PANORAMA: IL RINNEGATO ICHINO PARLA DI LAVORO (E DINTORNI)

IL SETTIMANALE DIRETTO DA GIORGIO MULÈ DEDICA UN AMPIO SERVIZIO DI COPERTINA ALLE MIE PROPOSTE DI POLITICA DEL LAVORO E AI MIEI RAPPORTI CON IL PD E CON LA CGIL

Intervista a cura di Maurizio Tortorella, pubblicata da Panorama il 1° dicembre 2011

Professore, nel suo ultimo libro «Inchiesta sul lavoro» lei si sottopone alle domande di un immaginario ispettore che la interroga su una «denuncia» collettiva presentata contro di lei dall’interno del Partito democratico. È una finzione letteraria… che, a ben vedere, assomiglia molto alla realtà di questi giorni. Lei soffre, di questa sua «diversità» nel centrosinistra?
Se ne soffrissi, avrei smesso di farne parte già da molto tempo. L’intellettuale, lo studioso, l’opinionista che fa politica è sempre un “diverso” rispetto al politico di professione.

Perché?
Perché il politico di professione deve cercare il consenso immediato dell’opinione pubblica, mentre il compito dello studioso impegnato in politica è di guardare un po’ più lontano, cercare di costruire un ponte fra il consenso di oggi e quello di domani.

Negli ultimi tre anni, in effetti, lei ha ricevuto critiche fortissime dalla sua stessa parte politica: c’è chi le ha contestato addirittura il diritto politico di restare dentro al Pd, per le sue idee. Come risponde a questo tipo di contestazioni?
È stato così anche negli anni ’70 quando sostenevo che occorreva riconoscere e regolare il part-time; o all’inizio degli anni ’80 quando sostenevo la necessità di abolire il monopolio statale dei servizi di collocamento; o quando ho scritto il libro “A che cosa serve il sindacato”, nel 2005, sostenendo che occorre consentire alla contrattazione aziendale di derogare al contratto collettivo nazionale. Su tutti questi punti, nel giro di cinque o dieci anni, la sinistra politica e sindacale ha finito col far proprie le mie idee. Oggi il pomo della discordia è il progetto flexsecurity; e qui i tempi di maturazione sono stati molto più brevi: sono bastati due anni.

Sarà, ma di recente il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, ha contestato alla radice questo suo progetto di riforma del diritto del lavoro: il 28 ottobre l’ha bollato come espressione di «un’ideologia fallita» e di «miopi interessi materiali». Come ha preso quella messa all’indice?
Ci ho ritrovato pari pari i toni dell’ispettore che conduce l’inchiesta nel mio libro. A Fassina, comunque, ho chiesto di passare dagli anatemi al merito del progetto: di dire, cioè, che cosa secondo lui è sbagliato, in concreto, e come va corretto.

Lui sostiene che il progetto flexsecurity è appoggiato soltanto dal due per cento del Pd.
Non mi è chiaro da dove nasca questo dato. Deve essere comunque un due per cento potentissimo, visto che è riuscito a prendersi la maggioranza dell’intero gruppo dei senatori democratici, tra i quali due vicepresidenti del Senato, poi i leader delle due grandi minoranze del partito,Walter Veltroni e Ignazio Marino, il vicepresidente del partito Ivan Scalfarotto, l’intera associazione Liberal Pd presieduta da Enzo Bianco. Quel due per cento riesce persino a infiltrarsi tra le file della maggioranza contagiandone esponenti di primo piano come Enrico Letta, Massimo D’Alema e Giuliano Amato.

Quel «niet» di Fassina sembrava quasi una messa all’indice: un’iniziativa d’altri tempi. Il lessico stesso faceva pensare ad altri processi ideologici. Non si è sentito un po’ sul banco degli imputati?
No: ho letto piuttosto in quelle dichiarazioni la preoccupazione del responsabile dell’Economia del Pd per lo squilibrio tra l’attenzione che tutte le forze politiche, i giornali, le radio e le tv stanno dedicando al mio progetto di riforma, e il silenzio che circonda la proposta ufficiale del Pd. Il fatto è che nessuno ha davvero capito quale sia oggi questa proposta, per voltar pagina rispetto al regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro.

La proposta ufficiale del Pd è di aumentare i contributi previdenziali sulle paghe dei lavoratori atipici, in modo che il lavoro precario costi di più.
Ma questa proposta è stata già attuata con la legge di stabilità del settembre scorso. Non credo che Fassina possa sostenere che con questo il problema sia stato definitivamente risolto.

Ora Fassina è sotto scacco, per la richiesta di dimissioni presentata contro di lui da Enzo Bianco e dai «liberal» del Pd. Lei però se n’è dissociato: forse è in cerca di una tregua con l’anima più intransigente del Pd?
Ho criticato chi ha voluto personalizzare lo scontro nei miei confronti: ora non ho certo intenzione di fare altrettanto io verso altri. Quel che chiedo è solo che chi mi contesta legga i contenuti del mio progetto ed entri nel merito della questione: dica, cioè, dove esso va corretto e come.

