ANCORA SULLA “LETTERA AD UN PRECARIO ICHINIANO”: PERCHÉ LA RIFORMA CONVIENE SIA AGLI OUTSIDER SIA AGLI INSIDER

AL GIUSLAVORISTA DELLA CGIL, CHE ENTRA NEL MERITO DI ALCUNI NODI CRUCIALI DEL PROGETTO FLEXSECURITY PER CONTESTARNE I VANTAGGI SUL VERSANTE DEI LAVORATORI,  RISPONDO MOSTRANDO (SPERO) L’INFONDATEZZA DELLE CONTESTAZIONI

Lettera di Franco Scarpelli, professore di diritto del lavoro all’Università di Milano Bicocca e membro della Consulta giuridica nazionale della Cgil, pervenuta il 12 gennaio 2012, in riferimento alla mia replica alla Lettera a un precario ichiniano, che era comparsa sul sito le l’Unità il 27 dicembre 2011 – Seguono, evidenziate in colore azzurro, le mie risposte punto per punto alle contestazioni contenute in quest’ultima lettere – Alle quali ha fatto seguito il 17 gennaio un’altra lettera di Franco Scarpelli con una ulteriore mia risposta, anche quest’ultima evidenziata in colore azzurro

Caro Pietro,
faccio riferimento al tuo dialogo con Leonardo, l’autore dell’articolo in forma di lettera al “precario ichiniano” sul sito dell’Unità.
     Tu obietti a Leonardo di fornire al suo ideale interlocutore un’informazione falsa: anche nei tuoi commenti, però, dici cose che non mi sembrano del tutto corrette (e direi che potremmo concedere a Leonardo un maggiore diritto alla semplificazione di quanto sia concesso a noi giuristi del lavoro, ed a maggior ragione a te che sei autore delle proposte discusse).
     Tu affermi che il progetto flexsecurity “estende l’applicazione dell’articolo 18 contro il licenziamento discriminatorio o di mero capriccio a tutta la metà dei lavoratori dipendenti che oggi ne sono privi, ma estende ad essi anche tutte le altre protezioni essenziali, secondo i migliori standard internazionali (maternità/paternità, malattia, ferie retribuite, ecc.)”.
     L’affermazione è parzialmente errata, e propone un argomento infondato a sostengo della tua proposta, perché:
   a) i lavoratori dipendenti (secondo la nozione classica di subordinazione) dellepiccole imprese, o assunti con contratti atipici, godono già (sul piano legale) della protezione ex art. 18 contro il licenziamento discriminatorio, e sono già titolari dei diritti di maternità, ferie ecc.;
   b) per quel che riguarda il licenziamento per mero capriccio, si tratta di una nozione ambigua (in breve: o corrisponde al discriminatorio, e allora nulla aggiunge, o implica una verifica della ragione economica dichiarata dal datore di lavoro, e allora crea una contraddizione con il cuore della tua proposta);
   c) in ogni caso, è noto che la protezione contro il licenziamento discriminatorio, o comunque per ragioni di capriccio e inconfessabili, è molto difficile per la difficoltà di provare tali ragioni (ed una delle ragioni per affidare al giudice il controllo sulla giustificazione economica del licenziamento è proprio quella di dare effettività alle tutela antidiscriminatorie!);
   d) alcuni lavoratori subordinati atipici (ad es. i lavoratori a termine) godono comunque, di diritto e di fatto, della possibilità di far valere i vizi molto frequenti dei contratti in base ai quali sono impiegati (potendo in molti casi chiedere addirittura la stabilizzazione del rapporto di lavoro).
