LA CAPACITÀ DELL’ITALIA DI INTERCETTARE I FLUSSI DI CAPITALI NEL MERCATO GLOBALE, GIÀ INSUFFICIENTE IN PRECEDENZA, SI È ULTERIORMENTE RIDOTTA DURANTE LA GRANDE CRISI
Articolo di Giorgio Barba Navaretti pubblicato sul Sole 24 Ore il 7 novembre 2011 – In argomento v. anche il mio articolo pubblicato sulla rivista Costo Zero di ottobre
L’Italia sta uscendo dal radar degli investimenti delle multinazionali. E il pacchetto al ribasso di misure per l’Europa non ci riporta certo sulla loro rotta. La mancanza di risposte efficaci non solo fa scappare chi detiene i titoli del nostro debito pubblico o le nostre azioni in operazioni di portafoglio, ma anche chi nel nostro paese potrebbe impiantare attività produttive con effetti di lungo periodo sulla crescita e l’occupazione. Questa è una prospettiva di cui il Governo non ha quasi mai tenuto conto, in qualunque passaggio delle manovre a catena che hanno costellato l’estate e il primo autunno.
In un quadro di incertezza globale gli investimenti frenano ovunque.
Durante la crisi del 2008 e 2009 gli investimenti diretti esteri (Ide) sono crollati dal 3,5% del Pil globale al 1,8% nel 2010. Nell’area dell’euro sono addirittura scesi dal 5% all’1,8%. Non abbiamo ancora dati per valutare gli effetti della crisi del debito sovrano, ma molto probabilmente vanno nella stessa direzione.
Se va male per tutti, per l’Italia va peggio. Nel 2008 ci sono stati addirittura più disinvestimenti che nuovi investimenti e nel 2010 il saldo era positivo per un misero 0,46% del Pil. La confusione normativa che produce il nostro governo zoppicante in questa fase di emergenza è una ricetta sicura a far scappare investitori che guardano al nostro Paese per lavorarci per molti anni. Come è possibile, per esempio, valutare gli oneri di tassazione in Italia, con un abbozzo di riforma fiscale che non si sa se sarà attuata e soprattutto sotto la mannaia della clausola di salvaguardia che potrebbe tagliare tutte le agevolazioni in essere? E comprendere le regole del lavoro con un codice illeggibile e l’incertezza sui costi di licenziamento che impone l’articolo 18? Era necessario aspettare l’orlo del baratro per decidersi a proporre un progetto di riforma del mercato del lavoro come quello di Pietro Ichino, l’unico con una proposta seria ed efficace per coniugare flessibilità in uscita con tutele adeguate per il lavoratori?
Ora, una frenata così forte degli investimenti diretti esteri rischia di diventare un problema strutturale, di lungo periodo e da noi di fatto lo è già. Ogni nuova iniziativa comporta dei costi fissi e non è reversibile, se non dopo molti anni. Chi ha aperto un impianto in Francia o ovunque ma non da noi, certamente a breve non si trasferirà in Italia, anche se potessimo da domani fornire le migliori condizioni di attrattività.
Intanto, dirà qualche lettore, invece di lamentarci come al solito, c’è invece motivo per stappare qualche bottiglia. Amazon aprirà il primo centro di distribuzione italiano a Piacenza. Trecentocinquanta nuovi posti di lavoro entro Natale. E Ikea, investirà un miliardo in quindici punti vendita nel prossimo futuro. In questi giorni tutte le buone notizie sono un tesoro. Ma purtroppo queste non rovesciano il quadro negativo generale.
Quelli di Ikea ed Amazon sono investimenti di necessità e non di scelta.
L’Italia è un mercato grandissimo, per quanto zoppicante e stagnante.
Nessuna impresa della grande distribuzione può permettersi di trascurare milioni di consumatori a reddito relativamente elevato, che non potrebbero essere serviti se non con punti vendita o centri di distribuzione sul nostro territorio. Nonostante gli spread, le complessità autorizzative, la domanda stagnante, nonostante tutto, queste aziende investono.
Il problema nostro è invece la fuga degli investimenti fatti per scelta, dove un’azienda decide di aprire un centro di ricerca, un impianto manifatturiero, degli headquarter regionali qui invece che in un altro Paese. E ovviamente lo fa solo se le condizioni per investire sono migliori che altrove.
E i casi di Amazon e Ikea, che comunque portano risorse e lavoro, potranno avere ricadute forti sull’occupazione e la crescita solo se ci saranno riforme strutturali soprattutto nel mercato del lavoro. La radicale trasformazione del sistema commerciale (parallela a quella del sistema produttivo), di cui queste iniziative sono il simbolo, crea nuova occupazione solo se c’è mobilità del lavoro tra aziende. La loro attività in parte distruggerà posti di lavoro esistenti: piccole librerie e mobilieri delle strade provinciali, sopraffatti dalle autostrade dell’e-commerce e della grande distribuzione.
I dipendenti di queste aziende, in assenza di un sistema di flexicurity efficace e con regole dualistiche, finiranno per non trovare un nuovo lavoro o se fortunati di trovarne uno precario. Senza riforme radicali, anche i pochi nuovi investimenti che non possono fare a meno di venire qui rischiano dunque di avere un impatto limitato sull’occupazione e di rafforzare la perversa identità tra flessibilità e precariato.
L’urgenza di risanare il Paese non riguarda dunque solo gli investitori che spostano i loro capitali in un minuto, ma anche e soprattutto quelli che hanno ricadute fondamentali per la crescita. Anche qui il mercato ha fame di riforme e aspetta un segnale rapido e chiaro.