MARIO MONTI HA GIÀ CONSEGUITO UN RISULTATO STRAORDINARIO: UN “NON DISSENSO” TRA TUTTE LE PRINCIPALI PARTI POLITICHE, SINDACALI E IMPRENDITORIALI SU QUATTRO PUNTI FERMI, CHE DEFINISCONO IN MODO INCISIVO I CONTENUTI ESSENZIALI DELLA RIFORMA
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 4 gennaio 2012
Nella conferenza-stampa di fine anno il Presidente del Consiglio ha indicato quattro punti-fermi che dovranno caratterizzare la riforma del lavoro, sui quali nessuno finora ha manifestato dissenso, né in sede sindacale, né in sede politica. Primo: occorre voltar pagina rispetto al dualismo attuale fra lavoratori protetti e non protetti. Secondo: la nuova disciplina dovrà applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro dipendente e solo a questi. Terzo: la nuova nozione di “lavoro dipendente” dovrà essere facilmente e immediatamente individuabile, senza bisogno di complicate disquisizioni giuridiche come quelle necessarie oggi per distinguere il lavoro subordinato dalle collaborazioni autonome. Quarto: la nuova disciplina dovrà garantire a tutti i (nuovi) lavoratori dipendenti sicurezza economica e professionale in caso di perdita del posto, secondo i migliori standard nord-europei.
Accantoniamo per un momento la questione posta dal PdL, il quale chiede che la riforma si applichi subito anche ai rapporti di lavoro già esistenti e non solo ai nuovi. Il fatto che, per il resto, sui quattro punti incisivamente enunciati da Mario Monti si stia registrando un consenso unanime, sia da parte delle forze politiche principali, sia da parte delle maggiori confederazioni sindacali e imprenditoriali, costituisce già un risultato di importanza straordinaria, che solo due mesi fa era assolutamente imprevedibile.
Fermi, dunque, questi “paletti” sui quali si registra un’amplissima condivisione, ora spetta alle parti politiche, sindacali e imprenditoriali indicare quali possano essere le soluzioni praticabili e, se possibile, costruirle insieme. Una prima soluzione, su cui si registra largo consenso, è quella relativa alla nuova nozione di lavoro dipendente: la indicano in modo sorprendentemente uniforme tutti e quattro i progetti principali di riforma oggi sul tavolo (in ordine alfabetico e cronologico: Ichino e altri n. 1873/2009, Madia e altri n. 2630/2009; Nerozzi e altri n. 2000/2010; Raisi-Della Vedova n. 4277/2011), i quali tutti definiscono come “lavoro dipendente” quello prestato in modo continuativo, con un reddito di livello medio-basso (il limite annuo varia, a seconda dei progetti, fra i 30.000 e i 40.000 euro annui) e svolto in condizioni di monocommittenza, cioè da una persona che trae dal rapporto più dei due terzi del proprio reddito di lavoro. Su questo punto le confederazioni sindacali e imprenditoriali maggiori non sembrano sollevare obiezioni.
Quanto alla nuova disciplina applicabile al nuovo “lavoro dipendente” così definito, le proposte di legge Madia e Nerozzi, in linea con il progetto degli economisti Boeri e Garibaldi, indicano la via di un primo triennio durante il quale in caso di licenziamento il lavoratore ha diritto soltanto a un indennizzo, dopo il quale scatta per tutti la disciplina oggi applicabile al lavoro subordinato, compreso l’articolo 18 dello Statuto del 1970. Il pregio maggiore di questa ipotesi di riforma – in favore della quale si sono ultimamente pronunciati alcuni autorevoli esponenti della maggioranza del Pd – è la semplicità. Ma ci sono anche due difetti: quella soglia dei tre anni, che rischia di diventare uno “scalone” difficile da superare per i new entrants, come lo è oggi il limite dei 36 mesi per i contratti a termine; inoltre il fatto che essa affida interamente la soluzione del problema degli ammortizzatori sociali a uno Stato oggi privo di risorse economiche e di servizi efficienti.
I progetti Ichino e Raisi-Della Vedova, invece, propongono per tutto il nuovo “lavoro dipendente” l’applicazione fin da subito dell’articolo 18 contro le discriminazioni, e di un indennizzo per il caso di licenziamento non discriminatorio. Inoltre, dall’inizio del terzo anno in poi una responsabilizzazione dell’impresa che licenzia, cui viene accollato un trattamento complementare di disoccupazione.
Queste le proposte sul tappeto; altre potranno esserne presentate nei giorni prossimi. Ma le distanze non sembrano affatto incolmabili. Al contrario, una riforma seria e incisiva di questa materia delicata e importantissima per la crescita economica del Paese sembra ormai più che matura sia sul piano tecnico, sia su quello politico.