SULLA COMPETENZA DELLA COMMISSIONE UE IN MERITO ALLA NOSTRA DENUNCIA

LO SCAMBIO CON L’UFFICIO COMPETENTE DI BRUXELLES, ORIENTATO A NEGARE LA LEGITTIMAZIONE DELLA COMMISSIONE A INTERVENIRE SUL DUALISMO DEL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO

La comunicazione dell’Ufficio Legislazione sociale e del lavoro della Commissione, del 5 dicembre 2011, e la replica inviata a nome dei firmatari della denuncia presentata il 14 settembre 2011

  Scarica il documento inviato dall’Ufficio Legislazione sociale e del lavoro della Commissione Europea

LA NOSTRA REPLICA ALLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE

All’Ufficio Legislazione sociale e del lavoro della Commissione Europea

Rispondo alla Vostra comunicazione EMPL/B2/TR/bge CHAP(2011) 2757, datata 5 dicembre 2011, con la quale il Capo Unità Legislazione sociale e del lavoro mi informa dell’intenzione di codesta Commissione di dichiararsi non competente sulla denuncia presentata da me con altri sei cittadini italiani il 14 settembre di quest’anno, avente a oggetto il dualismo del mercato del lavoro italiano. Osservo in proposito quanto segue.

1. La detta comunicazione si apre con questa affermazione: “Il dualismo del mercato del lavoro italiano […] è una questione che rientra pienamente nelle competenze degli Stati membri, i quali disciplinano il proprio mercato del lavoro nel modo che ritengono opportuno”.
Se fosse così, non si comprenderebbe perché l’Unione Europea abbia emanato una Direttiva – n. 1999/70/CE – avente per oggetto la disciplina dell’assunzione dei lavoratori dipendenti con contratti a tempo determinato: materia che riguarda appunto il funzionamento del mercato del lavoro. Mi sembra, dunque, che l’affermazione con cui la detta comunicazione esordisce – e che costituisce a ben vedere il fondamento di tutta la parte che segue della comunicazione stessa – sia con tutta evidenza errata.
Per altro verso, la comunicazione travisa il senso della denuncia ravvisando in essa la mera contestazione del dualismo del mercato del lavoro. In realtà, ciò che abbiamo inteso denunciare è la condotta delle autorità pubbliche le quali consentono sistematicamente ed esplicitamente, anche sul piano legislativo, il ricorso a contratti di lavoro precario sottratto all’applicazione dei rigorosi limiti imposti dall’ordinamento dell’Unione europea, sia riguardo ai presupposti di tali contratti, sia riguardo alla loro durata. Ciò che abbiamo denunciato non è una “possibile non corretta applicazione di concetti giuridici, in relazione ai quali la competenza spetta alle autorità nazionali”, bensì una vera e propria scelta di politica del lavoro che consente la violazione sistematica e la sostanziale disapplicazione su larga scala della direttiva n. 1999/70/CE.

