RISPONDO PUNTO PER PUNTO ALL’ARTICOLO CON CUI IL GIUSLAVORISTA MODENESE CRITICA (SOPRATTUTTO) I CONTENUTI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 1873/2009
Articolo di Michele Tiraboschi pubblicato on line sul sito di Adapt l’8 dicembre 2011 – Le mie repliche punto per punto sono evidenziate dal paragrafo rientrato, dal carattere corsivo e dal colore blu
CHI HA PAURA DEL CONTRATTO UNICO?
Chi ha paura del contratto unico? Alla domanda, formulata con tono di sfida dai paladini della flexicurity all’italiana, si può e si deve rispondere nel modo più semplice possibile. Nessuna paura. Basta solo iniziare a chiamare le cose con il loro vero nome. E cioè parlare apertamente di abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Perché davvero sorprende l’insistenza nominalistica su un “contratto unico” che unico proprio non è.
Se, giustamente, Michele Tiraboschi comprende e sottolinea l’improprietà di questa “insistenza nominalistica” che elude i termini sostanziali del problema, perché non incomincia lui stesso a “chiamare le cose con il loro [vero] nome” e a chiarire a quale progetto di riforma la sua critica si riferisce? Come fa a non rendersi conto di quanto sia poco utile una discussione riferita in modo indifferenziato a progetti molto diversi tra loro, quali quelli del “contratto unico” contenuti nel progetto di legge Madia, o nel progetto di legge Nerozzi ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, oppure invece al progetto flexsecurity contenuto nei disegni di legge a mia prima firma n. 1481 e n. 1873/2009 e in quello presentato alla Camera dei Deputati da Della Vedova e Raisi?
È sufficiente grattare sotto la superficie, di quella che è una semplice quanto efficace immagine propagandistica, e scorrere nel dettaglio le principali proposte di legge fino ad oggi presentate in Parlamento per rendersi conto che rimane in vita, con qualche ritocco di vernice fresca, la gran parte delle tipologie di lavoro flessibile sin qui sperimentate compresi i famigerati stage, il lavoro interinale e il contratto a termine. Questi ultimi addirittura liberalizzati per le prime assunzioni. È così che si pensa di sostenere l’occupazione giovanile?
In altri interventi delle settimane scorse Michele Tiraboschi aveva denunciato l’appiattimento determinato dalla pretesa di ricondurre tutti i rapporti di lavoro dipendente a un unico tipo legale. Gli avevo quindi fatto osservare che al progetto flexsecurity contenuto nei d.d.l. n. 1481 e n. 1873/2009, a mia prima firma, questa pretesa non può proprio essere imputata: il progetto prevede infatti il mantenimento della possibilità di assunzione, con contratto a termine, regolata in rigorosa aderenza alla direttiva europea n. 1999/70/CE, o con contratto di lavoro temporaneo tramite agenzia (negli stessi casi in cui sarebbe ammesso il contratto a termine), o con contratto di apprendistato, di lavoro a tempo parziale, di job sharing, di telelavoro o di lavoro a domicilio, e anche con contratto di stage, con regole che ne garantiscono la genuina finalizzazione prioritaria e prevalente alla formazione del giovane lavoratore. A questo punto la critica di Michele Tiraboschi al progetto si sposta di 180 gradi: l’imputazione non è più di “appiattire”, ma al contrario di apportare soltanto “qualche ritocco di vernice fresca” su di un diritto del lavoro che rimane strutturato alla vecchia maniera. Non una parola sul fatto che nel nuovo regime non è più possibile assumere in forma di collaborazione continuativa autonoma un lavoratore sostanzialmente dipendente. Con tutta l’amicizia per lui, non mi sembra questo un modo costruttivo di discutere di un progetto di riforma, che avrà anche tutti i difetti di questo mondo, ma va presentato e analizzato per quello che è, non in una sua versione caricaturale. (p.i.)
Ma quale datore di lavoro opterà mai per il contratto unico a tempo indeterminato – liberato dall’articolo 18, ma caricato di eccessivi oneri di tutela del reddito del lavoratore in caso di estinzione del rapporto di lavoro – se rimane aperta la porta per le attuali tipologie flessibili di lavoro?
M.T. può affermare che “resta aperta la porta per le attuali tipologie flessibili” proprio perché ha obliterato il fatto che nel nuovo regime non è più possibile assumere in forma di collaborazione continuativa autonoma un lavoratore sostanzialmente dipendente. Ma che modo è questo di discutere di un progetto di riforma, ignorandone i contenuti essenziali?
