LE LINEE GENERALI DEL NUOVO ORDINAMENTO DEL LAVORO E DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI NECESSARIO – INSIEME A DIVERSE ALTRE COSE – PERCHÉ L’ITALIA TORNI A CRESCERE
Intervista svolta durate l’incontro del 4 novembre 2011 promosso dagli Industriali di Reggio Emilia, pubblicata sulla rivista Vision – il punto di vista degli industriali reggiani, dicembre 2011
Senatore Ichino, all’assemblea del Gruppo Metalmeccanico lei ha presentato la sua idea di riforma del mercato del lavoro. Lei proporrebbe una revisione del sistema di protezione del lavoratore nel nostro Paese e una riscrittura sintetica dell’intero ordinamento giuslavoristico. Ce ne può parlare?
Le proposte sono ispirate all’idea di una trasformazione profonda, ma possibile, niente affatto utopistica, del sistema di protezione del lavoratore nel nostro Paese. Penso a un’Italia nella quale, come nel nord-Europa, i lavoratori non abbiano paura del mercato del lavoro, ma al contrario trovino in esso la libertà effettiva di scelta; che significa maggiore forza contrattuale. L’idea centrale del progetto è di consentire la sperimentazione in Italia di un sistema che coniughi il massimo possibile di flessibilità per l’impresa con il massimo possibile di sicurezza per il lavoratore. Penso, dunque, a un mercato arricchito da un grande afflusso di investimenti da tutto il mondo, innervato da un sistema di servizi pubblici e privati di informazione, orientamento professionale e formazione permanente, capaci di garantire ai cittadini, lungo la loro intera vita lavorativa, una pari opportunità di scelta e di accesso alle occasioni di lavoro che meglio soddisfano le loro esigenze e aspirazioni. Penso a un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori, capace di selezionare il meglio dell’imprenditoria mondiale, valutando il piano industriale innovativo e guidando i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore, garantendo la ripartizione corretta dei frutti della scommessa, quando sarà stata vinta. Penso a un’amministrazione pubblica nella quale la trasparenza totale e la cultura della valutazione e della misurazione consentono di fare spazio al merito e restituiscono ai dipendenti l’orgoglio e il prestigio della funzione pubblica.
Quindi, sostanzialmente, tutti a tempo indeterminato, con un sistema che presenti meno rigidità in uscita ma con maggiore sicurezza nel caso di perdita del posto…
Sì: propongo di promuovere una grande intesa tra lavoratori e imprenditori, nella quale questi ultimi rinunciano al lavoro precario in cambio di un contratto di lavoro a tempo indeterminato più flessibile grazie all’applicazione di una tecnica di protezione della stabilità diversa da quella attuale per i licenziamenti dettati da motivo economico-organizzativo.
Entriamo nel dettaglio tecnico. Come sarebbe strutturata questa intesa?
Innanzitutto i nuovi rapporti di lavoro, ad eccezione di quelli stagionali o puramente occasionali, si costituirebbero con un contratto a tempo indeterminato, che si apre con un periodo di prova di sei mesi. La contribuzione previdenziale potrebbe venire rideterminata in misura uguale per tutti i nuovi rapporti, sulla base della media ponderata della contribuzione attuale di subordinati e parasubordinati. Si potrebbe prevedere una fiscalizzazione del contributo nel primo anno per i giovani, le donne e gli anziani che determini la riduzione del costo al livello di un rapporto di lavoro a progetto attuale mentre la semplificazione degli adempimenti ridurrebbe drasticamente i costi di transazione. Dopo il periodo di prova, si applicherebbe la protezione prevista dall’articolo 18 dello Statuto per il licenziamento disciplinare e contro il licenziamento discriminatorio, per rappresaglia, o comunque per motivo illecito, mentre in caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi, il lavoratore riceverebbe dall’impresa un congruo indennizzo che cresce con l’anzianità di servizio.
Per quanto riguarda il sistema di ricollocazione dei lavoratori cosa prevede?
