E I SINDACATI NON HANNO ALCUN MOTIVO DI OPPORSI, PERCHÉ LA NUOVA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI SI APPLICHERÀ SOLTANTO AI RAPPORTI DI LAVORO NUOVI – A MENO CHE RITENGANO MEGLIO, PER LA NUOVA GENERAZIONE, CONSERVARE LO STATO DI COSE ATTUALE
Intervista a cura di Massimo Restelli pubblicata su il Giornale il 30 ottobre 2011
Professor Ichino, tra i fattori che compromettono la competitività del sistema Italia c’è la scarsa flessibilità del mercato del lavoro. Di recente il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha rilanciato l’efficacia del suo disegno di legge; che cosa prevede la proposta di riforma che ha elaborato?
In sostanza si tratta di questo: un codice del lavoro semplificato, composto di 70 articoli molto chiari e facilmente traducibili in inglese, suscettibili di applicarsi a tutta l’area del lavoro sostanzialmente dipendente. Così si supera il dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. L’idea è che, in partenza, questo nuovo “diritto del lavoro unico”, per la parte relativa ai licenziamenti si applichi soltanto ai rapporti di lavoro nuovi, che si costituiranno da qui in avanti.
Può sintetizzare la nuova normativa?
Tutti a tempo indeterminato – tranne, ovviamente, i casi classici di contratto a termine, per punte stagionali, sostituzioni temporanee, ecc. – a tutti le protezioni essenziali, in particolare contro le discriminazioni, ma nessuno inamovibile. E a chi perde il posto una garanzia robusta di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, di continuità del reddito e di investimento sulla sua professionalità. Per maggiori dettagli devo rinviare al testo del disegno di legge n. 1873/2009 e al mio sito.
Ritiene che in Parlamento ci potrà essere una convergenza tra maggioranza e opposizione, o vincerà la preclusione dell’estrema sinistra?
Questo disegno di legge, pur non essendo stato fatto proprio dal Pd, è stato presentato al Senato, insieme a me, da altri 54 senatori del Pd: la maggioranza del nostro gruppo. È stato fatto poi esplicitamente proprio dall’Udc, dall’Api e da Futuro e Libertà. E il 10 novembre scorso una mozione di Francesco Rutelli che impegna il Governo a varare una riforma modellata proprio su questo disegno di legge è stata approvata dal Senato a larghissima maggioranza: 455 voti contro 24 contrari e astenuti.
A quindici anni dal pacchetto Treu la flessibilità continua però ad apparire un tabù; che cosa non ha funzionato?
Questa è per sua natura una materia molto ansiogena. Finché si parla genericamente di un intervento legislativo, si scatenano tutte le paure. Per questo è politicamente essenziale aprire la discussione sulla base di un progetto preciso, nero su bianco, il cui equilibrio sia stato messo a punto attraverso incontri politico-sindacali e seminari universitari in ogni parte d’Italia. Questo è quello che è avvenuto prima e dopo la presentazione del disegno di legge n. 1873.
I sindacati sono pronti a dare battaglia in difesa dell’articolo 18. Sono ancora rappresentativi di un mondo del lavoro in rapida evoluzione?
Finché si oppongono a proposte generiche, talvolta minacciose nella loro formulazione – come quella dei “licenziamenti facili” – capisco la loro mobilitazione. Ma qui la cosa è molto diversa: si parla, innanzitutto, di una riforma della materia destinata ad applicarsi soltanto ai rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti. Chi oggi ha un rapporto di lavoro stabile conserverà la vecchia protezione. Si parla, poi, di varare un nuovo codice del lavoro semplificato capace finalmente di applicarsi a tutti, voltando pagina rispetto al regime attuale di vero e proprio apartheid fra protetti e non protetti. Opporsi a questo progetto da parte di grandi confederazioni come Cgil, Cisl e Uil che si proclamano non corporative, significherebbe mettersi contro le nuove generazioni.
Che cosa offrirebbe alle parti sociali come contropartita? Come andrebbe riformato il welfare per permettere al singolo di sopperire alla minore certezza di impiego e quindi di reddito?
Una prima contropartita importantissima è costituita dall’applicazione di questo nuovo “codice del lavoro semplificato” a tutti i nuovi rapporti di lavoro in posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda, superando il dualismo che oggi caratterizza negativamente il nostro mercato del lavoro. Una seconda contropartita altrettanto importante è costituita dalla garanzia per tutti i lavoratori dipendenti di un trattamento alla danese in caso di perdita del posto: garanzia di continuità del reddito e di un forte investimento sulla loro professionalità, perché più e meglio si investe su di essa, più rapida sarà la ripresa del lavoro e quindi la cessazione del trattamento di disoccupazione.
Il precariato, soprattutto per i giovani, è ormai una costante. Come contrastare gli abusi?
La definizione del lavoratore dipendente, a cui si applica la nuova disciplina, è concepita in modo da non richiedere l’intervento di ispettori, avvocati e giudici per imporre l’applicazione del diritto del lavoro. Rientrano in questa nozione, oltre alle figure già tradizionalmente qualificate come “subordinate”, coloro che svolgono continuativamente lavoro personale in regime di monocommittenza, cioè soltanto o quasi soltanto per un’unica azienda, con un reddito annuo non superiore a 40.000 euro. Per accertare questi elementi essenziali bastano i tabulati dell’Inps o dell’Erario.
Tra i primi desideri degli italiani c’è quello di vivere in una abitazione di proprietà. Ma acquistare casa da “precario” non è un’impresa facile, che cosa si può fare per agevolare l’erogazione di credito da parte delle banche?
Con la riforma che propongo non ci saranno più precari, salvi i casi classici di lavoro a termine. La necessaria e ineliminabile flessibilità di cui le strutture produttive hanno bisogno sarà distribuita in misura uguale su tutti i nuovi assunti. E tutti, quindi, saranno posti in posizione di pari opportunità per ottenere dalla banca il mutuo.
Il governo ha puntato molto sulla riforma dell’apprendistato, risolve il problema delle flessibilità?
Non può essere l’apprendistato a garantire la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno: anche perché essa non riguarda soltanto i primi due o tre anni di lavoro dei new entrants. Ciò non toglie che l’apprendistato costituisca una forma di accesso al tessuto produttivo molto importante, sulla quale è giusto investire.