IL NOTO L’AVVOCATO GIUSLAVORISTA ARGOMENTA CONTRO LA RIFORMA DELLA MATERIA DEI LICENZIAMENTI – GLI RISPONDO PUNTO PER PUNTO
Articolo di Mario Fezzi pubblicato sul Corriere della Sera del 30 novembre 2011 sotto il titolo Licenziamenti: i lacci che non esistono – Le mie repliche sono contenute nei capoversi rientrati in corsivo, evidenziati in blu
Si parla tanto in questi giorni di superamento dell’attuale sistema di tutela contro i licenziamenti e di passaggio, in nome dell’Europa che lo impone, a un sistema che consenta i licenziamenti e la cui eventuale illegittimità determini solo un costo per l’azienda e non la reintegrazione, che resterebbe solo per i licenziamenti discriminatori.
In proposito bisogna dire subito che tutto l’impianto è fondato su premesse false, posto che il licenziamento per motivi economici in Italia esiste già da tempo, sia a livello collettivo che individuale.
Certo che esiste; il problema è che in entrambi i casi il licenziamento è soggetto a un penetrante controllo giudiziale, circa la sussistenza del motivo, il criterio di scelta dei lavoratori e/o il rispetto delle complesse regole procedurali (queste ultime soltanto per i licenziamenti collettivi). L’esito del controllo è sempre molto incerto, perché i motivi e i criteri di scelta sono sempre opinabilissimi; e il procedimento giudiziale richiede anni. Un’impresa non può attendere anni prima di sapere se un’operazione di riorganizzazione o ridimensionamento degli organici è convalidata oppure no.
Per ridurre la forza lavoro, basta attivare un’apposita procedura, prevista dalla L. 223/91, e all’esito si mettono in mobilità (cioè si licenziano) tutte le persone che si ritiene. Che le cose stiano così è confermato dal fatto che, dati alla mano, negli ultimi cinque anni in Italia hanno perso il posto di lavoro quasi un milione di persone attraverso procedure di questo genere.
Non è così: a me risulta che le 950.000 persone che hanno perso il posto di lavoro in Italia in questo triennio di crisi economica grave appartengono quasi tutte alla metà non protetta della forza-lavoro.
Ed anche un singolo lavoratore può essere licenziato, per giustificato motivo oggettivo (art. 3 L. 604/66); basta sopprimere (davvero, non per finta) un posto di lavoro e la persona che lo ricopriva può essere lasciata a casa. Così come esiste il licenziamento per giusta causa per coloro che commettono gravi mancanze.
In teoria è così. In pratica no, perchè il lavoratore può sempre rivolgersi al giudice sostenendo che l’impresa potrebbe “ripescarlo” (la si chiama, infatti, “regola del repêchage“) in altra posizione in seno all’organizzazione aziendale; oppure che anche altri lavoratori svolgono mansioni analoghe o fungibili con le sue e altri avrebbero dovuto essere licenziati al posto suo. Che cosa ne penseranno i giudici, nei tre o più gradi del giudizio, è sempre difficilmente prevedibile. E le conseguenze della sentenza contraria sono sempre costosissime per l’impresa.
Si lamentano dunque lacci e lacciuoli che non ci sono e si sostiene erroneamente che in Italia è impossibile licenziare i lavoratori con contratto a tempo indeterminato.
No: si sostiene che l’incertezza dell’esito di un giudizio della durata di anni, combinata con l’apparato sanzionatorio previsto dall’articolo 18 St. lav., genera un costo atteso del licenziamento enormemente più elevato rispetto ai severance costs che gravano sull’imprenditore negli ordinamenti degli altri maggiori Paesi europei.
