IL FUTURISTA: ESISTONO PROTEZIONI MIGLIORI DELL’ARTICOLO 18

IL FUOCO DI SBARRAMENTO CONTRO LA RIFORMA DEL LAVORO SERVE PER IMPEDIRE CHE SI ENTRI NEL MERITO DEI PROGETTI CHE SONO SUL TAPPETO; IL RISULTATO È CHE SI PERPETUA LA SITUAZIONE ATTUALE DI APARTHEID FRA PROTETTI E NON PROTETTI

Intervista a cura di Piercamillo Falasca pubblicata su il Futurista il 6 gennaio 2012

Senatore Ichino, all’inizio dell’anno ci si può concedere qualche previsione più o meno azzardata: Lei crede davvero che il 2012 sarà l’anno della modernizzazione delle regole del mercato del lavoro italiano? Non c’è il rischio che la montagna partorisca il topolino o, peggio, che il governo Monti e la maggioranza parlamentare sacrifichino la riforma del lavoro sull’altare della sopravvivenza dell’esecutivo?
Tutto può accadere, compreso l’ennesimo rinvio della riforma del diritto e del mercato del lavoro di fronte al fuoco di sbarramento degli oppositori, nonostante che essa sia stata indicata in modo molto chiaro e incisivo nel discorso programmatico di Monti del 17 novembre. Se però questo accadrà, non sarà perché la riforma sarà stata sacrificata sull’altare della sopravvivenza del nuovo Governo, bensì al contrario perché il Governo stesso avrà perso lo slancio necessario per sopravvivere. In altre parole: questo esecutivo trae la propria forza e il proprio largo consenso nell’opinione pubblica dalla capacità di superare i veti dei vecchi apparati e delle lobbies, non solo nella materia del lavoro, ma anche in quella delle liberalizzazioni, della riduzione della spesa pubblica, delle dismissioni del patrimonio pubblico poco o male utilizzato; nel momento in cui questa capacità di superare i veti venisse meno, verrebbe meno anche la ragion d’essere di questo Governo.

Nel suo ultimo libro (Inchiesta sul lavoro, Mondadori), rispondendo alle domande di un contraddittore immaginario lei prova a confutare i falsi miti e le critiche più ricorrenti che le vengono mosse. Facciamo un gioco simile: commenti la seguente osservazione: “Se dicono che per garantire i precari bisogna precarizzare i garantiti riprende la lotta di classe”. È di Nichi Vendola.
La risposta è facile: nessuno dei progetti di riforma presentati in questa legislatura prevede che vengano toccati i rapporti di lavoro stabili regolari già esistenti. Chi parla di “precarizzazione dei garantiti” lo fa soltanto per spaventare l’opinione pubblica, per alimentare la paura dell’“ondata di licenziamenti” che conseguirebbe alla riforma. È la tecnica del fuoco di sbarramento. Man mano che l’opinione pubblica incomincia a essere informata correttamente sui termini effettivi del progetto di riforma, le ansie si dissolvono.

Ma di fronte a questa obiezione gli oppositori replicano che la riforma avrebbe l’effetto di rendere precari anche coloro che, lasciando le cose come stanno, sarebbero invece destinati a conquistare un posto di lavoro garantito. Sostengono, cioè, che si tratterebbe di un pareggiamento al ribasso.
Questa replica è la diretta conseguenza dell’idea che l’unica forma possibile di protezione contro la “precarietà” sia costituita dall’articolo 18: senza quello, tutti diventano “licenziabili” e dunque tutti diventano “precari”, tutti sono privati della libertà e della dignità nel luogo di lavoro. Se fosse così, dovremmo concluderne che l’Europa è un continente interamente popolato da precari che lavorano in condizioni non dignitose e di insicurezza, esclusi soltanto i nove milioni di lavoratori dipendenti italiani che godono della protezione dell’articolo 18. Ma le cose non stanno affatto così: esistono tecniche di protezione diverse – penso in particolare a quelle sperimentate nei Paesi scandinavi – che garantiscono la libertà, la sicurezza e la dignità dei lavoratori dipendenti molto meglio dell’articolo 18. E che, soprattutto, non generano dualismo di tutele nel tessuto produttivo, come invece lo genera l’articolo 18. Puntano a fare del mercato del lavoro la fonte principale della forza contrattuale e della sicurezza economica della persona che lavora.

È il discorso che anno fa Raffaele Bonanni fece ai suoi colleghi della Cgil: “Senza fabbriche, non ci sono diritti”. Non è in fondo questo il motivo più profondo per il quale abbiamo bisogno di una riforma del mercato del lavoro?
Sì. In questo la nostra cultura industriale e del lavoro è davvero molto arretrata. Direi addirittura rattrappita e incartapecorita. Non ci rendiamo conto del fatto che la migliore difesa della libertà e sicurezza economica e professionale del lavoratore dipendente è costituita dalla possibilità che gli si dà di cambiare azienda quando le cose non vanno bene. Per questo occorre – oltre che aprire il Paese agli investimenti stranieri per aumentare la domanda di lavoro – anche rendere il nostro mercato del lavoro molto più trasparente di quanto non lo sia oggi, innervarlo in modo capillare di servizi di informazione, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, assistenza alla mobilità geografica del lavoratore. Non vedo oggi un modo diverso dal progetto flexsecurity per ottenere in tempi rapidi questa profonda trasformazione.

Il progetto flexsecurity non ha come punto debole quello di scaricare un costo molto elevato sulle imprese?
No. Le imprese oggi soggette all’articolo 18 ci guadagnano. Perché, in conseguenza di quella forma di protezione della stabilità dei posti di lavoro esse oggi subiscono sistematicamente un rilevante ritardo nell’aggiustamento degli organici, quando l’aggiustamento comporta dei licenziamenti: dai due ai quattro anni, a seconda del settore e delle dimensioni dell’azienda. Da questo ritardo deriva per le imprese un costo molto elevato, pari alla somma degli stipendi e contributi che continuano a essere pagati, pur essendo riferiti a rapporti di lavoro con produttività marginale scarsa o nulla. Il progetto flexsecurity fa leva proprio sul risparmio di questo costo, dal quale le imprese vengono esentate, chiedendo loro in cambio di utilizzare una parte delle risorse risparmiate per garantire ai lavoratori una sicurezza di livello scandinavo nel passaggio dal vecchio posto al nuovo. Che le imprese ci guadagnino, è stato confermato dall’analisi approfondita del progetto, svolta dal Gruppo Intersettoriale Direttori del Personale-GIDP, che sostiene con forza il progetto. Questo spiega perché tra le proposte e richieste rivolte al nostro Governo ultimamente dal Comitato Investitori Esteri di Confindustria ci sia anche il varo di questa riforma.

Ultima domanda, molto netta: come replicherebbe ad un giovane precario 25enne o 34enne che le chiedesse “A cosa serve oggi il sindacato?”
Nell’era della globalizzazione il sindacato deve essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori, che consente loro di attirare il meglio dell’imprenditoria mondiale, ingaggiando l’imprenditore capace di valorizzare meglio di tutti gli altri il loro lavoro. Per questo occorre un sindacato capace di valutare i piani industriali, da qualsiasi parte del mondo provengano, e di valutare l’attendibilità economica, tecnica ed etica di chi li propone; se la valutazione è positiva, il mestiere di quel sindacato consiste nel guidare i lavoratori nella negoziazione e stipulazione della scommessa comune con l’imprenditore sul piano industriale; controllare l’attuazione del piano; infine controllare la spartizione dei frutti, quando la scommessa comune sia stata vinta.

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