Al Senato, nel marzo 2009, il suo progetto di legge per la «Flexsecurity» fu sottoscritto da più di 50 altri senatori del Pd, alcuni dei quali molto noti. Eppure lei solo si espone in questa battaglia, scomoda e pericolosa. Non le pesa, questa solitudine?
Non è così. Quando, il 10 novembre dell’anno scorso, Francesco Rutelli presentò al Senato una mozione che impegnava il Governo a varare una riforma del Codice del lavoro ispirata al mio disegno di legge, quasi tutto il Gruppo Pd la ha votata, insieme al Terzo Polo e a quasi tutto il Pdl. E, nonostante i malumori di qualche dirigente centrale, tutto il Pd ha votato con grande convinzione la fiducia al Governo Monti, che pone questa riforma tra le più rilevanti del suo programma, senza una parola di dissenso in proposito nel dibattito in Parlamento. E questa scelta ha fatto crescere di due punti il consenso al Pd nell’opinione pubblica. Raramente mi sono sentito in sintonia con il mio partito come in questa scelta difficile e coraggiosa. Forse a temere di restar solo oggi è qualcun altro.

La metta come vuole, ma dalla presentazione del progetto al Senato sono passati più di due anni, nei quali lei ha continuato a scrivere e a spiegare, ma il suo partito è rimasto contrario. Perché parte della sinistra, e grandissima parte della Cgil, non riescono a vedere la positività contenuta nella sua idea di riforma?
Questa parte della sinistra politica e sindacale che resta contraria, è bloccata dalla paura del “piano inclinato”. Dicono: “se si incomincia a modificare lo Statuto dei lavoratori si sa dove si incomincia ma non dove si va a finire. Se lo tocchiamo noi lo possono toccare anche gli altri. Meglio che non lo tocchi nessuno”. Non si rendono conto che l’argomento del “piano inclinato” è sempre stato l’argomento principe, il cavallo di battaglia di tutti i conservatorismi.

Certo, alla sua popolarità a sinistra non ha giovato la posizione che prese l’anno scorso sul piano della Fiat per Pomigliano: lei osò contraddire la Fiom, che gridava alla Costituzione violata. Dissero che era un servo di Marchionne. Nel suo libro, oggi, scrive che la Fiom “usò tecniche mediatiche della Terza Internazionale comunista”. Che fa, raddoppia? Non ha paura di nuovi ostracismi?
La Fiom aveva bisogno di troncare il dibattito sul merito di quel piano industriale. Per questo denunciò una “violazione della legge e della Costituzione”, che in realtà non c’erano affatto. C’era solo la violazione del tabù dell’inderogabilità del contratto collettivo nazionale. Ma che quel tabù dovesse essere abbattuto lo avevo già sostenuto e argomentato nel libro del 2005 “A che cosa serve il sindacato”. La mia presa di posizione, nella vicenda Fiat, era solo lo sviluppo coerente delle tesi sostenute in quel libro. Del resto, la stessa Cgil alla fine ha dovuto darmi ragione.

Quando mai?
Quando ha firmato l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso, che sancisce appunto una ampia derogabilità del contratto nazionale da parte del contratto aziendale. La Fiom non è d’accordo; ma ora la Cgil ha accettato questo principio. E anche, sia pure in ritardo, la segreteria del Pd.

Che cosa pensa dell’uscita della Fiat di Marchionne da Confindustria?
Il principio del pluralismo sindacale vale sia sul versante dei lavoratori, sia su quello degli imprenditori. Non mi sembra, dunque, che si debba menare scandalo per il fatto che una grande impresa rifiuti di farsi rappresentare dalla Confindustria. E può essere utile anche ai lavoratori che modelli diversi di relazioni industriali si confrontino e competano nel nostro Paese: perché questo può porre in evidenza difetti e incrostazioni del vecchio sistema predominante, che finiscono coll’avere effetti depressivi sul trattamento degli stessi lavoratori.

Ma Marchionne ha anche disdettato tutti gli accordi e contratti collettivi fin qui in vigore.
Lo ha fatto per poter dare al Gruppo Fiat un suo contratto nazionale. Anche di questo non mi sembra proprio il caso di scandalizzarsi: quando i produttori di spazzole e pennelli, che danno lavoro a poche centinaia di lavoratori, hanno deciso di staccarsi dal contratto dei tessili per darsi un contratto su misura per loro, hanno ben potuto farlo, aggiungendo un contratto nazionale agli altri 400 già esistenti in Italia. Perché non potrebbe farlo anche un gruppo imprenditoriale che in Italia dà lavoro a 70.000 persone, se la maggioranza di queste è d’accordo, per allineare la loro organizzazione del lavoro a quella di altre centinaia di migliaia cui lo stesso gruppo dà lavoro in molti altri Paesi, in ogni parte del mondo?

