I RAPPRESENTANTI DI SETTE DIVERSE ORGANIZZAZIONI CULTURALI, SOCIALI E POLITICHE ESPONGONO AL GOVERNO UE I MOTIVI PER CUI IL REGIME DI APARTHEID FRA PROTETTI E NON PROTETTI CHE CARATTERIZZA IL TESSUTO PRODUTTIVO ITALIANO DEVE CONSIDERARSI INCOMPATIBILE CON L’ORDINAMENTO COMUNITARIO
Atto presentato alla Commissione Europea il 14 settembre 2011 da Emma Bonino, vicepresidente del Senato, già commissario europeo, Benedetto Della Vedova, deputato FLI firmatario di un progetto di legge ispirato al principio della flexsecurity (p.d.l. n. 4277/2011), Antonio Funiciello, direttore di LibertàEguale, Pietro Ichino, senatore Pd, autore del progetto flexsecurity e del progetto di Codice del lavoro semplificato (d.d.l. n. 1873/2009), Giulia Innocenzi, responsabile italiana di AVAAZ (che ha già raccolto oltre 40.000 firme a sostegno di questa iniziativa), Nicola Rossi, senatore, esponente della Fondazione Italia Futura, firmatario del d.d.l. n. 1873/2009, Eleonora Voltolina, fondatrice della testata on line Repubblica degli Stagisti – V. in proposito il dibattito sviluppatosi nei giorni immediatamente successivi sul quotidiano Europa, con gli interventi di Pierpaolo Baretta, Emma Bonino, Cesare Damiano, Sergio D’Antoni, Pietro Ichino e Nicola Rossi, Tiziano Treu, Lanfranco Turci e Sergio Cesaratto
DENUNCIA ALLA COMMISSIONE EUROPEA
RELATIVA ALLA VIOLAZIONE
DA PARTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
DI OBBLIGHI DERIVANTI DALL’APPARTENENZA
ALL’UNIONE EUROPEA
I sottoscritti
Emma BONINO, nata a Bra il 9 marzo 1949;
Benedetto DELLA VEDOVA, nato il 3 aprile 1962 a Sondrio;
Antonio FUNICIELLO, nato il 27 gennaio 1976 a Piedimonte Matese;
Pietro ICHINO, nato il 22 marzo 1949 a Milano;
Giulia INNOCENZI, nata il 13 febbraio 1984 a Rimini;
Nicola ROSSI, nato il 9.12.51 a Andria;
Eleonora VOLTOLINA, nata il 22/10/1978 a Roma;
tutti di cittadinanza italiana, rappresentati dall’avvocato Pietro Ichino, del Foro di Milano, ed elettivamente domiciliati presso di lui in Milano, via Mascheroni 31, telefono +39.02.48193249, fax +39.02.48100102, email pietro.ichino@ichinobrugnatelli.it,
espongono quanto segue
IN FATTO
IL DUALISMO DEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO
1. – La fuga dal diritto del lavoro nel corso dell’ultimo trentennio
Dalla seconda metà degli anni ’70 in Italia si è assistito a una progressiva espansione dell’area di non applicazione della normativa posta a protezione del lavoro dipendente. In un primo periodo la “fuga” degli imprenditori dal diritto del lavoro è avvenuta mediante ricorso alla figura della collaborazione autonoma continuativa e coordinata (co.co.co.), prevista esplicitamente dalla legge italiana fin dal 1959, ma per la quale fino al 2003 non è stata in vigore alcuna disciplina protettiva particolare. Nel 2003 il decreto legislativo n. 276 (c.d. Legge Biagi) è intervenuto a limitare drasticamente la possibilità di ricorso alle collaborazioni autonome continuative nel settore privato, consentendo soltanto quelle collegate a uno specifico “progetto”, quindi a una precisa esigenza produttiva delimitata nel tempo. Da allora il numero delle collaborazioni coordinate e continuative ha subito una netta diminuzione (oggi si calcola che esse ammontino complessivamente a circa 400.000); e le imprese che intendono ingaggiare personale sostanzialmente dipendente, ma sottraendolo all’applicazione del diritto del lavoro, fanno prevalentemente ricorso alla figura del lavoro autonomo con partita Iva. Questo consente loro di imporre al collaboratore sostanzialmente dipendente il contratto a termine, anche quando la prospettiva di collaborazione è a tempo indeterminato, rinnovando di volta in volta il contratto per un numero indeterminato di volte.