2. La Vostra comunicazione prosegue affermando che i collaboratori autonomi o i collaboratori freelance non rientrano nel campo di applicazione della Direttiva n. 1999/70/CE, “in quanto concludono un contratto per la fornitura di servizi alle imprese e non sono legati da un rapporto di dipendenza”.
Ci permettiamo di sottolineare, a questo proposito, che l’intera motivazione della denuncia da noi presentata il 14 settembre 2011 era dedicata a mostrare proprio questo fatto: cioè che nel tessuto produttivo italiano l’insieme dei rapporti di lavoro subordinato non comprende affatto la totalità dei rapporti di lavoro dipendente. Tant’è vero che, come nella stessa denuncia è precisato, una legge dello Stato italiano (precisamente il d.l. n. 185/2008, all’articolo 19, comma 2°) per identificare i lavoratori “atipici” cui estendere il trattamento di disoccupazione, pone un requisito diverso e assai meno restrittivo rispetto a quello della “subordinazione” in senso tecnico: il requisito, cioè, che essi “a) operino in regime di monocommittenza, b) abbiano conseguito l’anno precedente un reddito lordo non superiore a 20.000 euro e non inferiore a 5.000 euro”. L’esistenza di questa norma legislativa costituisce una prova evidente del fatto che la nozione di “lavoro dipendente”, costituente il campo di applicazione del diritto del lavoro italiano, è assai più ampia di quella di “lavoro subordinato”, comprendendo essa anche quei collaboratori autonomi che operino continuativamente in regime di monocommittenza con basso reddito.
Questo dato normativo è ora ulteriormente confermato dall’articolo 8, comma 1°, del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, come convertito nella legge 14 settembre 2011 n. 148, dove si attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di regolare anche le collaborazioni continuative autonome e, addirittura, i rapporti di collaborazione autonoma con partita Iva: dove si dimostra che il legislatore italiano considera che anche tra i collaboratori autonomi e tra i lavoratori con partita Iva vi siano prestatori di lavoro che operano di fatto in posizione di dipendenza e che pertanto devono essere ricompresi nel campo di applicazione della contrattazione collettiva.

3. La Vostra comunicazione si fonda in sostanza sull’assunto secondo il quale ciascuno Stato membro è libero di stabilire i confini di applicazione del diritto europeo in materia di lavoro. Ma la Corte di Giustizia ha affermato esattamente il contrario rispetto a questo assunto: nella nostra denuncia abbiamo citato, a questo proposito, la sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85, Deborah Lawrie/Blum, nonché la sentenza 23 marzo 1982, causa 53/81, Levin, racc. pag. 1035,  dove si legge che: “la nozione di lavoratore ai sensi dell’art. 48 non può essere interpretata in vario modo, con riferimento agli ordinamenti nazionali, ma ha portata comunitaria. La nozione comunitaria di lavoratore, che definisce la sfera d’applicazione di tale libertà fondamentale, non può essere interpretata restrittivamente”. Inoltre la sentenza 26 febbraio 1992, C-3/90, M.J. e Bernini c. Minister Van Onderwijs En Wtenschappen, dove al § 14 si legge che “deve essere considerata lavoratore ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed accessorie”.

4. La Vostra comunicazione trae argomento a sostegno della tesi di cui sopra dalla clausola 2, par. 1, dell’accordo-quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE, cove si legge che l’accordo stesso “si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro”. Sennonché a noi pare evidentissimo che con questo passaggio dell’accordo-quadro citato le Parti stipulanti non hanno inteso affatto lasciare liberi gli Stati membri di allargare o restringere a piacimento l’area di applicazione dei principi e regole contenuti nell’accordo stesso. E deve trarsi argomento in senso esattamente contrario proprio dal passo citato, là dove si fa riferimento non soltanto ai rapporti di lavoro disciplinati come tali dalla legge, ma anche ai “contratti di assunzione” (espressione, questa, molto più generica e atecnica, che evidentemente è mirata a ricomprendere nel campo di applicazione dell’accordo qualsiasi forma di ingaggio di un lavoratore in posizione di sostanziale dipendenza).

