CHARTA MINUTA: COME USCIRE DALLA CRISI “USANDOLA” PER RIMETTERE IN SESTO L’ITALIA

SE LA NOSTRA POLITICA NON SAPRÀ DARE IL COLPO DI RENI NECESSARIO, TUTTE LE NOSTRE SPERANZE DI RIMETTERE IN CARREGGIATA IL PAESE DOVRANNO APPUNTARSI SULLE ISTITUZIONI EUROPEE

Intervista a cura di Antonio Rapisarda, per Charta Minuta, mensile della fondazione Fare Futuro  – 18 ottobre 2011

Senatore, lei crede che usciremo da questa crisi?
Certo che ne usciremo! La storia insegna che nello stesso tempo in cui un paese sta attraversando il tratto più buio di una crisi stanno sempre già maturando da qualche parte, per lo più inosservati, i germi della prossima fase positiva di crescita.

Per esempio?
Nei laboratori di qualche parte del mondo è probabilmente già in corso l’incubazione di nuovi sviluppi tecnologici in materia di comunicazione, di medicina, di trasporti, di tecniche di apprendimento, o in qualche altro campo di importanza decisiva per lo sviluppo economico. In qualche formazione sociale intermedia stanno sperabilmente maturando il leader e le idee capaci di ridare all’Italia fiducia in se stessa. Nella cultura delle relazioni industriali è già in corso l’elaborazione di nuovi paradigmi capaci di mettere il nostro lavoro in relazione utile con nuove energie imprenditoriali provenienti da altre parti del mondo. E di esempi di questo genere potremmo farne ancora molti. Irene Tinagli ha tutte le ragioni quando si affanna ad avvertirci, a questo proposito, che “il futuro è più forte della crisi”; e che dobbiamo incominciare subito a pensare al dopo.

Già, il dopo. Ma il problema è come ne usciremo.
Sicuramente ne usciremo molto diversi da come ci siamo entrati. Per quel che riguarda il nostro tessuto produttivo, avremo aziende e settori in fase di contrazione, se non di chiusura, altre aziende e altri settori con grandi prospettive di crescita. La nostra prima preoccupazione dovrebbe essere quella di attrezzarci per consentire il trasferimento in condizioni di sicurezza economica e professionale di centinaia di migliaia di lavoratori dalle aziende declinanti a quelle che sono più capaci di valorizzare il loro lavoro e dare loro buone prospettive. Invece non sappiamo fare altro che incoraggiare i lavoratori a restare attaccati con le unghie e coi denti alle imprese in crisi, potenziando ed estendendo in tutti i modi la Cassa integrazione. Una politica del lavoro profondamente sbagliata e regressiva.

Il mese scorso è rispuntata l’ipotesi di un condono per finanziare misure per lo sviluppo. Lei che cosa ne pensa?
Ne penso malissimo.

Quali dovrebbero essere, invece, secondo lei, le altre misure, sul piano fiscale?
Ho in mente un’operazione audace: ridurre drasticamente l’evasione fiscale attrezzando gratuitamente tutti i venditori di beni o servizi con il terminale mobile per la riscossione a mezzo bancomat e tutti i cittadini con un conto corrente e una tessera bancomat, prevedendo al contempo un divieto drastico dei pagamenti in contanti al di sopra dei 200 euro e una riduzione dell’aliquota Iva riservata a chi non paga in contanti. Contemporaneamente prevedere una riduzione delle aliquote Irpef automaticamente correlata al maggior gettito prodotto da queste misure. Inoltre proporrei la reintroduzione dell’Ici sulle case, con destinazione dell’intero suo gettito a una drastica riduzione dell’Irpef sui redditi di lavoro, autonomo e subordinato, fino a mille euro al mese: questo avrebbe uno straordinario effetto di rilancio dei consumi. Infine, una detassazione selettiva dei redditi di lavoro delle donne, come “azione positiva” destinata a cessare al raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona del tasso di occupazione femminile al 60 per cento (oggi è al 46), finanziata con l’aumento stesso dell’occupazione femminile, con la parificazione dell’età del pensionamento delle donne rispetto a quella degli uomini e, se necessario, eventualmente anche con un ritocco in aumento dell’Irpef sui redditi di lavoro maschili: ne basterebbe uno molto modesto, sia perché gli uomini al lavoro sono molti di più, sia perché l’offerta e la domanda di lavoro maschile sono molto più rigide, dunque il ritocco dell’Irpef non ne causerebbe una riduzione.