Mentre alcune modeste provvidenze sono state recentemente estese ai lavoratori “a progetto” (in particolare, il d.l. 29 novembre 2008 n. 185, art. 19, comma 2, ha istituito per loro un trattamento di disoccupazione – peraltro di entità estremamente esigua – e li ha ricompresi nel campo di applicazione della “Cassa integrazione in deroga”, ovvero un ammortizzatore sociale destinato ad attutire gli effetti della grave congiuntura recessiva), nessuna provvidenza è stata estesa ai collaboratori continuativi a basso reddito in regime di monocommittenza e “partita Iva”, che pure sono ormai molto più numerosi dei lavoratori “a progetto”.
Le ultime elaborazioni disponibili, di fonte Istat, forniscono i seguenti dati di stock, riferiti a fine 2009, circa i lavoratori sostanzialmente dipendenti effettivamente assoggettati al diritto del lavoro in Italia:
– dipendenti subordinati da aziende private
con meno di 16 dipendenti (con protezione limitata) 4.332.291
– dipendenti subordinati da enti pubblici
o aziende private con più di 15 dipendenti 7.566.224
– e dunque totale dei lavoratori subordinati regolari 11.898.515
Di questi quasi 12 milioni di lavoratori subordinati regolari, alla fine del 2009 quelli assunti con contratto a termine erano circa 2.153.000, pari approssimativamente al 18% del totale dei lavoratori subordinati: percentuale, questa, già superiore di cinque punti rispetto alla media dell’Unione Europea (13%). Ma questa percentuale è ingannevole, poiché essa non comprende quella gran parte della forza-lavoro italiana, che, pur operando in posizione di sostanziale dipendenza, è qualificata come “autonoma”. A questi occorre aggiungere, secondo una stima attendibile,
– due milioni e mezzo di dipendenti irregolari,
– almeno un milione e mezzo di lavoratori qualificati come collaboratori autonomi, ma in realtà operanti in condizioni di effettiva dipendenza;
– quasi mezzo milione di “stagisti”, i quali vengono ingaggiati a termine senza una retribuzione regolare e senza l’applicazione di alcuna disposizione protettiva, talvolta in funzione di un effettivo programma di addestramento on the job, ma più sovente soltanto al fine dell’elusione del diritto del lavoro.
2. – La denuncia del dualismo del mercato del lavoro italiano da parte della Commissione Europea
La situazione sinteticamente descritta nel paragrafo precedente è ben nota a codesta Commissione, che la ha recentemente denunciata in modo preciso e ineccepibile nel documento preparatorio della raccomandazione del Consiglio, conseguente alla presentazione da parte del Governo italiano del Piano Nazionale delle Riforme (Valutazione del programma nazionale di riforma e del programma di stabilità 2011 dell’Italia, Bruxelles, 7 giugno 2011)
“[…]
“Trovare un punto di equilibrio tra sicurezza e flessibilità
“Il PNR non affronta il problema del dualismo del mercato del lavoro perché, secondo le autorità, l’Italia non ne risentirebbe più di altri paesi dell’UE. Tuttavia un dualismo esiste tra lavoratori con contratti a durata indeterminata e lavoratori con una protezione limitata, se non del tutto inesistente, dal rischio di disoccupazione. Non sono tanto i lavoratori con contratti a tempo determinato, che rappresentano una percentuale dell’occupazione totale prossima alla media dell’UE (13%), ad essere scarsamente protetti, bensì piuttosto i lavoratori registrati ufficialmente come autonomi ma in realtà in una relazione di lavoro subordinato come tutte le altre (i cosiddetti para-subordinati o collaboratori). Le loro possibilità di essere riconosciuti come dipendenti o di diventare veri lavoratori autonomi sono molto inferiori alle possibilità dei lavoratori con contratti a tempo determinato di ottenere un contratto permanente.”
E la Commissione prosegue osservando che il dualismo nasce da un eccesso di rigidità dei rapporti di lavoro stabili regolari:
“In realtà, una protezione rigida dal licenziamento, anche tramite un’applicazione molto restrittiva dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti per ragioni economiche, scoraggia l’assunzione di lavoratori permanenti e pertanto aumenta il ricorso a contratti più flessibili, anche di lavoro para-subordinato. […]”.
Donde la conclusione secondo cui la soluzione del problema non può nascere soltanto dal riconoscimento ai lavoratori “atipici” di qualche brandello delle protezioni già riconosciute ai lavoratori stabili regolari, bensì deve essere perseguita attraverso una profonda riscrittura dell’intero diritto del lavoro, capace di renderlo davvero suscettibile di applicazione universale.
