PER LA PRIMA VOLTA SI È INCOMINCIATO A PARLARE DI UNA RIFORMA INCISIVA DEL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO SENZA CHE SIA SCOPPIATO ALCUN PUTIFERIO: PERCHÉ FINALMENTE SI PARLA DEL PROGETTO VERO E NON DI UNA SUA CARICATURA
“Lettera sul lavoro” pubblicata il 19 novembre 2011 sul Corriere della Sera – Per i contenuti del progetto di riforma v. il Portale della semplificazione e della flexsecurity
Caro Direttore, sta accadendo un fatto nuovo e sorprendente: l’altro ieri il premier incaricato ha presentato al Parlamento un programma di governo contenente l’indicazione di misure di riforma incisiva dell’impianto del nostro diritto del lavoro, vecchio ormai di oltre quarant’anni, senza che sia scoppiato alcun putiferio. Nel nostro paese questo può considerarsi un piccolo miracolo.
Il primo motivo va cercato nel fatto che il capo del nuovo governo ha chiarito subito un punto politicamente essenziale: il nuovo diritto del lavoro è destinato ad applicarsi soltanto ai rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti; e qui tutti avranno da guadagnare. Dunque, non si “toglie ai padri per dare ai figli”: i padri, se hanno un rapporto di lavoro stabile regolare, non vengono toccati proprio. E i figli staranno molto meglio. Vediamo come.
Mario Monti ha detto, innanzitutto, che dobbiamo voltare pagina rispetto al “dualismo” del nostro mercato del lavoro, cioè alla grave disparità di trattamento fra protetti e non protetti. Non è solo una questione di equità, ma anche di efficienza del nostro tessuto produttivo (stiamo sprecando o male utilizzando il capitale umano di metà della nostra forza-lavoro, soprattutto giovani e donne). A chi entrerà nel mercato del lavoro d’ora in poi dobbiamo offrire un “diritto del lavoro unico”, cioè capace di essere veramente universale. Tutti a tempo indeterminato ‑ tranne ovviamente i casi classici di contratto a termine, per lavori stagionali, o sostituzioni temporanee, ecc. ‑; a tutti le protezioni essenziali, secondo gli standard internazionali e soprattutto quelli europei; ma nessuno inamovibile: la sicurezza economica e professionale della persona che lavora non dovrà più essere costruita sull’ingessatura del posto di lavoro, ma sulla garanzia di continuità del reddito e di servizi di assistenza intensiva nel passaggio dalla vecchia occupazione alla nuova.
Per effetto di questa riforma, il campo di applicazione dell’articolo 18, che tanto sta a cuore alla nostra sinistra politica e sindacale, lungi dal ridursi, è destinato a raddoppiarsi, estendendosi a tutti i lavoratori dipendenti per la parte in cui esso costituisce la misura più appropriata: tutti, infatti, godranno della protezione in questa forma contro il licenziamento discriminatorio, della quale oggi i milioni di lavoratori delle serie B e C sono esclusi. Sarà invece applicata una tecnica di protezione diversa per il caso di licenziamento dettato da motivi economici od organizzativi: qui, per i nuovi rapporti di lavoro, il “filtro” delle scelte imprenditoriali non sarà più costituito dal controllo giudiziale sul motivo, ma dalla responsabilizzazione dell’impresa, attraverso il “contratto di ricollocazione” che essa dovrà offrire al lavoratore licenziato, quando questi abbia più di due anni di anzianità di servizio. Non è ora il caso di esaminare i dettagli del progetto, che comunque dovrà essere riesaminato punto per punto con tutte le parti interessate. Basti dire che a tutti i nuovi lavoratori verrà offerto, per il caso di perdita del posto, un trattamento allineato agli standard dei paesi scandinavi: cioè di quelli dove il più debole tra i lavoratori sta meglio rispetto a qualsiasi altro paese del mondo.
Anche le imprese, dal canto loro, ci guadagneranno: perché il nuovo regime consentirà loro di eliminare il costo ingente del ritardo di anni con cui oggi esse riescono a operare l’aggiustamento degli organici quando se ne presenta il bisogno. I vantaggi della maggiore flessibilità delle strutture produttive compenseranno largamente i costi della sicurezza economica e dell’assistenza che esse dovranno garantire ai lavoratori licenziati.
Ci guadagneranno, in prospettiva futura, le finanze pubbliche, con il risparmio dei milioni di ore di Cassa integrazione che oggi vengono erogate per “congelare” le situazioni di crisi occupazionale, senza affrontarle seriamente. E una parte di quel risparmio potrà essere destinato a finanziare l’estensione del nuovo regime, per i nuovi assunti, anche alle imprese di piccole dimensioni, in modo che non ne derivi per esse un aggravio. Col risultato di superare gradualmente anche l’attuale dualismo di protezioni fra imprese piccole e medio-grandi.
Ci guadagneranno infine le Regioni, cui si chiederà di coprire – anche ricorrendo ai contributi del Fondo Sociale Europeo, oggi sovente inutilizzati ‑ i costi dei servizi di outplacement e di formazione mirata attivati dalle imprese per l’assistenza ai lavoratori licenziati: questo consentirà loro di riqualificare fortemente la spesa nel settore dei servizi al mercato del lavoro, oggi caratterizzata da enormi sprechi e inefficienze.
Ecco perché anche i più strenui difensori del nostro vecchio diritto del lavoro non potranno mettersi di traverso contro questa riforma: perché nessuno ha da perderci, e molti hanno da guadagnarci. Tra questi soprattutto un’intera generazione di lavoratori, che oggi quel vecchio diritto del lavoro non lo vedono neppure di lontano.