Quanto al punto se sia più costoso per l’impresa il regime centrato sull’articolo 18 o il nuovo regime disegnato nel mio disegno di legge n. 1873/2009, rinvio il mio contraddittore al documento del Comitato Investitori Esteri di Confindustria, presentato al Governo nei giorni scorsi, nel quale si chiede esplicitamente proprio il varo senza indugio di quel disegno di legge. (p.i.)
Presentato sotto la nobile veste del “patto generazionale” tra padri e figli, il contratto unico finirà invero per interessare maggiormente i padri, che infatti non sono esclusi dalla sua applicazione. Basta ancora una volta leggere con un minimo di attenzione le proposte sin qui formulate per capire che il contratto unico troverà applicazione per tutti i contratti di lavoro accesi a partire da una certa data e non per l’assunzione di giovani o inoccupati. Quanto ai figli è l’esperienza dell’apprendistato a dimostrare che non è certo l’articolo 18 a frenare l’occupazione dei giovani, quanto la bassa produttività e competitività del nostro sistema produttivo in uno con la debolezza e inefficienza degli attuali percorsi formativi ed educativi che non preparano adeguatamente al mondo del lavoro e non accompagnano le giovani generazioni, orientandole, nella difficile transizione dalla scuola al lavoro. Non si spiegherebbe altrimenti il fallimento di un contratto nobile come l’apprendistato che stenta a decollare quantunque privo delle tutele sui licenziamenti al termine del periodo formativo e, anzi, accompagnato da robusti incentivi economici e normativi (sgravio contributivo, sotto-inquadramento e percentualizzazione della retribuzione, non computabilità dell’apprendista, ecc.). Si potrebbe certo obiettare che l’apprendistato è un contratto oneroso perché implica per le imprese di farsi carico dei costi della formazione. Ma sappiamo bene che questo è vero solo sulla carta. Non più del 20/25 per cento dei giovani apprendisti risulta infatti coinvolto nei percorsi formativi promossi della regioni e dalle parti sociali.
Qui M.T. ripropone la tesi – sua e dell’ex-ministro Maurizio Sacconi – secondo cui non ci sarebbe necessità di riforma del nostro diritto del lavoro, perché il vero intervento risolutivo di tutti i problemi sarebbe già stata attuato con la recente riforma dell’apprendistato; tale forma di assunzione garantirebbe infatti tutta la flessibilità in entrata necessaria per fluidificare il mercato del lavoro e per voltar pagina rispetto al dualismo attuale del tessuto produttivo fra lavoratori protetti e non protetti. Ma come possono Tiraboschi e Sacconi non rendersi conto che l’apprendistato – se è una cosa seria – non può costituire la forma di assunzione prevalente nella generalità delle situazioni? A me sembra evidente che i casi sono due: o l’apprendistato diventa la forma normale di ingresso nel tessuto produttivo, come accadde con il contratto di formazione e lavoro negli anni ’80 e ’90, e allora nella maggior parte dei casi esso perde il proprio contenuto formativo e diventa, per questo aspetto, oggetto di una simulazione fraudolenta diffusa e legalizzata; oppure – come è auspicabile – l’apprendistato conserva la propria genuina funzione formativa, e allora non può diventare la forma normale di assunzione, in riferimento alla generalità dei rapporti di lavoro. In ogni caso, la pretesa che con la riforma dell’apprendistato si risolvano tutti i problemi del mercato del lavoro non mi sembra davvero ragionevolmente sostenibile. (p.i.)
Certo, è vero che la proposta del contratto unico elimina drasticamente il lavoro autonomo coordinato e continuativo. Il cosiddetto lavoro a progetto della legge Biagi. Ma sappiamo che il lavoro parasubordinato è una piaga della pubblica amministrazione, più che del settore privato.
Già, perché dopo che nel settore privato la legge Biagi ha drasticamente ridotto la possibilità di ricorso alle collaborazioni autonome continuative, la fuga dal diritto del lavoro in questo settore ha incominciato ad avvenire sempre più frequentemente attraverso l’ingaggio del lavoratore previa apertura da parte sua della partita Iva. Che cosa propone M.T. per arginare questa simulazione fraudolenta ormai diffusissima? (p.i.)
E, comunque, la rigida equiparazione del lavoro a progetto al lavoro subordinato anche in tema di recesso dal rapporto di lavoro, nel sanzionare evidenti abusi, si traduce in un danno maggiore rendendo in un sol colpo illecite forme genuine di lavoro autonomo. Alimentando con ciò una linea di politica del diritto in chiara controtendenza con la recente evoluzione del mondo del lavoro, in quanto volta a far prevalere le rigidità della norma inderogabile di legge e la standardizzazione del lavoro, propria del contratto unico, sul dinamismo dei moderni modi di lavorare e produrre che reclamano autonomia, individualizzazione del rapporto e riconoscimento del merito anche nell’ambito del lavoro dipendente.