3. – Alcuni riscontri puntuali della situazione descritta
Vi sono oggi in Italia alcuni settori produttivi, come quello dell’editoria, quello edilizio, o quello delle case di cura, nei quali da molto tempo soltanto una parte minima delle nuove assunzioni di personale dipendente avviene nella forma del rapporto di lavoro subordinato regolare.
3.1. Nel settore giornalistico, per esempio, nel corso di una recente audizione parlamentare sono emersi dati impressionanti circa l’apartheid che in Italia separa i lavoratori protetti dai non protetti. Riportiamo qui di seguito la deposizione svolta da una rappresentante della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, dottoressa Antonella Benanzato, davanti alla Commissione Lavoro del Senato:
“Presidente, desidero comunicare delle cifre riguardanti il Veneto: i giornalisti titolari di un rapporto di lavoro dipendente in Veneto sono 753; i giornalisti iscritti esclusivamente alla gestione separata (solitamente i collaboratori) (*) sono 1.640; il reddito medio di un giornalista dipendente è di 59.445 euro l’anno; il reddito medio di un giornalista co.co.co. è di 7.489 euro l’anno; il reddito medio di un giornalista libero professionista è di 9.000 euro l’anno.
Vorrei far presente, proprio per sollevare l’argomento della previdenza per i giornalisti precari, che dai risultati dell’indagine condotta dalla LSDI (l’associazione per la libertà di stampa e il diritto all’informazione), pubblicati recentemente, risulta che le pensioni dei lavoratori autonomi (sempre con riferimento ai giornalisti), per il 63 per cento delle contribuzioni, ammontano a circa 500 euro lordi l’anno. Vi lascio calcolare a quanto possa ammontare la pensione mensile. Ciò avviene perché i lavoratori precari, o i collaboratori, non sono neanche in grado di pagare delle quote importanti di previdenza e, quindi, si ritrovano con delle pensioni al di sotto di quelle sociali, assolutamente irrisorie, che anzi rappresentano un costo per la stessa cassa dei giornalisti, dal momento che quasi non è conveniente erogare delle pensioni pari a 20 euro al mese. […]”
(*) Per la migliore comprensione di questa deposizione occorre precisare che la “Gestione separata” dell’Inps (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) è quella alla quale devono obbligatoriamente iscriversi, dal 1995, tutti i lavoratori autonomi – siano essi co.co.co., lavoratori a progetto, o “partite Iva” che non siano già obbligatoriamente iscritti a una cassa di previdenza di settore, quali ad esempio le Casse per gli avvocati, per gli ingegneri e architetti, per i geometri, ecc.
Dai dati forniti dall’Inpgi (Istituto Nazionale di Previdenza per i Giornalisti Italiani) su scala nazionale si trae che, tra i giornalisti di età fino a 40 anni,
– quelli assunti come lavoratori subordinati regolari (meno della metà del totale) hanno un reddito medio annuo di 32.423 euro;
– quelli ingaggiati come collaboratori autonomi continuativi hanno un reddito annuo medio di 7.253 euro (a fronte di un reddito medio di tutti i giornalisti co.co.co. pari a 8.500 euro);
– quelli ingaggiati come liberi professionisti (“a partita Iva”) hanno un reddito annuo medio pari a 6.523 euro.
Per dare alla Commissione la percezione diretta di come è oggi diffusamente organizzato il lavoro in questo settore, offriamo di documentare e provare due casi tipici di piccole case editrici lombarde.
Caso 1 – Web TV
Organico dell’impresa: proprietario-editore, una segretaria amministrativa assunta come lavoratrice subordinata a tempo parziale, due giornaliste assunte come collaboratrici a progetto a tempo pieno, tre tecnici/montatori video addetti alla realizzazione dei servizi anch’essi assunti come collaboratori a progetto, a tempo pieno o parziale.
A settembre 2009 questa web tv assume un giovane giornalista professionista attraverso un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ma con un impegno orario ben definito – full time, sabati e domeniche inclusi – e una retribuzione bassissima (800 euro lordi al mese). Commento dell’Ordine dei giornalisti, cui il giornalista chiede consiglio: “il contratto, pur essendo la cifra bassissima, può considerarsi regolare”.
Caso 2 – Casa editrice di periodici specializzati
Organico dell’impresa: proprietario-editore, moglie del medesimo che figura come direttore responsabile delle riviste, due segretarie assunte come lavoratrici subordinate, un addetto alla gestione del sito web assunto come “collaboratore a progetto”, tre venditori di spazi pubblicitari retribuiti a provvigione, una giornalista e un collaboratore per uno o due pomeriggi alla settimana, entrambi assunti come collaboratori a progetto a tempo indeterminato.
