CHE COS’È L’APARTHEID NEL MONDO DEL LAVORO E COME (NON) LO SI COMBATTE

IL DUALISMO FRA PROTETTI E NON PROTETTI CHE CARATTERIZZA IL NOSTRO TESSUTO PRODUTTIVO NON SI CURA CON I PANNICELLI CALDI 

Estratto dal terzo capitolo – “Il lavoro diviso” – del libro Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma (Mondadori), pp. 95-96 – Il libro è scritto nella forma del colloquio tra me e un interlocutore immaginario (i cui interventi sono evidenziati in corsivo) il quale contrappone alle mie idee e proposte le ragioni della linea ufficiale del Pd

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Siamo tutti d’accordo sul punto che si debba arrivare a un superamento delle differenze ingiustificate esistenti. Ma non ci si può arrivare dall’oggi al domani. Nel documento approvato dall’assemblea programmatica del Pd del maggio 2010 è detto chiaramente che occorre proporsi la “graduale introduzione di una base di diritti di cittadinanza”, perché la parificazione completa è “un obiettivo da collocare in un quadro di elevata e consolidata dinamica della produttività, condizione necessaria a compensare il connesso aumento di costo perl’impresa”.

Non mi sembra una posizione molto convincente, per la nuova generazione. Immagina che, trent’anni or sono, in Sud Africa un partito si fosse rivolto ai neri, che allora erano Pesantemente discriminati su tutti i piani da un regime di ferreo apartheid, con un discorso di questo genere: “noi auspicheremmo per voi una piena parità rispetto ai bianchi, ma ci rendiamo conto che questo è un obiettivo prematuro e un po’ troppo costoso; per il momento, dunque, non potete pretendere di salire sugli stessi autobus dei bianchi e di mangiare nei loro stessi ristoranti; per voi proponiamo soltanto la graduale introduzione di una base di diritti di cittadinanza”. Secondo te, quel partito avrebbe potuto qualificarsi come “democratico”? Ora, pensa al nostro tessuto produttivo, dove abbiamo i bianchi, con rapporti di lavoro subordinato regolare, e i neri suddivisi in paria di serie B, di serie C e di serie D. I neri, a differenza dei bianchi, non hanno limiti di orario, possono essere mandati a casa senza un giorno di preavviso e senza un euro di indennizzo, non vengono pagati se si ammalano, non hanno diritto a permessi o ferie retribuite. Nella grande azienda di cui abbiamo parlato all’inizio non hanno diritto neanche alla chiavetta per la macchina del caffè, al materiale di cancelleria, al parcheggio dell’auto in azienda, a salire sul pulmino aziendale che fa la navetta tra l’azienda e il centro-città. Ecco: immagina che un partito dica a questi lavoratori di serie B, C e D: “noi auspicheremmo per voi una piena parità rispetto a quelli di serie A, ma ci rendiamo conto che per il momento questo è impossibile; è un obiettivo da collocare in un quadro di elevata e consolidata dinamica della produttività, condizione necessaria a compensare il connesso aumento di costo per l’impresa; per il momento, dunque, proponiamo per voi soltanto la graduale introduzione di una base di diritti di cittadinanza”. Non “i diritti di cittadinanza” tout court, che sarebbe velleitario, eccessivo: solo “una base” di quei diritti. Voi neri non potete pretendere di avere le stesse retribuzioni dei vostri colleghi, la tredicesima e il premio di produzione, i limiti di orario; e neanche – ohibò – una qualche garanzia di continuità del reddito e del rapporto: per voi proponiamo soltanto e, sia ben chiaro, gradualmente “una base di diritti di cittadinanza”, e un aumento dei contributi previdenziali, perché il vostro lavoro costa troppo poco. Che cosa possono pensare quei lavoratori di un partito che fa loro discorso di questo genere?

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