ANCORA SULLA SPERANZA FATTIVA

UN LETTORE RIPRENDE IL DISCORSO SUL PERCHÉ NON CI SI DEVE SCORAGGIARE, MA SI DEVE PREPARARE PAZIENTEMENTE LA SVOLTA ANCHE SE NON SE NE CONOSCE IL TEMPO

Messaggio pervenuto il 10 ottobre 2011, in riferimento al mio editoriale telegrafico per la Newsletter n. 170, dello stesso giorno

Caro Pietro,
mi è molto piaciuto il tuo editoriale telegrafico odierno. Succede anche a me di sentirmi chiedere come faccio ad andare avanti, a non scoraggiarmi. Per quanto mi riguarda, una risposta è sicuramente quella che dai anche tu. La storia ha le sue fasi, nulla di ciò che è umano dura per sempre, anche i peggiori regimi finiscono e dunque bisogna essere pronti (estote parati) con idee e proposte per affrontare nel modo migliore la nuova fase, che come tu dici può arrivare “quando e come meno ce lo si aspetta”.
L’altra risposta sta nella consapevolezza che persone come noi hanno una responsabilità cui non possono sottrarsi. Non è soltanto la responsabilità, pur importante, che deriva dall’avere strumenti di conoscenza e analisi della realtà che altri non hanno; né quella che deriva dall’essere in posizioni che consentono di influire sulla realtà stessa, sia attraverso le idee sia attraverso l’esercizio di forme di potere. C’è anche, per la generazione cui tu ed io apparteniamo, la responsabilità del “testimone”, di colui che avendo visto non può sottrarsi dal rendere testimonianza. E ciò che noi abbiamo visto quando avevamo vent’anni è che il mondo può cambiare. Noi che “abbiamo fatto il ’68” siamo stati in questo una generazione fortunata, perché abbiamo avuto una speranza e in parte siamo anche riusciti a realizzarla, pur con tutti i limiti, le storture, le sofferenze che seguirono negli anni successivi.
Ricordo bene gli editoriali del Corriere della sera dei primi anni Sessanta in cui autorevoli commentatori si chiedevano come mai i giovani fossero così apatici e indifferenti. Poi ci fu l’alluvione del 1966, migliaia di giovani si precipitarono a Firenze per salvare dal fango case e libri, e tutti a domandarsi dove mai erano nascosti quei ragazzi fino a quel momento. Eravamo gli stessi di prima, ma avevamo bisogno, come diceva Don Milani, di qualcosa di grande per cui mobilitarci. E il ’68 per molti di noi fu anche questo, qualcosa di grande per cui valeva la pena spendersi.
Per questo noi che abbiamo vissuto tutto questo non possiamo scoraggiarci, perché abbiamo la responsabilità di dare speranza, soprattutto ai ragazzi, rassicurandoli sul fatto che se è successo può succedere di nuovo. E dobbiamo anche dirgli che quando succederà, bisognerà essere pronti.
Gregorio Arena

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