Nelle imprese che attuassero la tua proposta, e dove questi lavoratori fossero assunti col contratto “unico” (cioè con il rapporto – apparentemente – a tempo indeterminato, ma soggetto al nuovo e diverso statuto giuridico) gli stessi divengono licenziabili alle regole che proponi (licenziamento per motivi economici, non sindacabili dal giudice): per i rapporti di lavoro di breve durata, che sono molto frequenti, la proposta di fatto consente all’impresa una semplificazione e una riduzione dei rischi di contenzioso, con costi di licenziamento molto bassi (l’indennità assorbe il preavviso, di solo un mese, e non è dovuto il contratto di ricollocazione). Ci possono essere delle buone ragioni per operare questa semplificazione e ridurre i terreni di contenzioso, ma anche qui va detto che lo scambio rispetto al regime attuale non è a somma positiva per il lavoratore. Quello che voglio dire, a te e a Leonardo, è che a questi lavoratori (il bacino dei precari impiegati per brevi periodi) il tuo progetto non mi pare portare grandi vantaggi (se non per quelli che oggi sono impiegati come falsi lavoratori autonomi, ammesso che tale prassi si riduca, ma solo per la durata del contratto), ed anzi porta indubbi vantaggi all’impresa senza chiedere praticamente nulla in cambio (investimenti sulla formazione, impegni alla stabilizzazione di una quota o altro…);
   e) per i lavoratori “parasubordinati” (oggi: contratti a progetto e altri) la tua proposta configura in effetti un’aggiunta di tutele, che deriva dal fatto che adotti una nozione di lavoratore dipendente più ampia di quella classica, idonea a ricomprendervi una parte dei lavoratori giuridicamente autonomi ma economicamente dipendenti. Anche qui, però, l’assunzione con il nuovo standard abbatte di fatto le possibilità di tutela legale del lavoratore che sia impiegato scorrettamente con un contratto a progetto (ed anche qui può ritenersi che la riduzione dei motivi di contenzioso sia un bene, ma va detto che il conseguente vantaggio sembra collocarsi in gran parte dal lato dell’impresa, che appunto godrà di uno strumento unico di assunzione per brevi periodi – per i lavori sui quali non è interessata a investire sulla professionalità – con abbattimento dei rischi di contenzioso senza rilevanti vantaggi per i dipendenti).
     Permettimi un’ultima considerazione. La proposta del contratto di ricollocazione a mio parere è interessante per gli aspetti che tendono a creare dei meccanismi seri di accompagnamento sul mercato del lavoro (in assenza, purtroppo, di analoga capacità da parte delle istituzioni pubbliche di governo del mercato del lavoro).
     Tuttavia mi pare abbia ragione Leonardo – pur con le sue semplificazioni, che però a mio parere giungono alla sostanza – a dire al suo interlocutore che gli si prospetta una via di accesso alla terra promessa (nella quale già vivono quelli che tu ed altri – con scelta linguistica che a me pare spesso irresponsabile – chiamate gli iperprotetti), che però in molti casi potrà interrompersi, senza derivarne grandi vantaggi (vantaggi che invece ci sono, e significativi, dal lato dell’impresa).
     Insomma, per semplificare a mia volta: il precario ichiniano nella realtà non sembra guadagnarci gran che (e qualcosa comunque perde; salvo forse quello che per le sue qualità rimane lungo tempo nell’impresa … ma questo l’avrebbero assunto anche con le regole attuali!); l’iperprotetto apparentemente non perde nulla (ma apparentemente, perché se vuole cambiare impresa si troverà anch’esso, giovane o vecchio che sia, con un contratto unico a tutele ridotte); l’impresa ci guadagna certamente (sui rapporti oggi “precari” guadagna semplificazione e riduzione dei rischi; su quelli lunghi deve investire sul contratto di ricollocazione, ma va detto che già oggi i licenziamenti dei lavoratori “standard”, nella media e grande impresa, hanno costi elevati, che dunque saranno solo indirizzati diversamente).
     Forse, per convincere quel giovane precario della reale bontà della promessa mancano delle cose, perché la precarietà è effetto prima di tutto di fattori sostanziali: la tendenza di molte imprese a risparmiare sul lavoro (salva la cerchia ristretta dei core workers) e dunque lo scarso investimento sulla professionalità deilavoratori marginali (che saranno precari, per tale ragione, anche quando saranno assunto con un bel “contratto unico”). E dunque perché non c’è alcuna regola che (non dico obblighi, ma almeno) incentivi le imprese a stabilizzare i rapporti di lavoro dei nuovi assunti, né alcuna che incentivi le stesse imprese a investire sui lavoratori prima di licenziarli, e non dopo?
Un caro saluto.