5. Stupisce, poi, l’affermazione contenuta nella Vostra comunicazione, secondo la quale “la procedura d’infrazione diventa un’opzione praticabile soltanto nel momento in cui le normative nazionali contemplino espressamente una situazione che viola le disposizioni del diritto dell’UE”. Come noto, il procedimento di cui all’art. 258 TFUE si basa sull’oggettiva constatazione del mancato rispetto da parte di uno Stato membro degli obblighi ad esso incombenti in forza dei Trattati o di un atto di diritto derivato (sentenze 21 giugno 1988, causa 415/85, Commissione/Irlanda, Racc. pag. 3097, punto 9, 21 marzo 1991, causa C-209/89, Commissione/Italia, Racc. pag. I-1575, punto 6, 16 settembre 2004, causa C-248/02, Commissione/Italia, punto 26). Deve dunque considerarsi pacifico che l’inadempimento può consistere in:
– un atto normativo;
– un comportamento omissivo;
– una prassi amministrativa che presenti un certo grado di costanza e di generalità (v. sentenze 29 aprile 2004, causa C 387/99, Commissione/Germania, Racc. pag. I 3773, punto 42, e 26 aprile 2005, causa C 494/01, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I 3331, punto 28);
– divergenti interpretazioni giurisprudenziali (v. sentenza 9 dicembre 2003, causa C-129/00, Commissione/Italia, C-129/00, punto 33).
Ben può, pertanto, essere posta a fondamento di una procedura d’infrazione la situazione in cui uno Stato membro garantisca un adempimento soltanto formale dell’obbligo di attuazione di una direttiva, emanando una disciplina nazionale il cui contenuto sia astrattamente compatibile con la norma sovraordinata, mentre le prescrizioni del diritto dell’Unione europea risultano sostanzialmente aggirate e sistematicamente disattese nella loro applicazione pratica.

6. Nel caso che ci occupa, il corretto recepimento della direttiva 1999/70 nell’or¬dinamento italiano avrebbe presupposto che fosse garantito il risultato imposto dal diritto dell’Unione europea (al riguardo, cfr. da ultimo, sentenza 10 marzo 2011, causa C-109/09, Deutsche Lufthansa AG contro Gertraud Kumpan, punto 34 e ss.). In Italia si è invece operato, sul piano legislativo e amministrativo, in modo tale che quel risultato non poteva e non può che essere contraddetto nei fatti. Le condotte denunciate non riguardano i singoli operatori economici, bensì la mancata adozione da parte della Repubblica Italiana di misure idonee a impedire, e all’occorrenza punire, l’aggiramento e la sostanziale vanificazione del divieto di rinnovo senza limiti di un contratto di lavoro a tempo determinato mediante il ricorso a contratti di lavoro dipendente qualificati come collaborazioni autonome, suscettibili di reiterazione nel tempo fino ad assumere una durata complessiva anche ultradecennale. Non si tratta di mere “pratiche che […] fanno un uso improprio di determinati meccanismi e che […] contravvengono allo spirito della direttiva 1999/70/CE”: si tratta di uno Stato membro che viola permanentemente il proprio obbligo di prevedere misure per impedire, e all’occorrenza sanzionare tali pratiche aziendali.

7 . Il travisamento della nostra denuncia si manifesta anche nella conclusione della Vostra comunicazione, dove si osserva che nella nostra denuncia noi ci limiteremmo a segnalare degli abusi che vengono diffusamente commessi sul territorio italiano: abusi che sarebbe compito esclusivo dello Stato italiano reprimere. Ciò che noi abbiamo inteso denunciare è che l’ordinamento nazionale italiano,
   – riconoscendo esplicitamente la possibilità di ingaggio di persone in posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda anche con contratti diversi da quello di lavoro subordinato (quali le collaborazioni coordinate e continuative e i rapporti “con partita Iva”: v. l’articolo 8, comma 1°, del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, come convertito nella legge 14 settembre 2011 n. 148, citato sopra nel § 2),
   – consentendo che in tali contratti venga liberamente apposto il termine,
   – e consentendo che in tali contratti venga previsto un trattamento fortemente difforme da quello riservato nella stessa azienda ai lavoratori subordinati,
sostanzialmente dà via libera per una violazione sistematica della direttiva n. 1999/70/CE, che di fatto si verifica per milioni di lavoratori.

 Per tutti i motivi sopra esposti confidiamo che vorrete riconsiderare l’opinione esposta nella Vostra comunicazione del 5 dicembre 2011, alla quale queste note si riferiscono.

avv. Pietro Ichino
anche a nome di Emma Bonino, Benedetto Della Vedova, Antonio Funiciello, Giulia Innocenzi, Nicola Rossi, Eleonora Voltolina

Milano, 19 dicembre 2011

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab