IL MATTINO: PERCHÉ I PRODUTTORI DI SPAZZOLE E PENNELLI POSSONO FARSI IL LORO CONTRATTO COLLETTIVO E LA FIAT NO?

UN REGIME DI PLURALISMO SINDACALE SERVE ANCHE A FAR SÌ CHE MODELLI DIVERSI DI RELAZIONI INDUSTRIALI POSSANO CONFRONTARSI E COMPETERE: NON DOVREBBE ESSERE CONSIDERATO PATOLOGICO CHE UN GRUPPO CON 70.000 DIPENDENTI IN ITALIA PREFERISCA DARSI DA SOLO IL CONTRATTO COLLETTIVO

Intervista a cura di Nando Santonastaso, pubblicata sul quotidiano Il Mattino di Napoli, il 23 novembre 2011

 Professor Pietro Ichino, era proprio così scontato l’annuncio della disdetta contrattuale da parte della Fiat?
Beh, direi di sì. Altrimenti, l’annuncio di un mese fa dell’uscita di Fiat da Confindustria non avrebbe avuto alcun senso.

È davvero una catastrofe per il sistema italiano delle relazioni industriali, come dice qualcuno?
Questa idea mi sembra proprio frutto di un errore di prospettiva. Il principio del pluralismo sindacale, sancito dalla nostra Costituzione, non vale soltanto sul versante dei lavoratori, ma anche su quello delle imprese. Il fatto che un grande gruppo imprenditoriale intenda sperimentare un proprio sistema di relazioni industriali diverso da quello fin qui sperimentato da Confindustria dovrebbe essere considerato fisiologico, non patologico.

Ma i lavoratori temono per i loro diritti, che in questo modo non sono più protetti dall’ombrello del contratto collettivo nazionale.
Capirei questa preoccupazione se fossimo di fronte a un imprenditore che gioca al ribasso. Ma non mi sembra questo il caso: il piano industriale di cui stiamo parlando porterà retribuzioni nettamente al di sopra dello standard fissato dal vecchio contratto collettivo nazionale. Porterà tecnologia avanzatissima e lavoro per migliaia di persone, in un Paese in cui ormai da vent’anni nessuna grande multinazionale del settore industriale ha più fatto investimenti di qualche rilievo. La convivenza e competizione fra modelli diversi di relazioni industriali può essere molto utile ai lavoratori, anche per verificare la bontà di vecchi schemi che potrebbero rivelarsi superati. Senza un confronto aperto, è difficile individuare ciò che di fatto impedisce l’innovazione e finisce coll’avere un effetto depressivo sulle condizioni di lavoro.

La Fiom dice che il modello Fiat si basa su di un’organizzazione del lavoro pesantissima per i lavoratori.
La Fiom dovrebbe spiegare ai lavoratori italiani perché essi debbano restare esclusi da un modello di organizzazione del lavoro che il Gruppo Fiat applica da anni in tutto il mondo, compresi i Paesi più civili e avanzati. Forse che noi italiani siamo più deboli o cagionevoli degli americani o dei polacchi? Poi la Fiom dovrebbe spiegarci perché i produttori italiani di spazzole e pennelli, che danno lavoro a qualche centinaio di persone, possono avere un loro contratto collettivo nazionale, mentre a un grande gruppo industriale come la Fiat, che in Italia dà lavoro a 70.000 persone, dovrebbe essere proibito avere un proprio contratto collettivo nazionale.

La prima reazione Fiom è stata la richiesta di una commissione d’inchiesta e l’avvio di nuovi ricorsi legali.
A Torino un giudice del lavoro che non ha mai avuto alcuna indulgenza nei confronti delle imprese ha riconosciuto la piena legittimità degli accordi di Pomigliano e Mirafiori. Finiranno probabilmente così anche le altre cause analoghe che la Fiom sta progettando. Comunque la Fiom facendo così commette un errore gravissimo.

In che senso?
Quella che viene posta dal piano industriale di Marchionne è una questione sulla quale, in un regime di pluralismo sindacale, dovrebbe essere ovvio che una parte degli interessati dica “sì” e un’altra parte dica “no”. E il contrasto dovrebbe risolversi esclusivamente secondo le regole della democrazia sindacale: le stesse che la Cgil ha sottoscritto con l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso. Ricorrere in sede giudiziaria significa non accettare quelle regole, significa squalificare il sindacato che sceglie di dire “sì” accusandolo di violare la legge, di tradire i lavoratori. Questo non è accettabile. Dove la Fiom è in maggioranza, decide lei; ma dove, come alla Fiat, è in minoranza, essa deve accettare la valutazione che degli accordi proposti dalla controparte ha dato la maggioranza dei lavoratori.

Il Tribunale di Torino, però, ha riconosciuto alla Fiom il diritto a costituire le rappresentanze sindacali negli stabilimenti Fiat, anche se non ha firmato gli accordi.
Su questo punto la sentenza torinese ha fatto una forzatura rispetto alla legge vigente, che non riconosce il diritto alla rappresentanza ai sindacati che non abbiano firmato alcun contratto applicato nell’azienda. Però credo che l’idea sottesa a quella sentenza sia giusta e la norma vigente vada cambiata. Per questo ho presentato fin dal 2009, con altri 54 senatori del Pd, un disegno di legge, n. S-1872, volto a risolvere positivamente la questione. Se quel disegno di legge fosse stato in vigore, tutta la vicenda degli accordi Fiat si sarebbe svolta in modo molto meno lacerante. 

La Cisl dice che il modello Pomigliano va bene ma non può essere applicato automaticamente. Che vuol dire?
Credo che con questo la Cisl chieda di avere maggiori spazi di negoziazione negli altri stabilimenti. È una richiesta sensata.

Come può influire questa vicenda sull’attesa per le norme sul mercato del lavoro, articolo 18 e dintorni, sollecitate all’Italia dall’Europa?
Le questioni in gioco, sui due terreni, sono diverse. Quello che viene messo fortemente in discussione dalla vicenda Fiat è il modello delle relazioni industriali, la disciplina della contrattazione collettiva, dei rapporti sindacali. Altra cosa è la nuova disciplina dei rapporti individuali di lavoro. Occorrerà parlare anche di questo, se non altro perché l’Europa ce lo chiede; ma è un altro capitolo.

 

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