Franco Scarpelli (franco.scarpelli@unimib.it)

RISPONDO PUNTO PER PUNTO ALLE CONTESTAZIONI DI FRANCO SCARPELLI
Caro Franco,
innanzitutto grazie per esserti preso la briga di studiare il progetto e di entrare nel merito delle singole soluzioni proposte. Do seguito al dialogo rispondendo alle tue contestazioni, punto per punto.
   a) Tu osservi che i lavoratori dipendenti godono già oggi della protezione offerta dall’articolo 18 dello Statuto contro le discriminazioni, poiché quella tutela non è limitata alle imprese con più di 15 dipendenti. Tu stesso dai atto, però, che il nostro ordinamento oggi non ricomprende nella nozione di  “lavoro dipendente” le collaborazioni autonome continuative, né nella forma del “lavoro a progetto”, né nella forma della “partita Iva”. Secondo i calcoli che ho proposto nel mio ultimo libro (Inchiesta sul lavoro), sotto queste forme si celano circa due milioni di rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente, oggi esclusi dalla protezione antidiscriminatoria, che invece ne godrebbero con la riforma che propongo.
   b) Sostieni, poi, che la nozione di “licenziamento per mero capriccio” (vietato, secondo la mia proposta) sia ambigua, troppo indefinita. Probabilmente ti è sfuggita (non sarebbe certo una tua grave colpa), nel disegno di legge n. 1873/2009,  la formulazione del sesto comma dell’articolo 2119: “Le esigenze economiche, organizzative o comunque inerenti alla produzione, che motivano il licenziamento, non sono soggette a sindacato giudiziale, salvo il controllo, quando il lavoratore ne faccia denuncia, circa la sussistenza di motivi discriminatori determinanti, o motivi di mero capriccio, intendendosi per tali motivi futili totalmente estranei alle esigenze economiche, organizzative o produttive aziendali. Questa formulazione della norma è mirata a consentire al giudice di dichiarare nullo non soltanto il licenziamento dettato da uno dei motivi espressamente vietati dalla legge antidiscriminatoria (opinione, razza, genere, attività sindacale, orientamento sessuale, ecc.), bensì anche il licenziamento dettato da motivi non espressamente vietati, ma comunque “estranei alle esigenze economiche, organizzative o produttive aziendali”. Qui gli esempi di scuola ti sono ben noti: non sarebbe consentito licenziare un dipendente per ragioni di tifo calcistico, per un diverbio, per mera antipatia personale, ecc. A me sembra che questa formulazione sia sufficientemente precisa, se si vuole ottenere ciò che noi giuslavoristi italiani teorizziamo vanamente da sempre: cioè una vera insindacabilità delle scelte gestionali dell’imprenditore; ma se hai da proporre qualche suggerimento per migliorare la definizione, questo mi interesserà moltissimo.
   c1) Ancora a proposito del licenziamento discriminatorio o capriccioso, sostieni che la protezione del lavoratore contro di esso sarebbe “molto difficile per la difficoltà di provare tali ragioni”. Non mi pare proprio che le cose stiano così: l’esperienza quarantennale dell’applicazione dell’articolo 28 dello Statuto, in materia di repressione delle discriminazioni antisindacali, mostra come i giudici del lavoro abbiano saputo individuare tali discriminazioni con molta incisività ed efficacia anche quando esse si sono manifestate in forme diverse dal licenziamento, quando cioè non c’era la “trincea avanzata” del controllo sul “giustificato motivo oggettivo” a costituire una barriera ulteriore a protezione del lavoratore. Aggiungo che la legge n. 125/1991 agevola notevolmente l’assolvimento dell’onere della prova circa la discriminazione a carico del lavoratore; e che comunque l’accertamento del giudice può fondarsi anche su di una presunzione semplice. La comparazione internazionale mostra, infine, come proprio là dove il controllo sul “giustificato motivo oggettivo” è meno stretto o non esiste del tutto si sia sviluppata una giurisprudenza antidiscriminatoria più robusta e incisiva.
   c2) In tema di licenziamento discriminatorio affermi che “una delle ragioni per affidare al giudice il controllo sulla giustificazione economica … è proprio quella di dare effettività alle tutele antidiscriminatorie”. Qui dissento nettamente. Non mi sembra ragionevole introdurre una disposizione che ha l’effetto di ingessare gran parte del tessuto produttivo al solo fine di prevenire comportamenti illeciti che possono e devono considerarsi marginali e che – soprattutto – possono e devono essere efficacemente combattuti in altri modi.
