CHE COSA VIENE DOPO LA “CENTRALITÀ OPERAIA”

UNA SINISTRA DAVVERO MODERNA DEVE FARSI CARICO DELLE BATTAGLIE LIBERALI

Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 6 ottobre 2011

Giorni fa, parlando a un seminario del Partito democratico sulla socialdemocrazia, l’ on. D’Alema ha affermato che il socialismo europeo deve «prendere atto che si è conclusa una storia», e che «l’ Internazionale socialista riflette un mondo che non c’ è più». Se le forze della sinistra indugiassero negli schemi mentali e politici del vecchio socialismo europeo novecentesco, esse rinuncerebbero ad avere qualunque forza espansiva e andrebbero incontro a una sconfitta sicura. È un tema, questo, sul quale l’ on. D’Alema riflette da vario tempo. In un editoriale della rivista Italianieuropei, il leader postcomunista ha scritto, in termini altrettanto schietti, che «non sembra oggi che la cultura socialdemocratica sia in grado di rispondere al bisogno dei progressisti di dotarsi di una visione del futuro capace di suscitare partecipazione e speranze», poiché «quella esperienza rimane irrimediabilmente racchiusa in un’altra epoca, legata a una struttura delle società europee, ad una organizzazione del lavoro, ad una composizione sociale che non esistono più». Credo che non si possa non essere d’accordo con queste affermazioni dell’on. D’Alema, che hanno il pregio della chiarezza e dell’ onestà intellettuale. Del resto, da vari anni ci troviamo di fronte a una crisi epocale della socialdemocrazia, in tutti i Paesi europei. Quali ne sono state le cause? La principale è da cercare nel fatto che il socialismo democratico ha sempre avuto come proprio punto di riferimento fondamentale il proletariato delle fabbriche, il quale costituiva una classe numerosissima e sostanzialmente omogenea in tutti i Paesi industriali avanzati. Negli ultimi venti, trent’anni c’è stata una riduzione progressiva del peso della grande fabbrica nel sistema produttivo complessivo, e quindi c’è stata una drastica diminuzione del numero degli operai nelle nazioni economicamente più sviluppate, mentre si è enormemente dilatato il settore terziario. Basti pensare che negli attuali sistemi economici avanzati solo un quinto del prodotto proviene dall’ industria, mentre quasi tutto il resto è «produzione invisibile», sempre più effettuata e fruita con supporti elettronici. È evidente che una rivoluzione economico-sociale e tecnologica di tale portata ha avuto conseguenze profonde sulla consistenza dei partiti socialdemocratici, i quali, in passato, si sono sempre richiamati al proletariato come classe fondamentale della società (il che naturalmente non escludeva, anzi includeva una politica di alleanze del proletariato con strati e ceti piccolo-borghesi: ma il proletariato costituiva la chiave di volta di tale blocco sociale). Insomma, quello che è venuto meno è proprio il ruolo centrale della classe operaia nel sistema socio-politico, con conseguenze molto gravi per i partiti socialdemocratici, che a quel ruolo si richiamavano e ne facevano il loro punto di vista fondamentale. L’on. D’Alema ha ben presente tutto ciò quando dice che «la socialdemocrazia con i suoi ideali e la sua visione della società non sembra in grado di produrre una “grande narrazione” come fu nel passato». E il leader democratico ha ragione di affermare che, se è vero che la sinistra deve «dare rappresentanza al mondo del lavoro e dei suoi interessi», essa deve sapere altresì che oggi non si tratta solo del lavoro dell’operaio (peraltro, quanto mutato da quello di un tempo!), bensì anche del lavoro dell’ artigiano e del piccolo imprenditore. Senonché, io credo che non sia sufficiente limitarsi a osservare che il lavoro dell’operaio, dell’artigiano, del piccolo imprenditore è «stato penalizzato dallo sviluppo distorto degli ultimi quindici anni, che ha avvantaggiato la rendita finanziaria e la speculazione». Credo che la sinistra dovrebbe oggi fare un passo in avanti, e riconoscere che la nostra società, sempre più corporativa e statalistica, ha costruito una enorme tela, spessissima, che soffoca il lavoro: quello degli artigiani, quello delle piccole e medie aziende, e di tutti coloro (dai manager ai tecnici, agli operai, agli impiegati) che svolgono la loro attività in quelle unità produttive. Oggi decine e decine di corporazioni godono di privilegi inammissibili, al riparo dal mercato e dalla concorrenza; oggi i piccoli e i medi produttori, oltre che i privati cittadini, sono vessati da un fisco vergognosamente esoso, al solo fine di tenere in piedi un settore economico (pubblico), uno burocratico (pubblica amministrazione) e uno politico (la casta), fra i più pletorici del mondo, con costi proibitivi. Ma siamo anche il Paese (come ricordava Ostellino su questo giornale) col costo del lavoro fra i più alti dei Paesi industrializzati, e con i salari più bassi. Non crede l’ on. D’Alema che una sinistra moderna debba farsi carico di una battaglia liberal-liberistica (abbandonata dalla destra), che liberi il lavoro dai troppi ceppi che lo soffocano, rinunciando così a una generica (e quanto stantia) polemica contro il mercato?

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