WHY A REVOLUTIONARY RULE RISKS TO BE COMPLETELY INEFFECTIVE

IL MOTIVO PER CUI I SINDACATI SONO RILUTTANTI A CONTRATTARE UNA RIFORMA DEI LICENZIAMENTI LIMITATA AI RAPPORTI DI LAVORO FUTURI NELL’INTERESSE DI OUTSIDERS E NEW ENTRANTS, OGGI ESCLUSI DALLA PROTEZIONE, VA CERCATO NELLA PREOCCUPAZIONE DEGLI INSIDERS CHE QUESTA VENGA IN FUTURO ESTESA ANCHE A LORO

Intervento svolto da Pietro Ichino il 28 ottobre 2011 nel corso del convegno di inaugurazione della quinta edizione della IBM Rotating Chair, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano – Segue la traduzione in italiano curata da Luigi Covatta, cui va per questo il mio ringraziamento.

An Asian curse says “May you live in interesting times”. Well, that is the case in Italy these days. And it especially applies to the Italian industrial relations system.

As you probably know, at the beginning of August of this year the European Central Bank sent the Italian Government a letter asking for some incisive measures aimed at reactivating our economic growth. Among these, the decentralization of our collective bargaining system, the flexibilisation of our discipline of dismissals, at least in reference to the new work relationships, and, as an immediate compensation, the introduction of guaranties of economic and professional security and of effective intensive assistance in the labor market for workers who lose their jobs.

In mid-August, in response to this ECB solicitation, a new law was enacted by the Italian Government, which has enormously increased the power of plant level collective bargaining. More precisely, the new rule – sect. 8 of the decree n. 138/2011 – foresees that any plant level agreement signed by one or more key trade unions (provided that they represent the majority of the employees) can derogate not only to any national collective agreement, but also to the whole national labor legislation, including the discipline of dismissals except only the constitutional rules, those contained in international conventions or treaties and the European directives.

In fact, the revolutionary change that this rule seems to anticipate and facilitate is not likely to take place. Work terms and conditions are not likely to be made more flexible in the near future in Italy by way of collective agreements. This prediction is based on the Italian key trade unions’ knee-jerk reaction to the enactment of the new rule: they have immediately declared in unison that they would never sign a collective agreement derogating to the labor law in force; neither an agreement applying to old workers, nor an agreement applying only to new entrants. If things go this way, it is easy to foresee that the sect. 8 of the decree n. 138/2011 will be completely ineffective.

The lesson that can be learned from this is that you can’t entrust change in labor law to the organizations representing insider workers:  their commitment is to maintain the status quo, because in most cases it serves the interest of their constituency much more than reform. The obvious question is:  why should they reject the reform of the discipline of dismissals suggested by BCE even if limited to new hires from this point forward, given that in this case the new rule will not apply to former employees? This behavior can be explained if we consider that former employees fear that if the new rule yields good results, there is the risk of an extension of its application. In that case, there is a risk that all employees (long-standing and new) will be grandfathered in under the new rule. It is a reasonable fear, even if somewhat egotistical, and it is certainly inconsistent with the new generations’ interests.

A thorough reform of labor law requires a coherent plan and a legislator who is willing to take full responsibility for it. This is not the case today in Italian Government.

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Una maledizione asiatica dice: “Possa tu vivere tempi interessanti”. Bene, oggi questo è il caso in Italia: specialmente a proposito del sistema italiano di relazioni industriali. Come probabilmente sapete, ai primi d’agosto la Banca centrale europea ha mandato al Governo italiano una lettera che sollecitava alcune misure incisive finalizzate a riattivare la nostra crescita economica. Fra queste, il decentramento del nostro sistema della contrattazione collettiva, la flessibilizzazione della nostra disciplina dei licenziamenti, e infine, con riferimento ad un nuovo sistema di relazioni industriali, ed a titolo di immediata compensazione, l’introduzione di tutele economiche e professionali e di un’assistenza effettiva e intensiva nel mercato del lavoro a favore dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro.

A metà agosto, in risposta a questa sollecitazione della Bce, da parte del Governo italiano veniva approvata una nuova legge che ha drasticamente incentivato il ruolo della contrattazione aziendale. Più precisamente la nuova norma (l’articolo 8 del decreto legge n. 138/11) prevede che ogni contratto aziendale firmato da una o più organizzazioni sindacali   verificato che esse rappresentino la maggioranza dei lavoratori   può derogare non solo da ogni contratto collettivo nazionale, ma anche dall’intera legislazione nazionale del lavoro, inclusa la disciplina dei licenziamenti ed escluse solo le norme costituzionali e quelle contenute nelle convenzioni internazionali e nelle direttive europee.

Nei fatti non è così semplice dare luogo al cambiamento rivoluzionario che queste norme sembrano anticipare e facilitare. In Italia nel prossimo futuro non sarà facile rendere più flessibili termini e condizioni del lavoro attraverso i contratti collettivi. La predizione si basa sulla reazione pavloviana all’introduzione di questa norma da parte dei sindacati italiani: essi hanno immediatamente dichiarato all’unisono che non avrebbero mai firmato contratti collettivi in deroga alla legislazione del lavoro vigente: né contratti applicati ai lavoratori già occupati, né contratti applicati solo per i nuovi assunti. Se le cose andranno così, è facile prevedere che l’articolo 8 resterà completamente inefficace.

La lezione che si può trarre da questa vicenda è che non si può affidare il cambiamento della legislazione del lavoro alle organizzazioni che rappresentano i soli insiders: Il loro mandato, più o meno esplicito che esso sia, è mantenere lo status quo, perché nella gran parte dei casi esso è funzionale agli interessi della loro constituency molto più di quanto lo sia la riforma.

L’obiezione ovvia, tuttavia, è questa: perché i rappresentanti degli insiders si oppongono alla riforma della disciplina dei licenziamenti suggerita dalla Bce anche se limitata ai nuovi assunti e non applicata ai lavoratori già occupati (secondo il modello proposto alcuni anni fa dall’economista Gilles Saint Paul)? Questo comportamento può essere spiegato se si considera che i lavoratori occupati temono che se le nuove norme daranno buoni risultati c’è il rischio di un’estensione della loro applicazione: c’è il rischio, cioè, che la nuova norma finisca coll’essere estesa anche ai rapporti di lavoro costituiti prima della sua entrata in vigore. È un timore ragionevole, benchè un po’ egoistico e certamente incompatibile con gli interessi delle nuove generazioni.

Il problema potrebbe forse risolversi con una qualche forma di impegno solenne, da parte delle forze politiche e sociali che sostengono la riforma, ad astenersi dall’estensione della nuova riforma ai vecchi rapporti di lavoro. Ma si sa che gli impegni di questo genere, per quanto solenni, non sono mai veramente “blindati”. La verità è che una vera e profonda riforma della legislazione del lavoro non si può delegare alla contrattazione collettiva: essa esige un piano coerente e un legislatore che se ne assuma la piena responsabilità. Finora non è stato questo il caso del Governo italiano.

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