   d1) Osservi che “alcuni lavoratori subordinati atipici (per es. i lavoratori a termine) godono comunque, di diritto e di fatto, della possibilità di far valere i vizi molto frequenti dei contratti in base ai quali sono impiegati (potendo in molti casi chiedere addirittura la stabilizzazione del rapporto di lavoro)”. Questo è vero in linea di diritto; assai meno in linea di fatto: i dati disponibili mostrano come il contenzioso in questo campo investa quattro o cinque casi ogni diecimila. In linea di fatto, dunque, lasciare le cose come stanno significa accettare il perdurare dei due milioni di rapporti a termine sommati agli altrettanti rapporti di lavoro “sostanzialmente dipendente ma in forma autonoma”, cioè proprio quell’anomalia che la Commissione Europea precisamente contesta all’Italia.
   d2) Qui tu aggiungi che “a questi lavoratori (il bacino dei precari impiegati per brevi periodi) il [mio] progetto non [ti] pare portare grandi vantaggi”, limitandosi di fatto a sancire formalmente la loro precarietà, perché il progetto prevede che nel corso dei primi due anni essi possano essere comunque licenziati con il solo pagamento di una indennità pari a una mensilità per anno di anzianità. Ti rispondo che proprio questo costo del licenziamento – pari all’8,3% della retribuzione complessiva percepita dal lavoratore – costituisce una svolta importante, nell’ambito del “bacino dei precari”: esso, infatti, determina un contesto nel quale l’impresa non ha alcun interesse a frazionare i rapporti di lavoro, quando essi rispondono a un suo interesse permanente, perché questo frazionamento determina un aumento di costo (pari a un dodicesimo della retribuzione annua). Per non dire di tutti gli altri diritti che, con  la riforma, acquisirebbero i lavoratori sostanzialmente dipendenti, oggi impiegati con la nostra acquiescenza in forma di collaboratori autonomi.
   e) Nel § e delle tue osservazioni mi dai atto di quest’ultimo dato; ma obietti che “l’assunzione con il nuovo standard abbatte di fatto le possibilità di tutela legale del lavoratore che sia impiegato scorrettamente con un contratto a progetto”. Il tuo argomento si può leggere così: è vero che, con il nuovo standard, due milioni di odierni collaboratori autonomi (partite Iva fasulle e lavoratori a progetto) godrebbero automaticamente (senza bisogno di un preventivo intervento di ispettori e/o avvocati per il riconoscimento della qualificazione corretta del rapporto) di protezione antidiscriminatoria, malattia retribuita, maternità/paternità, diritti sindacali in azienda, sicurezza economica e professionale in caso di licenziamento; ma con il nuovo standard essi perderebbero la possibilità che hanno oggi di fare causa all’impresa per cui lavorano, al fine di ottenere, oltre a tutto questo, anche l’applicazione dell’articolo 18. Ora, se è vero che oggi soltanto quattro ogni diecimila di questi collaboratori autonomi effettivamente esercitano la facoltà di ricorrere in giudizio contro l’impresa per rivendicare il riconoscimento della subordinazione, riuscendo a dimostrare la propria ragione soltanto in metà dei casi, sostenere che l’attuale ordinamento sia preferibile rispetto alla riforma significa sostenere che quelle due cause vinte oggi ogni diecimila casi valgono di più dell’estensione di tutti i diritti sopra elencati agli altri 9.998 lavoratori. Fammi sapere se davvero intendi sostenere questo.
