UN LIBRO A PIÙ MANI TRACCIA UN PROGRAMMA INCISIVO PER RIMETTERE IN MOTO L’ITALIA
Presentazione del libro Non ci resta che crescere. Le riforme: chi vince, chi perde, come farle, a cura di Tommaso Nannicini, Milano, Egea, 2011
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INTRODUZIONE
1. Perché essere ottimisti sul futuro dell’Italia
di Tommaso Nannicini
Riforme in cerca d’autore
Come ci ha ricordato Eugenio Scalfari in uno dei suoi editoriali, l’economista Paolo Sylos Labini, già trent’anni fa, assicurava che se avesse sentito qualcuno parlare ancora dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, avrebbe messo mano alla pistola. Ognuno di noi ha la propria «Salerno-Reggio» personale: che si parli di pensioni o contratti atipici, di scuola o evasione fiscale, di taxi o energia, di semplificazione burocratica o università, è facile imbattersi in proposte puntualmente al centro del dibattito pubblico ma mai realizzate, tanto da spingere anche i più miti a premere metaforicamente il grilletto. C’è davvero bisogno, allora, dell’ennesimo libro sulle riforme che servono al paese? Forse sì, per due motivi.
Primo: perché le analisi raccolte in questo libro non si limitano a ricordare che cosa dobbiamo fare per tornare a crescere (come finire la Salerno-Reggio!), ma si concentrano su come farlo tenendo conto delle caratteristiche del campo politico. In altre parole, si tratta di individuare gli interessi (leggi: gli individui in carne e ossa) che trarrebbero beneficio dalle riforme ma sono finora rimasti zitti in disparte, in modo tale da mobilitarli politicamente e convincerli che non ci resta che crescere cambiare è possibile, anche in Italia. E individuare, allo stesso tempo, gli interessi che avrebbero tutto da perdere da un rimescolamento delle carte oggi sul tavolo, in modo tale da arginarli (politicamente, s’intende) o compensarli almeno in parte per le perdite che subirebbero, ammesso che siano legittime e sostenibili le loro pretese di compensazione.
Secondo motivo: perché l’Italia sta cambiando pelle. È vero, per il momento si tratta di un cambiamento sottotraccia, difficile da decifrare per la sua incapacità di farsi sistema.
Agli occhi di chi ci osserva da fuori, sembriamo ancora un paese troppo innamorato dei propri vizi per cambiare davvero. La stagnazione della nostra economia negli ultimi due decenni, e le crisi di sfiducia o gli attacchi speculativi che colpiscono regolarmente il nostro debito pubblico sui mercati internazionali, ci parlano del fallimento di un’intera classe dirigente, non solo politica.
Ognuno continua a rinchiudersi nella difesa di rendite non più sostenibili e officia riti privi di significato, in un gioco degli specchi per cui le riforme, come le discariche, sono necessarie, ma sempre da un’altra parte. Sperando che – qualora non sia più possibile scaricare il costo delle mancate riforme sulle generazioni future – questa volta siano gli impiegati tedeschi (a colpi di Eurobond o interventi della Bce) a tirarci fuori dalle secche in cui ci siamo infilati, per la nostra incapacità di cambiare un modello di sviluppo e d‘intervento pubblico nell’economia che non è più né sostenibile né equo. Tuttavia, i semi del cambiamento sono già visibili. Perché la necessità di una svolta – nella politica, nell’economia e anche nei comportamenti sociali – si sta facendo strada, con la pazienza delle gocce d’acqua sulla roccia. E perché sempre più persone acquisiscono coscienza degli enormi costi (per loro o per i loro familiari) dell’immobilismo.
Anche se per il momento è dispersa e frustrata per l’assenza di prospettive, nel paese si sta rafforzando una vera e propria constituency delle riforme: un insieme di elettori che potrebbero dare fiducia a un programma di profondo cambiamento del paese, a patto che gli sia spiegato in maniera esauriente, all’interno di una visione positiva del nostro
futuro, tenendo insieme costi e benefici, efficienza ed equità. Giovani lavoratori tanto instancabili quanto flessibili, gravati da aspettative pensionistiche da fame; donne in cerca di una valorizzazione professionale che non schiacci il loro desiderio di famiglia; imprenditori con un’alta propensione al rischio e una scarsa dimestichezza con le relazioni politiche o «di categoria»; insegnanti e dipendenti pubblici poco gratificati all’interno di una scuola e di una pubblica amministrazione incapaci di valutare e valorizzare le proprie risorse umane; manager abituati a confrontarsi con il pungolo dei mercati; ricercatori sottopagati nonostante il prestigio internazionale della loro produzione scientifica; studenti con il gusto di viaggiare (magari low cost), consapevoli che, senza bisogno di essere esterofili, certe cose che funzionano all’estero non si capisce perché non debbano funzionare anche da noi: è fra questi elettori dispersi che si annida la speranza di un cambiamento reale, in attesa che qualcuno la faccia germogliare politicamente.
Non c’è traccia, al momento, di un imprenditore politico (leader o partito) capace di galvanizzare questo elettorato,
di offrirgli una prospettiva credibile e concreta, di inserirlo all’interno di un quadro sostenibile di alleanze politiche e sociali, e di realizzare così un programma duraturo di riforme. Un imprenditore politico che la smetta di trattare gli italiani come bambini viziati, cercando di fargli credere che i nostri problemi vengono da fuori, dai cinesi che producono sottocosto, dagli immigrati che ci rubano il lavoro, o da una cupola di avidi speculatori che non vedono l’ora di mettere le mani sulle nostre banche e sulle nostre opere d’arte. Balle. I nostri problemi – come la stagnazione degli investimenti o il declino del sistema educativo – siamo stati bravi nel crearceli da soli. E da soli dovremo risolverli. Facendo quello che altre generazioni d’italiani hanno fatto in frangenti difficili: dandoci una mossa e rimediando ai guasti delle generazioni precedenti.
Prima di ricapitolare cosa e come si può fare per tornare a crescere, alla luce dei contributi di questo libro, può essere utile ricordare perché occorra cambiare registro, quali sono i rischi concreti di continuare a parlare di riforme senza muovere un dito per un altro decennio.
Ancora prima, però, spazziamo il campo da un equivoco: farsi paladini delle riforme rilanciate in questo libro non equivale a invocare governi tecnici o sostenere che esistano soluzioni neutre che rendono superflua la dialettica politica. Alcuni interventi, è vero, rispondono a puro buon senso, e dovrebbero ricevere il consenso di tutti gli schieramenti (a patto che non siano prigionieri degli interessi costituiti che vi si oppongono). Ma altri premiano interessi che possono essere valorizzati o meno, a seconda delle legittime preferenze e delle strategie di ricerca del consenso degli attori politici. Inoltre, le decisioni collettive non si esauriscono certo nello spazio – necessariamente ristretto – qui delineato: abbiamo scelto di concentrarci su quelle politiche pubbliche, in campo economico e sociale, che possono creare gli incentivi giusti per rimettere in moto un’economia impigrita, ma la politica ha altre scelte importanti da prendere, dalla bioetica alla politica estera, dalla sicurezza dei cittadini ai diritti di quarta generazione.
Di conseguenza, anche chi apprezzerà l’elettroshock rappresentato dalle proposte che seguono potrà legittimamente auspicare che emergano in uno schieramento politico piuttosto che in un altro (come faranno, in modo diverso tra loro, gli stessi autori dei vari contributi). In ogni caso, che la si chiami «rivoluzione liberale», «agenda riformista» o semplicemente «big bang», poco importa: c’è una prospettiva di cambiamento che ha un programma e un potenziale elettorato, ma è in cerca di un autore. Politico.
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