GAZZETTA DI MODENA: COME SI FINANZIA LA FLEXSECURITY

A QUANTO AMMONTANO E COME SI COPRONO I COSTI DEL SOSTEGNO AI LAVORATORI NEL PROGETTO DI RIFORMA

Intervista a cura di Chiara Dini pubblicata sulla Gazzetta di Modena il 2 novembre 2011

Il tema della flessibilità è balzato all’ordine del giorno da quando è stato reso pubblico il contenuto della lettera del governo che, fra i provvedimenti prospettati all’Unione europea, prevede un intervento sulle norme che regolano i licenziamenti. Il tema è largamente dibattuto, e anche oggetto di un disegno di legge, presentato dal senatore PD Pietro Ichino, che, in estrema sintesi, sostiene che tutti i contratti di lavoro siano a tempo indeterminato, ma che nessuno sia “inamovibile”. Al professor Ichino ci siamo rivolti per un commento.

Il dibattito seguito alla lettera che il governo ha inviato alla Ue, è particolarmente vivace circa quella che nella lettera viene definita come “una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato”. In particolare, il segretario generale CGIL, Susanna Camusso, rileva che l’attuale normativa già prevede la possibilità di licenziare per motivi economici. Qual è quindi la novità che il governo si propone di attuare, e quale è il suo giudizio?
La normativa vigente oggi sottopone il licenziamento per motivi economici od organizzativi a un controllo giudiziale che può richiedere molti anni. Anche se fossimo in grado di allineare i tempi della nostra giustizia a quelli dei nostri partner europei, si tratterebbe comunque di tempi troppo lunghi rispetto ai ritmi dell’aggiustamento industriale necessari oggi. D’altra parte la norma-cardine su questa materia, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, si applica a meno di metà dei lavoratori dipendenti italiani. Anche questo è fonte di iniquità e inefficienza.

L’accordo fra le parti sociali del 28 giugno, e il successivo articolo 8 della manovra di agosto, costituiscono due passaggi importanti nell’ambito della regolamentazione delle relazioni industriali. Lei ha espresso giudizi diversi sui contenuti dei due documenti. Ce ne vuole spiegare le ragioni?
Sull’accordo interconfederale ho espresso un giudizio largamente positivo, perché introduce finalmente, dopo sessant’anni di “diritto sindacale transitorio”, le regole necessarie per attuare il principio di democrazia sindacale nella contrattazione collettiva. Sull’articolo 8 del decreto di Ferragosto ho espresso un giudizio negativo, perché non mi sembra che si possa delegare la – pur necessaria – riforma del diritto del lavoro alla contrattazione collettiva: occorre un disegno organico di riforma e un legislatore che se ne assuma la responsabilità in prima persona.

La prevalenza dei contratti aziendali e la possibilità di deroga rispetto alle leggi e ai contratti nazionali, previste dall’articolo 8, potrebbero secondo lei rappresentare un problema per le Pmi, che difficilmente sarebbero in grado di gestire la materia singolarmente?
Sì. Penso però anche che, se le confederazioni dettassero delle guidelines equilibrate e ben strutturate per la contrattazione aziendale, si potrebbe prospettare pure un uso buono dell’articolo 8. Ho messo on line sul mio sito alcune tracce che potrebbero essere utilizzate in questa ottica.

Come è articolato, nella sua proposta, il sistema di sicurezza e di ricollocazione di chi venisse a perdere il posto di lavoro?
L’idea è di una nuova disciplina dei licenziamenti applicabile ai soli rapporti di lavoro costituiti da qui in avanti. Tutti a tempo indeterminato, tranne i casi classici di contratto a termine; a tutti le protezioni essenziali; ma nessuno inamovibile. E a chi perde il posto un sostegno robusto nel mercato del lavoro, secondo il modello danese.

Sono previste limitazioni, e quali, circa chi avrebbe diritto ai meccanismi di flexsecurity? Nei paesi scandinavi, ad esempio, ne viene escluso chi sia proprietario di una abitazione; in un paese come il nostro, in cui l’80% delle abitazioni sono in proprietà, ciò risulterebbe assai restrittivo…
L’idea è che la nuova disciplina si applichi a tutti coloro che prestano continuativamente il proprio lavoro personale in regime di “monocommittenza”, cioè traendone più di due terzi del proprio reddito, con un limite di reddito annuo di 40.000 euro.

La flessibilità, come viene intesa dove la si applica da tempo, risulta parecchio onerosa per le casse dello stato. Come possiamo pensare, in Italia, di finanziare il progetto “flexsecurity”?
La proposta è di scambiare l’esenzione per l’impresa dal controllo giudiziale sui licenziamenti per motivo economico con la sua responsabilizzazione per la sicurezza economica e professionale del lavoratore licenziato. Quello che l’impresa risparmia in termini di tempestività dell’aggiustamento degli organici basta e avanza per coprire il costo di una assistenza alla danese nel mercato del lavoro. Il tutto a costo zero per le esauste casse statali.

Non sarà che il sistema è buono per i periodi di prosperità, ma difficoltoso nei momenti di crisi economica? Gli stessi paesi scandinavi, infatti, stanno correggendone l’impostazione.
Il regime di flexsecurity danese e quello olandese hanno retto benissimo allo shock della grande crisi. È comunque ovvio che questi meccanismi hanno, per un verso, un utilissimo effetto anticiclico, contribuendo a garantire continuità di reddito a chi perde il posto; per altro verso costi più alti nelle congiunture negative. Nel nostro caso il nuovo regime, incominciando ad applicarsi soltanto per i nuovi rapporti di lavoro, non dovrebbe comportare i maggiori costi conseguenti alla congiuntura negativa.

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