TISCALI NOTIZIE: LIBERISMO, CAPITALISMO E RIFORMA DEL LAVORO

IL REGIME DI FLEXSECURITY AVREBBE L’EFFETTO DI COLLOCARE COMUNQUE L’ITALIA TRA I PAESI A PIÙ ALTO TASSO DI PROTEZIONE DEI LAVORATORI IN MATERIA DI LICENZIAMENTI

Intervista a cura di Michael Pontrelli per Tiscali Notizie – 5 dicembre 2011

Lei è uno dei principali protagonisti del dibattito in corso sulle misure da adottare per riformare il mercato del lavoro italiano e superare il dualismo attuale tra chi è super garantito e chi invece non ha garanzie ovvero i giovani precari. Iniziamo da questi ultimi: qual è la sua proposta per sconfiggere la precarietà?
La riforma che propongo consiste in questo: un nuovo diritto del lavoro che possa veramente applicarsi a tutti i rapporti di lavoro dipendente che si costituiranno da qui in avanti. Dovranno essere tutti a tempo indeterminato, tranne i casi classici di lavoro a termine (come le sostituzioni temporanee o i lavori stagionali); a tutti dovranno essere garantite le protezioni essenziali, secondo i migliori standard internazionali, a cominciare dalla tutela della salute, della maternità/paternità e contro le discriminazioni; ma nessuno dovrà essere inamovibile. A tutti coloro che perderanno il posto per ragioni economiche od organizzative dovrà essere assicurata una robusta garanzia di continuità del reddito e di investimento sulla loro professionalità.

Dunque le sue proposte, in sostanza, mettono in discussione l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che prevede il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa. Può spiegare meglio come funziona il regime che lei propone?
In realtà, la riforma che propongo porterà a raddoppiare il campo di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per la parte in cui esso garantisce protezione contro le discriminazioni: per questa parte, infatti, si prevede che esso venga applicato a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza dall’impresa per cui lavorano e non soltanto a metà di essi. La nuova tecnica di protezione contro i licenziamenti, imperniata sulla combinazione di una indennità di licenziamento con un “contratto di ricollocazione”, si applicherà invece per i licenziamenti di natura economica od organizzativa: cioè quelli nei quali, per un verso, non è in gioco la dignità e la libertà morale delle persone, per altro verso il giudice non ha quasi mai un’adeguata competenza tecnica. Il nuovo regime si applicherà, oltre che a tutti i lavoratori pacificamente qualificati come subordinati, anche a tutti coloro che lavorano continuativamente per un’impresa traendo dal rapporto più di due terzi del loro reddito di lavoro, a condizione che il reddito stesso non superi i quarantamila euro annui. Requisiti, questi, che non richiedono ispettori, giudici e avvocati per essere individuati, poiché emergono immediatamente dai tabulati dell’Inps e dell’Erario.

Le sue proposte stanno dividendo la sinistra. I critici affermano che l’economia italiana non si rilancia riducendo i diritti acquisiti dei lavoratori. Cosa risponde a queste critiche?
La riforma che propongo non tocca le posizioni dei lavoratori regolari stabili, poiché si applica soltanto ai nuovi rapporti che si costituiranno da qui in avanti. In questi nuovi rapporti essa non riduce affatto i diritti dei lavoratori, ma li amplia notevolmente. Basti pensare, per convincersene, che oggi, in termini di stock, il nostro vecchio diritto del lavoro si applica nella sua interezza (con articolo 18 e diritti sindacali in azienda) a circa metà soltanto dei 18 milioni e mezzo di lavoratori sostanzialmente dipendenti; e che, in termini di flusso, oggi in Italia in otto casi su dieci il lavoratore viene ingaggiato con rapporti di lavoro diversi dal rapporto stabile a tempo indeterminato. Con la riforma, a tutti i nuovi assunti si offre un rapporto di lavoro decente, con tutte le protezioni essenziali, e in particolare, con una disciplina dei licenziamenti allineata a quella dei Paesi del nord-Europa, cioè dei Paesi dove i lavoratori – e in particolare i più deboli tra di essi – stanno meglio che in qualsiasi altra parte del mondo.

Negli ultimi trent’anni il modello liberista ha comportato un aumento dello squilibrio tra le remunerazioni dei manager e quelle dei lavoratori. Mediamente si è passati da un rapporto di 10 a 1 ad un rapporto di 100 a 1. Per esempio l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, ha una retribuzione annuale di circa 5 milioni di euro. Perché nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro non si parla anche di questa “dualità”?
Quando la riforma che propongo sarà stata adottata, l’Italia resterà comunque tra i Paesi con il più alto tasso di protezione dei lavoratori. Quanto all’enorme allargamento delle differenze di reddito tra ricchi e poveri, esso è imputabile ad alcuni fenomeni che non hanno nulla a che fare con il diritto del lavoro applicabile: tanto è vero che quell’aumento delle differenze si è verificato a tutte le latitudini e longitudini. Ciò non toglie che occorre contrastarlo con decisione. Per questo occorre, innanzitutto, usare la leva fiscale: è assurdo che, in Italia, su di un reddito di lavoro di 1000 euro al mese si prelevino 110 euro per l’Irpef. Inoltre, occorre migliorare in modo molto deciso la qualità dei servizi scolastici e di quelli di orientamento scolastico e professionale: è questa la protezione migliore contro il rischio di povertà.

La sinistra liberal ha governato in Gran Bretagna con Tony Blair e in Spagna con Zapatero. Secondo molti entrambe le esperienze sono state deludenti. Perché oggi l’Italia dovrebbe proseguire su questa strada?
Non mi sembra che il quindicennio dei Governi guidati da Tony Blair in Gran Bretagna possa essere liquidato come deludente: è un periodo nel quale quel Paese ha migliorato le proprie posizioni in quasi tutte le graduatorie internazionali, relative sia alle performance economiche, sia al benessere sociale. La stessa cosa si può dire soltanto in misura minore della Spagna negli anni del Governo Zapatero; ma è comunque un periodo in cui vedo, anche in Spagna, più luci che ombre.

L’attuale sistema economico mette al centro della sua attenzione solamente la crescita, l’efficienza, la produttività e non più l’essere umano. Il capitalismo è ancora in grado di rappresentare le aspirazioni di progresso dell’uomo?   Il secolo passato ha visto un grande esperimento di sistema economico basato sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione: è stato un esperimento disastroso. Avrebbe senso parlare di “capitalismo” come di una categoria politica solo se fosse possibile contrapporla a un “non capitalismo”, cioè se oggi fosse in qualche modo proponibile un’alternativa all’organizzazione attuale dell’economia, caratterizzata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dal mercato tendenzialmente concorrenziale. Poiché, dopo la catastrofe dei regimi del “socialismo reale” questa alternativa non viene proposta da nessuna delle forze politiche maggiori, mi sembra che ora il discrimine politico passi tra chi, in questo contesto, si propone di garantire il massimo possibile di parità delle dotazioni di partenza e di opportunità per tutti insieme al massimo possibile di reti di sicurezza per i più deboli, e chi invece non ritiene prioritari questi obiettivi. Il mio progetto si propone proprio questi due obiettivi, in riferimento al funzionamento del tessuto produttivo e del mercato del lavoro.

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