Perché in Italia è tanto pericoloso indicare strade di riforma nel settore del mercato del lavoro?
Perché la dialettica politica in Italia nella seconda metà del secolo scorso ha avuto un’evoluzione diversa, e per molti aspetti deteriore, rispetto ad altri Paesi, come la Germania o la Spagna.

Quale assurda legge non scritta impedisce, soprattutto agli uomini della sinistra, di sfiorare certi fili?
Non è una legge. È il tasso di faziosità del sistema politico, che da noi è molto più alto che altrove. Ed è quello che induce anche gli uomini della destra ad affrontare questi temi preferibilmente in modo provocatorio, sperando sotto sotto che la reazione pavloviana della sinistra sbarri loro la strada.

Lei ha mai avuto paura per la sua vita?
Sì, dopo l’assassinio di Massimo D’Antona, fino a quello di Marco Biagi, quando è stato attivato per me il dispositivo di protezione. In quel periodo gli assassini erano ancora in circolazione e mi capitava di sognare l’aggressione, oppure, uscendo di casa, di pensare che quello poteva essere il luogo dove mi avrebbero trovato steso a terra, il giorno dell’attentato.

Tempo fa alcuni dirigenti della Cgil di Ferrara hanno restituito la tessera per protestare contro la Provincia, governata dal Pd, che l’aveva invitata come relatore a un convegno sul lavoro. Queste manifestazioni d’intolleranza non rischiano di essere il viatico per altri tipi di violenza?
Non esageriamo! È davvero sbagliato pensare che ci sia un collegamento tra questa sinistra un po’ invecchiata e il terrorismo. Del resto, non vedo segni di un ritorno di attualità della lotta politica armata.

Però lei è ancora sotto scorta, a quasi dieci anni dall’assassinio di Marco Biagi.
Ora che i nuovi brigatisti sono stati arrestati, ho chiesto più volte di esserne esentato, ma gli analisti della Digos ritengono ancora prudente mantenere il dispositivo

Quanto le pesa questa condizione?
È un sacrificio della mia libertà. Ma fa parte di un servizio civile che mi tocca: non ho diritto a sottrarmi. Ai nostri padri e nonni è stato chiesto di rischiare la vita in guerre che non valeva la pena di combattere; molto meglio rischiarla in questa battaglia per il progresso civile del Paese. E non mi considero sfortunato: dalla vita ho avuto comunque dieci volte di più di quello che riceve una persona normalmente fortunata.

Quanto ha giocato, contro di lei, la notizia che nell’aprile 2008 Silvio Berlusconi le aveva proposto il ministero del Lavoro e, dopo il suo rifiuto, la presidenza della commissione Lavoro al Senato?
Non credo che abbia giocato contro di me. Né nel Pd, né nel centrodestra. Forse, invece, ha giocato a favore. Perché è stata un’occasione per mostrare che non combatto la mia battaglia per ottenere poltrone o prestigio personale.

Allora nel Pd ci fu chi la sospettò di «intelligenza col nemico», e ne parla anche nel suo libro: ma l’accusa era davvero infondata?
No, era fondatissima. Ho sempre coltivato rapporti di dialogo intenso con le persone della parte avversa. Si impara sempre molto di più in questo modo, che parlando soltanto con chi sta dalla nostra parte.

Aveva avuto qualche contatto con Berlusconi prima di quella proposta?
No, non ci eravamo mai incontrati né parlati.

Comunque, a partire dal 2008, dev’essere difficile reggere a quel tipo di accusa…
Guardi che quell’accusa dà un’immagine caricaturale dei rapporti interni al Pd. Nella realtà tutti i dirigenti del Pd, anche quelli che non condividono le mie idee e proposte, mi rispettano e hanno con me un rapporto cordialissimo. E ogni settimana ricevo una dozzina di inviti a incontri pubblici promossi dalle federazioni o i circoli Pd di tutt’Italia.

È peggio vivere sottoposti a quel tipo di sospetto, oppure essere additato per «nemico del popolo» e «assassino», come nel giugno 2010 gridavano dalla gabbia del tribunale di Milano gli ultimi brigatisti, dopo la condanna d’appello?
Forse non mi sono spiegato bene. Tutti i dirigenti del Pd, nessuno escluso, hanno solidarizzato sinceramente con me quando è accaduto quell’episodio durante il processo ai brigatisti.