E nei campi diversi da quello fiscale?
Proporrei innanzitutto una drastica revisione della spesa pubblica corrente, incominciando da quella inerente al funzionamento delle assemblee elettive, mediante un’applicazione rigorosa del metodo della spending review. Inoltre un ampio programma di dismissione del patrimonio pubblico male utilizzato, con predeterminazione settore per settore della destinazione dei proventi: per almeno metà alla riduzione del debito, per l’altra metà alla rivitalizzazione del tessuto produttivo. Per esempio, si può pensare alla dismissione di una grande quantità di edifici poco o per nulla utilizzati dalle amministrazioni e delle grandi aree oggi occupate nel centro delle nostre città dalle caserme non più in funzone, con assegnazione di metà di esse agli enti locali. All’assegnazione mediante una gara seria di tutte le frequenze televisive, anche di quelle utilizzate per le trasmissioni nazionali; delle migliaia di chilometri di coste occupate da stabilimenti balneari; delle partecipazioni pubbliche in grandi imprese come la Rai, o come Eni ed Enel, almeno per la parte non necessaria al fine di mantenerne il controllo. Si può pensare anche alla vendita del 20 o 30 per cento del patrimonio artistico oggi totalmente inutilizzato, conservato nelle cantine dei nostri musei (i quali espongono soltanto un sesto o un settimo delle opere di cui dispongono), con destinazione dei proventi all’istruzione, alla ricerca, alla valorizzazione della parte maggiore di quel patrimonio, oggi a rischio.

Lei, però, nel febbraio scorso ha parlato anche di un’imposta patrimoniale straordinaria.
Ne ho parlato come di una misura da adottare solo in un secondo tempo: solo un Governo che abbia compiuto in casa propria tutti i passi di cui ho detto, e magari anche alcuni altri, sarà politicamente abilitato a chiedere un sacrificio alla parte più ricca della nazione, mediante un’imposta patrimoniale straordinaria che aiuti a completare il dimezzamento del debito pubblico che ci viene chiesto dall’Europa.

Liberalizzazioni, privatizzazioni, patrimoniale: tutti le invocano, ma restano incompiute.
Perché in questi ultimi dieci anni da parte dei Governi che si sono susseguiti sono mancate la consapevolezza dell’urgenza di questa operazione, quindi la volontà di compierla, e ancor più il disegno strategico chiaro necessario per compierla. Anche ultimamente, in occasione della crisi dell’estate scorsa, il nostro Governo ha mostrato una totale mancanza di chiarezza di idee sul che cosa fare e come farlo: ogni giorno si ventilava una misura, per poi rimangiarsela il giorno successivo. È stato uno spettacolo sconfortante.

L’Europa ci chiede, tra le altre cose, anche di rivedere le pensioni. Eppure, anche qui, non mancano i conservatorismi.
Il Governo ha passato i primi due anni e mezzo di questa legislatura a dire che il sistema pensionistico non richiedeva aggiustamenti, salvo poi apportarne di rilevantissimi sotto il peso dei vincoli europei, come è accaduto nel 2010 con la parificazione dell’età di pensionamento nel settore pubblico e nell’estate scorsa in funzione dell’accelerazione del pareggio di bilancio. Ma questa della parificazione tra uomini e donne è soltanto una delle misure necessarie; un’altra e anche più importante è il riequilibrio del trattamento pensionistico tra generazioni. E un’altra ancora è costituita dal necessario riequilibrio tra welfare pensionistico e welfare delle famiglie: mi riferisco alle situazioni di bisogno dell’infanzia e dei giovani, che incidono su tutto lo sviluppo futuro delle persone, e alle famiglie con persone non autosufficienti.

Di tutto questo ritardo – frutto anche di un certo egoismo dei padri – pagheranno il costo i giovani.
I giovani lo stanno già pagando. E molto caro.

L’uscita della Fiat da Confindustria che cosa segna?
Prima ancora di quest’ultima vicenda, sono stati i contratti Fiat di Pomigliano e Mirafiori a segnare una svolta epocale nel nostro sistema delle relazioni industriali. Senza quei contratti aziendali, non ci sarebbe stato l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso. Quanto a quest’ultima mossa della Casa torinese, non comprendo perché essa sia rimasta dentro Confindustria fino a ieri – anche nel 2009, quando Confindustria firmò il timidissimo accordo con Cisl e Uil che creava più problemi di quanti non ne risolvesse  – e ne esca proprio ora, nel momento in cui Confindustria compie una svolta significativa. Mi sembra che così la Fiat rischi di indebolire questa svolta, rafforzando i soggetti che si oppongono al cambiamento su entrambi i versanti del sistema delle relazioni industriali. Osservo, poi, che l’uscita dal sistema interconfederale, invece che aumentare la libertà contrattuale della Fiat, paradossalmente la riduce.

Marchionne l’ha motivata con l’“intesa integrativa” firmata dal Confindustria il 21 settembre con Cgil, Cisl e Uil.
L’Amministratore delegato della Fiat sostiene che quell’intesa integrativa avrebbe segnato un passo indietro rispetto all’articolo 8 del decreto di Ferragosto. Non è così: per un verso la nuova norma legislativa allarga le possibilità della contrattazione aziendale soltanto se questa si colloca nell’alveo dell’accordo interconfederale del 28 settembre; per altro verso, questo accordo prevede la possibilità che la contrattazione aziendale investa tutte le materie che le sono delegate dal contratto nazionale o dalla legge. C’è così una perfetta e automatica coincidenza di oggetto e campo di applicazione fra la norma legislativa e l’accordo interconfederale. Dunque, dicendo che “le parti si atterranno rigorosamente all’accordo”, l’intesa del 21 settembre non limita affatto le potenzialità di applicazione dell’articolo 8.

Sull’articolo 8 la sfida è soltanto politica oppure c’è qualcosa di sostanziale?
Il vero problema è che si tratta di una norma sbagliata sul piano tecnico, prima che su quello politico. Perché la riforma del nostro diritto del lavoro – pure necessaria e anzi urgente – non può essere delegata alla contrattazione aziendale da un legislatore che se ne lava le mani. La riforma richiede un disegno organico e un policy-maker che se ne assuma la responsabilità. Detto questo, però, ora l’articolo 8 è in vigore. Può essere utilizzato malissimo: per questo dico che è una norma sbagliata. Ma può essere anche utilizzato benissimo. E allora, perché non provarci?

Mercato del lavoro. Anche qui la Bce ha chiesto adeguamenti: siamo competitivi?
Ecco, rispetto alla lettera del 5 agosto di Trichet e Draghi al nostro Governo, l’articolo 8 dice al tempo stesso troppo e troppo poco. Troppo, perché la Bce ci chiede soltanto di consentire alla contrattazione aziendale di derogare rispetto al contratto nazionale, non di derogare all’intera legislazione in materia di lavoro. Troppo poco, perché la Bce ci chiede una incisiva riforma della materia dei licenziamenti, accompagnata da misure idonee a garantire ai lavoratori che perdono il posto una piena sicurezza economica e professionale nel passaggio dalla vecchia occupazione alla nuova: per questo aspetto l’articolo 8 non dice nulla. La nuova norma affida il compito di questa riforma alla contrattazione aziendale; ma questa non dispone né dei mezzi né del know-how per assolvere un compito così complesso.

Lei, però, con il progetto flexsecurity ha proposto un modello di contratto aziendale concepito proprio in funzione di questo compito.
Sì. E l’ho messo a disposizione di imprese e sindacati che intendano lavorare insieme su questo progetto. Ma ho l’impressione che se non saranno le confederazioni sindacali e imprenditoriali ad assumersi la responsabilità di dettare delle guidelines per orientare la contrattazione aziendale su questo terreno, difficilmente imprese e rappresentanze sindacali aziendali troveranno l’audacia necessaria per compiere un passo di questo genere.

Resta così aperto il grande tema degli esclusi, di quelle categorie che non godono di nessuna tutela: ossia ancora i giovani e i precari.
Riscrivere il diritto del lavoro è necessario soprattutto per loro. Occorre un diritto del lavoro capace di applicarsi veramente a tutti. Almeno a tutti i rapporti di lavoro dipendente che si costituiscono da qui in avanti. Il problema è che nessun sindacato rappresenta i lavoratori futuri.

In conclusione, ci sono ancora spazi di autonomia per la politica oppure siamo destinati a farci etero dirigere da organismi sovranazionali?
Se la nostra politica saprà dare un colpo di reni, ci saranno spazi enormi per la sua iniziativa. Altrimenti, sì, tutte le nostre speranze di rimettere in carreggiata il nostro Paese dovranno appuntarsi sulle istituzioni europee.

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