     A conclusione della tua lettera chiedi: “perché non c’è alcuna regola che (non dico obblighi, ma almeno) incentivi le imprese a stabilizzare i rapporti di lavoro dei nuovi assunti, né alcuna che incentivi le stesse imprese a investire sui lavoratori prima di licenziarli, e non dopo?”. Torno a risponderti che quella regola c’è eccome. Secondo il progetto di cui stiamo discutendo, come si è visto, fin dall’inizio del rapporto l’impresa ha un incentivo economico alla prosecuzione del rapporto con il neo-assunto, pari all’8,3% della retribuzione complessiva: se infatti lo licenzia (o non converte l’eventuale contratto a termine in contratto a tempo indeterminato: art. 2097) la retribuzione complessiva è aumentata di quell’8,3%, che l’impresa invece risparmia se il rapporto prosegue. Questa previsione attua compiutamente quanto il Pd dice di voler ottenere (ma a me sembra non si ottenga con le sue proposte ufficiali), cioè che la flessibilità del lavoro comporti un costo aggiuntivo per l’impresa, a parità di ogni altra condizione. Nella riforma, poi, c’è anche l’incentivo per l’impresa a “investire sul lavoratore prima di [meglio: invece che] licenziarlo”,  ove ciò sia possibile: perché in caso di licenziamento l’impresa deve accollarsi, oltre ai costi del contratto di ricollocazione, anche il costo dell’indennità di licenziamento; mentre se l’impresa stessa punta a “ricollocare” il lavoratore al proprio interno, essa ha soltanto il costo del corso di riqualificazione mirato al nuovo posto cui il lavoratore deve essere adibito.
     Un’ultima osservazione circa la posizione dell’insider che perde il vecchio posto protetto dall’articolo 18, e che tu temi sia danneggiato dal ritrovarsi a lavorare nel nuovo regime. Ti sei chiesto quale probabilità abbiano oggi gli insider licenziati di ritrovare un posto protetto dall’articolo 18? E non pensi che proprio questa esperienza dovrebbe indurli a considerare il nuovo regime migliore del vecchio, che in questo passaggio li protegge così male?
     Spero di averti convinto. Ma se vedi dei difetti negli argomenti che ti propongo, ti prego di non interrompere questo dialogo, per me molto interessante e – spero – chiarificatore per i lettori.
Pietro

LA CONTROREPLICA DI FRANCO SCARPELLI
Caro Pietro,
ti ringrazio dello spazio che mi hai concesso e delle articolate risposte. Non vorrei abusare del tempo tuo e dei tuoi lettori, ma le tue risposte mi inducono a tornare almeno sulla questione centrale del nostro scambio.
In buona sostanza, la critica che ti ho rivolto è la seguente.
La tua proposta di contratto prevalente, pur formalmente a tempo indeterminato, non porta significativi vantaggi per i lavoratori precari (salvo, come ti ho riconosciuto, per i migliori trattamenti di cui, durante il rapporto, godranno i falsi lavoratori autonomi che fossero effettivamente impiegati secondo il nuovo statuto giuridico); al contrario ne porta all’impresa (recesso sostanzialmente libero, semplificazione, abbattimento notevole dei rischi e dei costi di contenzioso) senza chiedere alla stessa impresa un particolare impegno nella prospettiva della stabilizzazione di tali rapporti e dell’investimento sulla formazione die lavoratori.
Ribadisco che tale osservazione vale soprattutto per i casi più frequenti, e più preoccupanti per gli effetti negativi sul piano sociale ed economico, dei rapporti di lavoro di breve durata (calcolabili in mesi e non in anni). Anche i dati più recenti (relativi ai contratti a termine) confermano che i rapporti di lavoro precari hanno in prevalenza una durata calcolabile in mesi, non in anni, e la cosa più preoccupante è che va calando il c.d. tasso di conversione in normali rapporti a tempo indeterminato. Questo è il fenomeno più grave da affrontare.
I tuoi contro-argomenti sono due.
In primo luogo mi obietti che un meccanismo di aggravio dei costi di frazionamento dei rapporti di lavoro è previsto, e sarebbe l’indennità di preavviso/licenziamento quantificabile in una mensilità per ogni anno di anzianità (e dunque in un costo del lavoro aggiuntivo pari all’8,3%).
Vorrei farti notare, innanzitutto, che nel tuo progetto (nuovo art. 2119 c.c.) tale costo è previsto solo per i lavoratori che abbiano “compiuto” almeno un anno di anzianità, mentre per i rapporti più brevi sembra che nulla sia dovuto, né a titolo di preavviso né a titolo di indennità di licenziamento.
