddetti «neet» (persone «not in education, employment or training», che in Italia costituiscono ormai una vera e propria piaga sociale): i giovani che «non fanno niente», non vanno a scuola né cercano occupazione. Il tradizionale sistema dell’apprendistato ha inoltre contrastato in Germania (anche se non del tutto) la proliferazione del cosiddetto precariato: un altro dei problemi che va affrontato di petto nelle consultazioni in corso fra il Ministro Fornero e le parti sociali. Tutta l’Europa (non solo Angela Merkel) sta riconoscendo al governo Monti di essersi rimboccato le maniche e di aver cominciato a fare (bene) i compiti a casa. Per molti aspetti, fra cui anche la crescita, la riforma del mercato del lavoro sarà il compito più delicato e cruciale. Se il governo fallisce o vola basso, l’economia italiana rischia davvero di non aver più forza (lavoro) per funzionare.