Ma all’inizio del suo articolo M.T. non ha detto che “rimane in vita, con qualche ritocco di vernice fresca, la gran parte delle tipologie di lavoro flessibile sin qui sperimentate”? Qui si ha la sgradevole sensazione di assistere a un gioco delle tre carte. Occorre più rigore e coerenza nella discussione critica! (p.i.)
Chi scrive appartiene a una scuola di pensiero che non hai mai considerato l’articolo 18 un tabù. Ma, nondimeno, ci appare una palese forzatura, se non una mistificazione abilmente giocata sui media, l’insistente richiamo al mantra della flexicurity per giustificare una operazione di politica del diritto che non ha certo l’obiettivo o la capacità di invertire le pessime performance del nostro mercato del lavoro in materia di occupazione giovanile. Quindici anni di dibattiti sulle tipologie contrattuali flessibili dovrebbero averci fatto capire, ma forse così ancora non è, che il vero problema del mercato del lavoro italiano non è tanto una riforma del quadro legale, ma un migliore incontro tra la domanda e offerta di lavoro.
M.T. torna a proporre l’idea su cui Maurizio Sacconi ha molto insistito nei tre anni e mezzo in cui ha rivestito la carica ministro del Lavoro: quella della moratoria legislativa. Che equivale a mantenere il regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro (a meno che si consideri sufficiente per superarlo la recente riforma dell’apprendistato). (p.i.)
Incontro che certo si basa sui contratti e sul formalismo giuridico, ma che trova il suo vero punto critico nelle competenze, nelle capacità e nelle attitudini delle persone. Potremmo fare tutte le riforme del mondo e importare in Italia – proprio nel momento in cui ha dimostrato, con la crisi, tutte le sue debolezze – il modello di regolazione del mercato del lavoro danese.
Qui M.T. converge con Sergio Cofferati, il quale nella trasmissione In Onda, del 17 dicembre scorso su La7, ha sostenuto che il regime danese avrebbe retto male alla crisi e il nuovo Governo socialdemocratico di quel Paese avrebbe manifestato l’intenzione di abrogarlo (affermazione del tutto inveritiera: risulta soltanto che il nuovo Governo danese sia intenzionato a modificare le scelte dell’Esecutivo precedente in materia di immigrazione ed estensione agli immigrati recenti del trattamento di disoccupazione, per evitare comportamenti opportunistici). A smentita di queste affermazioni richiamo lo studio di T.M. Andersen, A Flexicurity Labour Market in the Great Recession: the Case of Denmark, pubblicato nel maggio scorso e disponibile anche su questo sito, dove si mostra come il regime danese abbia retto sostanzialmente molto bene, almeno nei primi tre anni della grande crisi che stiamo attraversando. (p.i.)
Saremo tuttavia sempre punto e a capo se non inizieremo una volta per tutte a costruire, giorno dopo giorno, nei territori e nei settori produttivi, relazioni industriali partecipative e di prossimità unite a robusti e autentici percorsi di integrazione tra scuola, formazione e lavoro. Il contratto unico di primo ingresso per i giovani già c’è ed è l’apprendistato appena riformato. La freddezza e l’indifferenza con cui viene accolto ancora oggi sta a indicare che il nostro Paese ama fare le rivoluzioni nei salotti televisivi e sui giornali mentre ai giovani nessuno pensa concretamente. Per avere la coscienza a posto è sufficiente citarli e intestare a loro le riforme. Che poi queste siano vere o presunte poco importa.
Chi, secondo Michele Tiraboschi, ha “accolto con freddezza e indifferenza” la recente riforma dell’apprendistato? Se milioni di imprenditori e giovani lavoratori hanno mostrato scarso interesse per questa novità, non ha molto senso prendersela con “i salotti televisivi e i giornali”. Concordo con lui sul punto che l’apprendistato deve essere molto meglio valorizzato; ma mi sembra del tutto evidente che non può bastare l’accoppiata “moratoria legislativa-apprendistato riformato” per correggere i difetti gravissimi del nostro mercato del lavoro. Infine una domanda: che cosa risponde Michele Tiraboschi all’Unione Europea, che ci chiede di riformare la disciplina dei licenziamenti, anche per voltar pagina rispetto al dualismo del nostro mercato del lavoro? (p.i.)