Perché questo costo non deve esserci per un lavoro che arrivi a 6, 8 o 11 mesi? (salva l’ipotesi di un’effettiva necessità di impiego a termine, che già oggi può essere soddisfatta senza costi aggiuntivi per l’impresa).
In ogni caso, l’ampio utilizzo di lavoro precario (non in tutte le imprese, per fortuna!) si basa su scelte organizzative (creazione di un’area di marginal workers a flessibilità estrema, non sindacalizzabili, non interessati a politiche formative, ecc.) che non penso possano essere contrastate da un mero (e modesto) aumento del costo del lavoro, che per questi rapporti rimarrebbe comunque assai più basso rispetto a quelli standard.
Direi di più: in una fase iniziale del rapporto di lavoro, se inserito nella prospettiva del rapporto standard, non vedo nulla di male a prevedere costi del lavoro più bassi per l’impresa (ciò che già avviene in molte forme contrattuali di inserimento), se però questi sono compensati, per l’appunto, da meccanismi in grado di spingere la stessa impresa a formare e stabilizzare i lavoratori.
Il tuo secondo contro-argomento pone un problema di principio ed uno di metodo.
Mi obietti che l’argomento relativo alla perdita della possibilità di fare una causa a tutela dei propri diritti (per il lavoratore oggi impiegato scorrettamente, in ipotesi, sulla base di contratti atipici, subordinati o falsi autonomi), deve fare i conti con la realtà, in quanto oggi solo 2 lavoratori ogni 10.000 casi riuscirebbero ad ottenere dai Tribunali una pronuncia favorevole.
Ora, in primo luogo (ed è la questione di principio) a me sembra che l’argomento statistico non possa mai essere decisivo con riguardo ad una questione che coinvolge i diritti: se un lavoratore venisse utilizzato con un contratto precario anche per coprire un posto stabile, in assenza di qualsiasi ragionevole giustificazione per l’impresa, e se riconosciamo che questo lavoratore abbia diritto all’accertamento della natura standard di quel rapporto (che è poi il diritto al lavoro sancito dall’art. 4 della Costituzione), e a tutti i diritti che ne conseguono, il fatto che questo diritto sia scarsamente esercitato non sarà mai un buon argomento per sostenere la cancellazione di quel diritto (fosse anche uno solo il lavoratore che ne ottiene la sanzione).
Sul punto, tuttavia, temo che la nostra diversa visione del ruolo delle regole non sia facilmente conciliabile.
C’è però anche, se mi permetti, un vizio di metodo del tuo argomento, poiché fondato sull’affermazione di un dato statistico che non dimostri in alcun modo e di cui non fornisci le fonti, pur assegnandogli una straordinaria carica retorica (attribuisci l’idea che “quelle due cause vinte oggi ogni diecimila casi valgono di più dell’estensione di tutti i diritti sopra elencati agli altri 9.998 lavoratori”!). Quel dato inoltre, oltre che indimostrabile, è certamente errato.
Tu sostieni che ci sarebbero nel nostro mercato circa due milioni di rapporti a termine, affermando poi che “i dati disponibili mostrano come il contenzioso in questo campo investa quattro o cinque casi ogni diecimila”. Nel seguito coinvolgi nella tua statistica anche i rapporti autonomi ma sostanzialmente dipendenti, estendendo a questi il dato relativo al tasso di contenzioso e aggiungendo che solo la metà delle azioni proposte avrebbe esito positivo.
Sul dato relativo all’insieme (il numero dei rapporti a termine, così come l’altro relativi ai rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente, sulla cui dimostrazione ti soffermi nel tuo ultimo libro), e sulla loro lettura e interpretazione, si potrebbe discutere a lungo, ma non è possibile in questa sede.
Invece credo sia pacifica l’impossibilità di disporre di dati certi in ordine alla percentuale di casi investiti dal contenzioso, che invece tu indichi con sicurezza.