A febbraio 2010 la casa editrice assume un giovane giornalista professionista attraverso un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ma con un impegno orario a tempo pieno ben definito e vincolante e una retribuzione di 800 euro lordi al mese. Il contratto ha inizialmente una durata predeterminata di tre mesi, a maggio viene prorogato di altri sei mesi. A dicembre la casa editrice propone al giornalista un contratto di collaborazione a progetto a tempo indeterminato. Commento dell’Ordine dei giornalisti, cui il giornalista chiede se sia legale offrire un rapporto di “lavoro a progetto” a tempo indeterminato: “in effetti un contratto di questo genere per chi è iscritto a un ordine professionale si può fare, anche se questo tipo di rapporto dovrebbe essere riservato a chi ha il doppio lavoro, o la partita Iva”.
3.2. In riferimento al settore delle costruzioni, il Segretario della Fillea-Cgil – il maggiore sindacato dei lavoratori edili – di Modena in un recente intervento (pubblicato sulla rivista Media & Impresa, giugno 2011, p. 11) ha scritto: “Sono portato ad apprezzare il tentativo di superare il dualismo insider-outsider fra lavoratori, che vivo quotidianamente nel settore delle costruzioni e che seguo come segretario del sindacato Fillea/Cgil. Nel mondo delle costruzioni abbiamo da un lato lavoratori, stabili, professionalizzati, sindacalizzati e occupati in aziende strutturate, dall’altro, una fascia di lavoratori, per lo più ex-dipendenti, indotti ad aprire partita Iva, formalmente autonomi ma, di fatto, con un vincolo di dipendenza strettissimo con un unico committente, e privi di ogni tutela”.
Per dare alla Commissione la percezione diretta di come è oggi diffusamente organizzato il lavoro in questo settore, offriamo di documentare e provare due casi tipici di imprese edili.
Caso 1 – Piccola impresa della provincia di Biella
Organico dell’impresa: titolare imprenditore, due impiegate, sei operai muratori dipendenti stabili, da otto a dieci operai muratori impiegati continuativamente nei cantieri dove l’impresa opera, ma ingaggiati “con partita Iva”.
Caso 2 – Piccola impresa della provincia di Pistoia
Organico dell’impresa: titolare imprenditore, una impiegata a tempo parziale e due operai muratori stabili con rapporti di lavoro subordinato regolari, da quattro a otto operai muratori impiegati continuativamente nei cantieri dove l’impresa opera, ma ingaggiati “con partita Iva”.
3.3. – Il fenomeno del dualismo fra lavoratori assunti con rapporto di lavoro stabile regolare e lavoratori assunti per lo svolgimento delle stesse identiche mansioni ma con rapporto di lavoro precario, privo di tutte o quasi tutte le protezioni riservate ai regolari stabili, si manifesta con particolare evidenza nel settore dell’impiego pubblico, dove è del tutto normale che funzioni essenziali di strutture dello Stato o di enti locali (quali la scuola, il catasto, le cancellerie di tribunali, i servizi tecnici comunali o regionali) vengano permanentemente svolte da personale precario.
In riferimento alle amministrazioni scolastiche un calcolo prudenziale indica in circa 400.000 le persone che lavorano da anni in condizione di precarietà permanente, nella categoria del personale docente e in quella del personale amministrativo, tecnico e ausiliario, svolgendo esattamente le stesse mansioni del personale di ruolo, ma con contratti a termine che vengono sistematicamente rinnovati di anno in anno. Queste persone non sono private soltanto della sicurezza derivante dalla stabilità di cui gode il personale di ruolo, ma godono anche di trattamenti nettamente deteriori sul piano retributivo, su quello della contribuzione previdenziale, su quello dei permessi e ferie retribuite, su quello del trattamento di malattia, nonché per altri aspetti di minore rilievo.
In riferimento alle amministrazioni locali proponiamo la descrizione del fenomeno del dualismo fra protetti e precari contenuta nel messaggio di un geologo di Brindisi, il dott. Tommaso Elia, pervenutoci il 20 maggio 2011:
“Sono un dipendente della Pubblica Amministrazione a tempo determinato, a vario titolo, dall’ottobre 1998. Dal 1998 al 3 novembre 2005 ho ricoperto il ruolo di geologo funzionario D3 presso i Servizi Ambiente, Ecologia, Pianificazione Territoriale, Protezione civile ovvero laddove vi è stata necessità di servizio. il mio posto di geologo era ed è incardinato nella pianta organica presso il S.I.T. – Sistema Informativo Territoriale, fin dal 2002.