Ma quello che importa alle imprese è poter adeguare il proprio organico in relazione a mutate condizioni economiche e di mercato. Se un’impresa deve smettere di produrre un certo componente perché magari superato o economicamente non più conveniente, è chiaro che avrà interesse a ridurre il personale della quantità grossomodo corrispondente alla riduzione di lavoro che la mancata produzione di quel componente ha determinato. Ebbene, questa riduzione del personale la può fare e la può fare con facilità. Quello che un’impresa non può fare è barare, usando lo strumento del licenziamento in mancanza dei necessari presupposti o ricorrendo alla riduzione di personale per eliminare i soggetti sgraditi, senza seguire i criteri di scelta che la legge impone. Ma questa è la patologia del licenziamento, non la fisiologia.
Se le cose stessero veramente così – come dice Mario Fezzi e come sostiene anche la Cgil – perché mai la sinistra politica e sindacale dovrebbe respingere un progetto che, confermando questa libertà giuridica di licenziamento per motivi economici od organizzativi, istituisce tuttavia un rilevante onere a carico dell’impresa per la ricollocazione del lavoratore licenziato (v. sotto), offrendo a quest’ultimo una sicurezza economica e professionale nel mercato del lavoro che oggi sicuramente egli non ha? E, soprattutto, perché mai la sinistra politica e sindacale dovrebbe respingere un progetto che estende questo regime di maggiore garanzia per il lavoratore addirittura a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza dall’impresa, eliminando la possibilità di “fuga dal diritto del lavoro”?
E allora si dimostra priva di fondamento anche la tesi (priva di riscontri) secondo la quale le imprese estere non investono in Italia perché qui non si può licenziare, essendo ben altre le ragioni per le quali non vengono fatti investimenti in Italia.
Infine, la tesi secondo la quale la mobilità in uscita dalle aziende sarebbe compensata da un mercato del lavoro più efficiente e da un sistema di welfare analogo a quello dei Paesi scandinavi, sconta il gravissimo difetto di ignorare i costi di un sistema di protezioni serio e articolato, inteso non solo come sostegno al reddito, ma come intervento dello Stato in svariati settori. Ma dove verrebbero reperiti ora i fondi per una riforma del genere? L’Europa ci chiede di risparmiare e noi rispondiamo allargando sul modello danese il nostro traballante welfare? A meno che non si voglia tornare alla riforma del welfare a costo zero, già prevista dal libro bianco del ministro Maroni nel 2002, e ovviamente rimasta inapplicata.
Il progetto flexsecurity, che è al centro del dibattito politico in questi giorni e al quale l’articolo di Mario Fezzi probabilmente si riferisce, risolve questo problema istituendo un trattamento, a favore dei lavoratori licenziati per motivi economici od organizzativi, pari a quello di cui godono i lavoratori danesi, sia in termini di continuità del reddito, sia in termini di investimento sulla loro professionalità. Il costo di questo trattamento è posto:
a) in parte a carico dell’Inps (indennità pari all’80% dell’ultima retribuzione per il primo anno successivo al licenziamento, oggi prevista per il solo settore industriale, ma che dovrebbe essere estesa a tutti i settori, attingendo ai risparmi che si realizzerebbero sulle erogazioni della Cassa integrazione guadagni);
b) in parte a carico dell’impresa che licenzia (differenza rispetto al 90% per il primo anno; poi 80% per il secondo anno e 70% per il terzo anno, se il lavoratore non viene ricollocato prima), così attivandosi un forte incentivo economico alla scelta, da parte dell’impresa stessa, dei migliori servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti;
c) a carico della Regione (che può farvi fronte utilizzando i contributi del Fondo Sociale Europeo) per la parte relativa al costo standard di mercato dei servizi di outplacement e di riqualificazione professionale.
In altri termini, una riforma in senso liberistico del licenziamento (individuale) potrebbe forse essere fatta, però solo dopo la costruzione di un sistema di welfare completo e articolato, non viceversa.
Questa apertura conclusiva di Mario Fezzi alla prospettiva di una “riforma in senso liberistico del licenziamento” è estremamente interessante, perchè mi consente di rivolgergli a mia volta la domanda: se la soluzione per un “welfare completo e articolato” proposta sopra, ai punti a), b) e c), può funzionare, per quale motivo non dovremmo procedere fin d’ora alla riforma che l’Europa ci chiede?