Bastino in merito alcune osservazioni:
–      vi sono molti casi in cui il lavoratore contesta stragiudizialmente i rapporti di lavoro precario, riuscendo a ottenere un accordo transattivo a contenuto economico (ma in qualche caso, per mia esperienza, anche il posto di lavoro!); questi casi, molto numerosi nella mia esperienza, sfuggono certamente al tuo dato statistico;
–      nella gran parte dei casi di contenzioso giudiziario, il lavoratore agisce impugnando nella stessa causa una pluralità di rapporti precari (a volte anche 4-5-6, mi sono capitati anche numeri assai più elevati): poiché tu fornisci come insieme il numero dei “rapporti” a termine (il solo ricavabile dalle statistiche sul mercato del lavoro), che però possono interessare e spesso interessano i medesimi lavoratori, e lo rapporti al numero di cause (rilevato chissà come), è evidente che il confronto è falsato, e la proporzione che ne ricavi è certamente errata per difetto;
–      per quel che ne so, gli unici dati disponibili sulle diverse tipologie delle (sole) cause radicate nei Tribunali sono quelli registrati dalle cancellerie al momento dell’iscrizione a ruolo: tali dati sono imprecisi, perché dipendono da valutazioni non sempre corrette degli operatori (avvocati, cancellieri); ma, soprattutto, nella gran parte delle vicende di cui stiamo parlando è facile che il contenzioso sia registrato come causa sul licenziamento, piuttosto che sul contratto a termine, rimanendo perciò fuori dalla tua statistica (il lavoratore, infatti, impugna i contratti a termine, somministrati o altro, solo quando “viene lasciato a casa”, e dunque la causa viene spesso registrata come relativa a un licenziamento);
–      infine, non vedo proprio dove tu prenda il dato relativo al tasso di successo (la metà, tu dici) di questa specifica tipologia di cause, che non credo sia rilevato da alcuna registrazione (e che, in ogni caso, non terrebbe conto dei numerosissimi casi di accordo conciliativo, probabilmente il risultato più frequente nella definizione di questo genere di giudizi).
In definitiva il tuo argomento “quantitativo” mi pare decisamente inattendibile.
Ad esso mi sento di opporre un argomento “qualitativo”, tratto da lunga e intensa esperienza personale: ai tanti lavoratori precari che si rivolgono a un avvocato per sapere se hanno dei diritti da vantare (così come agli uffici vertenze dei sindacati), oggi possono prospettarsi (se il contratto è stato usato scorrettamente) possibilità concrete e rilevanti di tutela: il posto di lavoro o un significativo risarcimento, ben superiore ad un mese per ogni anno di anzianità.
Domani, se fosse approvato il tuo progetto, dovremo dire loro che di fronte a un impiego di pochi mesi e al successivo licenziamento non c’è nulla da fare.
Poiché non sono qui a difendere gli interessi degli avvocati del lavoro, sarei ben lieto se ciò avvenisse quale effetto di una nuova legge che semplifichi i rapporti, abbatta il contenzioso (ed i relativi costi per l’impresa) ma sostenga fortemente la possibilità per quei lavoratori di ottenere una buona formazione e ragionevoli opportunità di stabilizzazione del rapporto di lavoro.
Purtroppo, non mi pare sia questo l’effetto, né della tua proposta né di molte altre che stanno circolando in questa fase.
Ancora una volta, temo, le operazione di razionalizzazione di cui si discute, senza nulla garantire in termini di aumento di opportunità di una buona occupazione, erodono ulteriormente le possibilità di far valere diritti oggi previsti.
Ti prego di non spendermi contro l’abusato argomento dei giuslavoristi che difendono l’esistente: come ho sottolineato, personalmente sono disponibile a discutere di ogni soluzione ma se c’è da togliere dei diritti oggi esistenti vorrei, per usare un’espressione poco elegante ma efficace, “vedere cammello”! (e non dati statistici indimostrabili, please…).
Perdona se ho abusato del tuo spazio.
Un caro saluto.
Franco Scarpelli

CONTRO-CONTRO-REPLICA (con due precisazioni)
Mi limito a tre risposte sintetiche, anche per non appesantire troppo questo – pur interessante – dialogo.
