L’ACCUSA DI “INTELLIGENZA COL NEMICO” CHE VIENE DA TANTI MILITANTI DEL PD, NEI CONFRONTI DI CHI NON SI ALLINEA ALLE POSIZIONI UFFICIALI, PONE UN PROBLEMA CHE INVESTE LO STESSO DNA DEL PARTITO
Recensione di Dario Di Vico al libro Inchiesta sul lavoro (Mondadori, 2011), pubblicata sul Corriere della Sera del 6 novembre 2011
Il pretesto letterario è intrigante: il Partito preoccupato che il senatore Pietro Ichino, giuslavorista competente quanto scomodo, stia peccando di intelligenza con il nemico manda un ispettore a interrogarlo per capire “che cosa c’è di vero” nell’accusa che gli viene rivolta. Nasce così “Inchiesta sul lavoro”, il nuovo libro di Ichino che Mondadori manderà in libreria l’8 novembre con il sottotitolo “perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma”. Il giuslavorista-imputato replica punto su punto alle domande dell’ispettore, difendendo non solo il proprio lavoro e le proprie idee ma anche “il diritto politico di restare dentro il Pd”. E davanti alla perfida obiezione dell’ispettore (“Il tuo vero posto è nel Terzo Polo”) il riformista Ichino risponde che la sinistra è la sua casa e non si rassegnerà mai a vederla “impegnata a frenare il cambiamento”.
Il piatto forte dell’auto-difesa del giuslavorista è il disvelamento della grande ipocrisia che ha nutrito la cultura politica della gauche italiana in tema di lavoro: l’accettazione dell’apartheid. Da un lato un posto di lavoro ipergarantito per 9,5 milioni di occupati stabili e dall’altro una forza lavoro flessibile di 11 milioni di persone che svolgono mansioni come gli altri ma che restano fuori dalla cittadella dei diritti. La prova provata dell’apartheid, del resto, sta nelle conseguenze occupazionali della Grande Crisi iniziata nel 2008: il milione di posti perso appartiene quasi interamente al lato oscuro del lavoro, i non protetti. E a questo punto è Ichino che prende ad incalzare il suo inquisitore: una sinistra che si professa universalistica può chiudere gli occhi di fronte a questa realtà e puntare a conservarla? Una linea continuista, aggiunge il senatore, poteva avere un senso negli anni ’70 quando il tessuto produttivo del Paese e la forza sindacale di protezione erano incardinati sulla grande fabbrica fordista e non esisteva quello che di lì a qualche anno avremmo incominciato a chiamare il “decentramento produttivo”. Da allora però è cambiato tutto, la stessa vita media delle aziende si è incredibilmente accorciata – e aggiungiamo noi – gli studi sui flussi elettorali hanno dimostrato come la sinistra abbia perso (quanto meno) il monopolio della constituency operaia. La proposta che Ichino suggerisce al Pd per non morire di ipocrisia è spendersi per chiudere il dualismo e riunificare il mercato del lavoro, per condurre un’operazione che la destra non riesce a fare perché vuole minare la forza della Cgil più che varare vere soluzioni di sistema (il riferimento è al ministro Maurizio Sacconi).
Quindi invece di lanciare un incomprensibile ossimoro come “licenziare per assumere” (inevitabilmente schiavo di una logica dei due tempi), ci vuole un progetto organico di riforma che prenda petto lo spinoso tema dell’articolo 18 e si configuri come una proposta di modernizzazione rivolta al Paese. Da riformista che vuole mostrarsi con i piedi per terra, Ichino suggerisce di attingere da ciò che già esiste, il meglio che abbia prodotto l’Europa-culla-del-welfare: il modello danese. L’ispettore del Partito dopo l’allungo dell’imputato riprende fiato e gli obietta che “quelli sono paesi ricchi e di piccole dimensioni, non si può pensare di trasferire le loro soluzioni in Italia”. La Svezia è come la Lombardia, la Danimarca come il Piemonte, replica Ichino e implicitamente suggerisce ai dubbiosi una sperimentazione regionale prima di estendere il modello a tutto il territorio nazionale. Si comincia ridefinendo la nozione di lavoro dipendente (tutti coloro che operano in regime di mono-committenza con meno di 40 mila euro annui), si adotta un codice di lavoro semplificato di soli 70 articoli e in materia di licenziamento si abolisce l’articolo 18 solo per quanto riguarda “i rapporti costituiti da qui in avanti”. Il lavoratore licenziato ha diritto a un’indennità di una mensilità per ogni anno di anzianità. Se ha maturato almeno due anni di servizio il dipendente messo fuori dai ranghi aziendali ha diritto a un contratto di ricollocazione che prevede un trattamento complementare di disoccupazione e l’attivazione di servizi di outplacement. Di fronte all’auto-arringa dell’imputato Ichino si può, a destra come a sinistra, dissentire ma occorre produrre la stessa qualità di argomentazione. Grazie a questo libro l’asticella del confronto si alza.
Dario Di Vico
twitter@dariodivico