Verrebbe senza dubbio attivata un’assicurazione complementare contro la disoccupazione, che porti il trattamento complessivo a un livello paragonabile a quelli scandinavi: durata pari al rapporto intercorso con limite massimo di tre anni, con copertura iniziale del 90% dell’ultima retribuzione, decrescente nei due anni successivi fino al 70%, condizionata alla disponibilità effettiva del lavoratore per le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione. Il progetto si fonda, infatti, proprio su questa scommessa: che sia possibile ridurre anche in Italia i tempi medi di una buona ricollocazione del lavoratore che perde il posto entro limiti simili a quelli che si osservano nei Paesi del Nord-Europa. Il know-how necessario esiste già nel nostro Paese: basta chiederlo, retribuendolo a dovere, alle imprese specializzate in questo campo. Oltre che, ovviamente, alle agenzie pubbliche operanti nel settore, là dove esse funzionano bene. L’assicurazione e i servizi collegati, affidati ad agenzie scelte dalle imprese o ad enti bilaterali costituiti di comune accordo con i sindacati, dovrebbero essere finanziati interamente dalle imprese stesse (con un contributo medio stimato intorno allo 0,5% del monte salari): più rapida è la ricollocazione del lavoratore licenziato, più basso è il costo del sostegno del reddito per l’impresa sarebbe un forte incentivo economico all’efficienza dei servizi di outplacement; il compito del giudice dovrebbe essere limitato a controllare, su eventuale denuncia del lavoratore, che il licenziamento non sia in realtà dettato da motivi illeciti (per esempio: licenziamento squilibrato a danno di persone disabili, donne, lavoratori sindacalizzati, ecc.); il “filtro” dei licenziamenti per motivo economico sarebbe costituito invece essenzialmente dal suo costo per l’impresa.
Il sindacato le contesta di voler introdurre un sistema che dà troppa libertà alle imprese di licenziare.
Il nostro Paese deve affrontare un’emergenza grave nel suo mercato del lavoro: la situazione di vero e proprio apartheid che, tra i 18 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, divide la metà che gode di un regime di forte stabilità (dipendenti pubblici e dipendenti da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dall’altra metà, che oggi porta tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto di un ordinamento il cui alto grado di protezione è inversamente proporzionale all’estensione della sua area di applicazione effettiva. Un Paese moderno, attento alla comparazione con le esperienze offerte dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta o si manifesta in misura enormemente inferiore, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera infatti da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico-produttive. Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per altro verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera al di fuori del tipo-legale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
A questi motivi – di per sé più che sufficienti per giustificare un intervento incisivo di riforma – se permette se ne aggiunge un altro: la fase di recessione che stiamo attraversando.
Appunto, è ragionevole prevedere che, se l’ordinamento resta quello attuale, nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende la maggior parte delle centinaia di migliaia di persone che nella crisi stanno perdendo il vecchio lavoro, ne ritroveranno uno, se pure lo ritroveranno, nelle forme più instabili e meno protette. L’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro di serie B o C, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. È proprio in un periodo di crisi economica, cioè di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità; proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.
Le imprese da parte loro sostengono invece che questo sistema sia, in alcuni casi, troppo costoso.
Io non lo credo. Penso invece che sono l’ingessatura dei rapporti di lavoro e comunque il difetto di flessibilità del tessuto produttivo determinate dal nostro vecchio sistema di relazioni industriali che costano molto più, anche alla singola impresa, di un sistema moderno ed efficiente di assistenza ai lavoratori nel mercato.
Per concludere, cosa ne pensa della riforma del sistema della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva?
Occorre certamente una riforma della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, che consenta di individuare il sindacato o coalizione sindacale che raccoglie la maggioranza dei consensi, al livello aziendale e ai livelli superiori fino a quello nazionale. A questo sindacato o coalizione deve essere attribuito il potere di stipulare contratti collettivi con efficacia generale nell’ambito di sua competenza. Al sindacato minoritario, invece, quando superi una soglia minima dimensionale, occorre garantire il diritto di non firmare il contratto, senza per questo perdere il diritto a costituire la rappresentanza sindacale riconosciuta in azienda. Il contratto collettivo nazionale stipulato dal sindacato o coalizione maggioritaria resta la disciplina applicabile in tutta la categoria (come disciplina di default), salvo che a un livello inferiore – regionale o aziendale – un sindacato o coalizione maggioritaria abbia stipulato un altro contratto di contenuto diverso.