Il suo essere controcorrente dura almeno da una trentina d’anni. Lei entrò per la prima volta in Parlamento nel 1979, col Pci. Nel 1983 non fu ricandidato proprio per le sue idee, eppure restò nel partito. Perché?
Dica pure quarant’anni: ho incominciato a lavorare nella Cgil nel 1969. Certo, nella Cgil dei Lama e dei Trentin ero già un po’ controcorrente su alcuni temi, ma in quei primi dieci anni le cose sono filate tutto sommato in modo molto liscio. Sia allora, sia dopo, quello che mi ha legato al movimento sindacale, al mondo del lavoro, sono le tantissime persone che ho conosciuto nelle assemblee di fabbrica, nei circoli, negli stand delle feste, nelle camere del lavoro. È a loro che sento di dover restituire il moltissimo che ho ricevuto in sorte, per il fatto di aver potuto studiare lungo tutta la vita. E mi sembra che il modo migliore in cui posso farlo è contribuire alla crescita di una cultura del lavoro e industriale moderna, in un Paese per questo aspetto molto arretrato.

Non ha mai lasciato nemmeno la tessera Cgil, di cui è stato dirigente sindacale fino al 1979: eppure anche la Cgil ha manifestato dissensi anche aspri nei suoi confronti. Come mai?
Per una ragione affettiva: è stata la mia casa negli anni forse più belli della mia vita. Poi, perché ho conservato tanti amici nella Cgil. E nella Cgil ci sono tantissime persone che la pensano come me. In realtà, la base della Cgil è molto meno diversa da quella della Cisl e della Uil di quanto non si pensi. E oggi anche la base della Cgil è schierata in larga maggioranza a sostegno del Governo Monti.

Quali sono secondo lei i tre punti irrinunciabili dai quali dovrebbe partire oggi l’attività del governo Monti per riformare il mercato del lavoro?
Quelli che ha indicato lo stesso premier nel discorso programmatico del 17 settembre al Senato: consolidare la riforma delle relazioni industriali portata dall’accordo interconfederale del 28 giugno, con un netto spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso le aziende, un nuovo diritto del lavoro semplice e universale per tutti i nuovi contratti di lavoro nel segno della flexsecurity, l’eliminazione di sprechi e rendite nel settore pubblico.

Che cosa pensa di Susanna Camusso? Nel suo libro non si sbilancia sul segretario della Cgil. Ma lei invece ha molto criticato le sue idee, tacciandola di “avventurismo”.
Non si riferiva a me quando ha parlato di “avventurismo”. Comunque Susanna deve guidare una grande organizzazione complessa; e io ho molto rispetto per quel mestiere difficilissimo. In generale, non mi scandalizzo affatto per il fatto che i dirigenti politici e sindacali debbano prendere le distanze da quel che dico o propongo: loro devono tener conto dei problemi del consenso immediato, mentre il mio compito è capire che cosa accadrà domani. Sono due mestieri diversi, che richiedono sovente comportamenti diversi. L’importante è capire che sono entrambi indispensabili.

Ma davvero il mestiere del sindacalista comporta di assumere posizioni così radicalmente conservatrici? Non pensa che la Cgil dovrebbe differenziare di più la sua linea dalla Fiom?
Questo lo penso anch’io da molto tempo. Ma il vero problema non è la lentezza della Cgil in questa evoluzione: il problema è il potere di veto che a questa Cgil è stato riconosciuto di fatto nel nostro sistema. Ora, finalmente, con l’accordo interconfederale del 28 giugno e la regola di democrazia sindacale che esso ha introdotto, si sono poste le basi per superare quel diritto di veto.

Insomma, lei non ha mai avuto la tentazione di «cambiare casacca»?
Non l’ho mai avuta, quella tentazione, perché ho sempre avuto la percezione che, sia pure un po’ in ritardo, le mie idee avrebbero finito comunque per essere metabolizzate e fatte proprie dal mio partito e dal mio sindacato. Effettivamente ho sempre avuto ragione: è sempre andata così. La buona politica è fatta di coerenza e di pazienza. Andrà così anche questa volta, con il progetto flexsecurity; e questa volta le cose stanno evolvendo più in fretta che in passato.

Che cosa pensa di Nicola Rossi, il consigliere economico di Massimo D’Alema che non trovando spazio nel Pd oggi è diventato consulente economico di Luca Cordero di Montezemolo?
Capisco la sua scelta. Penso, però, che le idee per le quali si batte la fondazione di Montezemolo “Italia Futura”, quelle appunto di Nicola Rossi, di Irene Tinagli, di Michele Ainis, abbiano pieno diritto di cittadinanza dentro il Pd. E, finché questo sarà possibile mi batterò perché esse diventino parte integrante e centrale nel programma stesso del Pd.

È evidente, comunque, che lei difficilmente sarà ministro del lavoro, in un governo di destra come in uno di sinistra. Lo sa, vero?
Tanto lo so, che ho intitolato il primo capitolo di quest’ultimo libro “Come non diventare ministro del Lavoro e vivere felici”.

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