   1. L’intenzione mia e di tutti gli altri firmatari del d.d.l. n. 1873 non era certo di privare dell’indennità di licenziamento il lavoratore che perda il posto prima del compimento di un anno di lavoro; poiché F.S. mi fa osservare che il nuovo testo dell’articolo 2119, a causa di una particolarità della formulazione, si presta a essere letto in questo modo contrario all’intendimento originario, lo ringrazio di questa utile osservazione e prendo nota della necessità di chiarire meglio questo punto nella prossima edizione del progetto. Deve essere dunque chiaro che in ogni caso il maggior costo corrispondente all’indennità di licenziamento deve essere sopportato dall’impresa anche per il licenziamento (come per la mancata conversione del contratto a termine) che si verifichi prima che il lavoratore abbia maturato un anno intero di anzianità, con la sola eccezione del rapporto di lavoro in prova.
   2. Quanto al dato – dichiaratamente molto approssimativo – che ho indicato nella mia prima risposta, riguardante l’entità del contenzioso giudiziale in materia di contestazione del termine o della qualificazione del rapporto, esso si basa sugli ultimi dati analitici Istat disponibili sul contenzioso in materia di lavoro (che mi risultano essere ancora quelli relativi al 2004: ma non credo che le proporzioni siano molto mutate negli ultimi 8 anni). Secondo questi dati, basati sulla classificazione attualmente in uso negli uffici giudiziari, le sentenze di primo grado in materia di estinzione del rapporto (che comprendono anche quelle relative all’impugnazione del termine e molte di quelle relative alla contestazione della qualificazione della prestazione come autonoma o subordinata) sono state nell’arco dell’anno circa 6.800 in tutta Italia. Se – come è ragionevole ipotizzare, sulla base della comune esperienza forense e dell’osservazione di quanto accade presso la Sezione Lavoro del Tribunale di Milano – tre quarti di queste riguardano licenziamenti, le sentenze riguardanti contratti a termine o “a progetto” sono tra le 1.500 e le 2.000, sui quattro milioni circa del totale di questi contratti precari: riguardano, cioè, da tre a cinque casi ogni diecimila. Vero è che, come osserva F.S., molti procedimenti non si chiudono con una sentenza, ma con una transazione; ma il discorso rimarrebbe lo stesso se, invece che da tre a cinque ogni diecimila, i casi giudiziali fossero da sei a dieci o da dieci a quindici ogni diecimila: saremmo sempre intorno all’uno per cento di casi in cui la protezione si rivela effettiva, a fronte di 99 casi nei quali essa è del tutto disattesa (possiamo noi giuristi starcene con le mani in mano di fronte a simili catastrofi del diritto?). Spero, comunque, che fosse chiaro a tutti che con questo dato non intendevo fornire una misura precisa, bensì soltanto un ordine di grandezza. Quanto alla percentuale di vittoria e sconfitta, la ripartizione in due parti tendenzialmente eguali si fonda sulla teoria circa l’autoselezione delle parti litiganti, che mostra come, quale che sia l’orientamento del giudice, la percentuale degli accoglimenti e delle reiezioni tende sempre verso il 50 e 50%, salve le situazioni di asimmetria informativa tra le parti circa l’orientamento stesso (su richiesta, fornirò anche i riferimenti bibliografici su questo punto).
   3. La vera e più rilevante contestazione che F.S. muove al ragionamento fondato su questo dato statistico riguarda la “questione di principio”:   “a me sembra – egli dice – che l’argomento statistico non possa mai essere decisivo con riguardo ad una questione che coinvolge i diritti… il fatto che questo diritto sia scarsamente esercitato non sarà mai un buon argomento per sostenere la cancellazione di quel diritto (fosse anche uno solo il lavoratore che ne ottiene la sanzione)”. Qui dissento. Il precetto cui il legislatore ordinario deve attenersi è la norma costituzionale, non la legge ordinaria vigente; in questo caso i precetti da tenere fermi sono quelli de
l “diritto al lavoro” sancito dall’articolo 4 della Costituzione e delle protezioni del lavoro sancite dagli articoli 35-41. Ci sono molti modi in cui la Repubblica può proporsi di attuare questi precetti di rango superiore, rendendo effettive le protezioni che essi impongono. Se il modo attuale determina una situazione in cui meno dell’uno per cento dei soggetti destinatari della protezione godono effettivamente della protezione dovuta, è dovere del legislatore ordinario cercare un modo più efficace per renderla maggiormente effettiva.   (p.i.)

 

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