ANCORA SUI COSTI DEL PROGETTO FLEXSECURITY

MA OGNI EURO INVESTITO IN SERVIZI AL MERCATO DEL LAVORO RENDE IL DOPPIO A IMPRESE E LAVORATORI – LA DISOCCUPAZIONE É FIGLIA DELLA DISINFORMAZIONE E DEL DIFETTO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE MIRATA

Intervista a cura di Sergio Luciano pubblicata sull’inserto Outplacement allegato al n. 50 di Panorama Economy, 21 dicembre 2011

Da dati Unioncamere risulta che addirittura l’80% dei posti di lavoro disponibili non riesce a incrociare la relativa potenziale offerta, e viceversa: un’incredibile inefficienza del sistema. Come si è creata e come superarla?
Il fenomeno è ben conosciuto e analizzato da tempo. Lo studio più meritatamente famoso è quello che ha dato luogo al “modello Mortensen Pissarides”: i due grandi economisti, che per questo studio l’anno scorso hanno meritatamente ricevuto il premio Nobel, si sono interrogati proprio sul motivo per cui in uno stesso mercato del lavoro possono convivere disoccupazione e skill shortages, cioè posti di lavoro scoperti per difetto di offerta di manodopera. La risposta va cercata negli attriti che tipicamente affliggono il funzionamento dei mercati del lavoro: principalmente i difetti di informazione, di formazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, e di mobilità geografica dei lavoratori.

Questi sono proprio i difetti cui intende rispondere un buon servizio di outplacement. Che valore può avere un’efficace rete di outplacement e l’uso diffuso di questo servizio da parte delle aziende e dei lavoratori in uscita?
Il modello proposto da Mortensen e Pissarides mostra come siano proprio i servizi di outplacement, cioè di assistenza intensiva al lavoratore che cerca una nuova occupazione, quelli che possono svolgere un ruolo decisivo per la riduzione della disoccupazione frizionale e per la copertura degli skill shortages. È vero che questi servizi sono costosi; ma è anche vero che alle imprese costa molto di più il ritardo nell’aggiustamento degli organici. Il discorso vale sia per il ritardo nell’aggiustamento in riduzione, dovuto alla difficoltà del licenziamento, sia per il ritardo dell’aggiustamento in aumento, dovuto alla difficoltà di reperimento della manodopera dotata della qualificazione necessaria. 

Qui si innesta il discorso sulle altre politiche attive del lavoro contemporaneamente indispensabili. Ed è il tema nel quale assume rilievo la Sua proposta di riforma di questa materia contenuta nel d.d.l. n. 1873/2009. Che cosa prevede il suo progetto?
L’idea è proprio questa: offrire alle imprese l’esenzione dal controllo giudiziale sul giustificato motivo economico od organizzativo di licenziamento, in cambio della loro responsabilizzazione per l’assistenza intensiva di cui il lavoratore ha bisogno per trovare una nuova occupazione, senza perdite rilevanti di reddito e senza dispersione di professionalità nel passaggio. Questa responsabilizzazione si concreta, nel mio progetto di riforma, in un “contratto di ricollocazione” che impegna il lavoratore a mettersi a disposizione dell’agenzia di outplacement designata dall’impresa, per un tempo pari al suo orario di lavoro precedente al licenziamento; e impegna l’impresa a corrispondergli un trattamento complementare di disoccupazione, tale da aumentarne l’importo al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno ed eventualmente all’80 per il secondo e al 70 per il terzo.

Un costo molto ingente per l’impresa che licenzia.
No. Perché il costo del servizio di outplacement può e deve essere rimborsato dalla Regione, la quale può utilizzare per questo i contributi del Fondo Sociale Europeo, oggi per lo più male utilizzati o non utilizzati del tutto. Quanto al trattamento complementare di disoccupazione, per il primo anno esso costa pochissimo all’impresa, perché la maggior parte del trattamento la paga già l’Inps: 80 per cento nel settore industriale, 60 per cento negli altri settori. E un buon servizio di outplacement in genere è in grado di ricollocare qualsiasi lavoratore nel giro di sei mesi. Anche senza outplacement, del resto, i dati forniti da Banca d’Italia e Inps mostrano che otto lavoratori su dieci che perdono il posto in Italia lo ritrovano entro l’anno. Non sarebbe difficile, per mezzo di una assistenza intensiva ben impostata, portare questo dato a nove su dieci, avvicinandoci così ai dati eccellenti dei Paesi del nord-Europa, dove si arriva al 96 o 97 per cento. E in questo modo le imprese sarebbero fortemente incentivate a scegliere i servizi di outplacement e di riqualificazione migliori.

Qual è l’atteggiamento delle parti sociali in merito, sia da parte datoriale che sindacale?
Proprio in questi giorni la Uil ha fatto integralmente proprio il mio progetto di riforma, per bocca del suo segretario generale Luigi Angeletti. Ho ragione di ritenere che almeno una larga apertura verrà nei giorni prossimi anche dalla Cisl, dalla Confcommercio e dalla Confindustria: l’ex-presidente di quest’ultima, Luca Cordero di Montezemolo, lo ha fatto proprio esplicitamente. Il progetto, poi, è sostenuto da tempo da numerose associazioni giovanili tra le quali annovero “La Repubblica degli Stagisti”, e dal Gruppo Intersettoriale Direttori del Personale con i suoi 2000 iscritti. Dalla Cgil, invece, per ora ci sono soltanto le prese di posizione favorevoli di singoli dirigenti, come quella di Sauro Serri, segretario degli edili di Modena; ma non escluderei che anche lì si possa verificare una svolta positiva su questo punto.

Qual è, se c’è, un modello internazionale in fatto di politiche attive del lavoro a cui si possa fare riferimento?
Per il progetto flexsecurity di cui abbiamo parlato ho fatto riferimento al modello danese, che è tra i più avanzati del mondo. E che ha dato ottima prova anche in questi anni di crisi economica severissima. Sbaglia chi sostiene che in Italia non si possa cercare di imitare le soluzioni migliori sperimentate da decenni nei Paesi scandinavi: le differenze di contesto non lo impediscono affatto. Viceversa, il solo vantaggio che abbiamo per il fatto di essere un Paese arretrato sta nella possibilità di percorrere in breve tempo la strada che altri Paesi più avanzati hanno percorso in decenni, sfruttando la loro esperienza.

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