Nel novembre 2005 termina l’ultimo dei quattro contratti a tempo pieno e determinato sottoscritti con l’Amministrazione Provinciale di Brindisi, previo superamento ad ogni scadenza contrattuale di prove selettive per titoli e colloquio conseguenti a bandi ad evidenza pubblica.
Nel 2005, l’Amministrazione entrante decide di disfarsi del personale precario impiegato dal ’98 nei vari servizi per attività istituzionali. Dopo 16 mesi, nel febbraio 2007, vengo esternalizzato come precario nella società in house della provincia e, pur se demansionato a impiegato di 6° livello, resto coordinatore delle 5 unità dell’ufficio S.I.T., anch’esso servizio istituzionale esternalizzato per tre anni alla società in house. […]”
3.4. – In riferimento al settore del lavoro parlamentare, da una recente indagine del ministero del Lavoro è emerso che più di due terzi degli assistenti operanti alle dipendenze di deputati o senatori nel corso della legislatura attualmente in corso sono ingaggiati in forma di collaboratori continuativi autonomi: rinviamo in proposito ai dati riportati da Luigi Cancrini sul quotidiano l’Unità dell’8 giugno 2011 sotto il titolo Il precariato in Parlamento (pag. 18), riservandoci di produrre – se richiesti – i dati più precisi risultanti da una indagine a tappeto sui rapporti di lavoro tra i parlamentari e i loro collaboratori, in corso di ultimazione da parte del ministero del Lavoro. Questo dato è particolarmente significativo, in quanto mostra come il dualismo caratteristico del sistema italiano sia comunemente accettato anche nelle sedi più qualificate, e in particolare nelle sedi istituzionali alle quali competerebbe invece di adoperarsi per il suo superamento.
4. – La gravissima disparità di trattamento fra i lavoratori subordinati regolari e i lavoratori sostanzialmente dipendenti, ma qualificati come collaboratori autonomi continuativi
Nell’ordinamento italiano ai collaboratori autonomi, siano essi qualificati come “lavoratori a progetto”, o come “collaboratori a partita Iva”, è riservato uno statuto protettivo incomparabilmente più povero rispetto ai lavoratori subordinati regolari. Essi, in particolare,
– non hanno alcuna protezione contro il licenziamento e contro la reiterazione dei contratti a termine, la quale può avvenire senza alcun limite;
– sono esclusi da qualsiasi limite di orario di lavoro nella giornata, nella settimana o nell’anno;
– non godono del diritto alle ferie annuali;
– sono normalmente esclusi dall’applicazione dei contratti collettivi di settore e in particolare degli standard retributivi minimi (con i risultati di impressionante disparità di trattamento, a parità di lavoro, dei quali si è detto, a titolo di esempio, nel § 3.1);
– sono soggetti a un regime contributivo previdenziale diverso rispetto ai subordinati regolari: il loro contributo complessivo ammonta approssimativamente al 27 per cento della retribuzione, mentre per i subordinati regolari esso ammonta per lo più al 32 o 33 per cento.
Solo per i “lavoratori a progetto” il d.lgs. n. 276/2003 ha introdotto una protezione – peraltro molto blanda – per il caso di malattia.
* * *
Tutto ciò premesso in fatto, i sottoscritti osservano
IN DIRITTO
5. Violazione da parte dell’Italia dell’obbligo di prevedere misure per impedire, e all’occorrenza punire, l’abuso di una successione di contratti a tempo determinato (clausole 1 e 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999).
5.1. La normativa europea – L’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, recepito nella direttiva 1999/70/CE, impone agli Stati membri di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (clausola 1, lettera b, e clausola 5 dell’accordo quadro). Il punto 6 delle Considerazioni generali dell’Accordo quadro afferma, altresì, il principio secondo il quale i contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento; al riguardo, la Corte di Giustizia ha precisato che la finalità dell’Accordo quadro consiste nel proteggere i lavoratori dall’instabilità dell’impiego (sentenza 23 aprile 2009, causa da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki, punto 99).
La clausola 5 dell’Accordo quadro mira a prevenire in modo effettivo l’utilizzo abusivo di contratti o rapporti lavoro a tempo determinato in sequenza, là dove potrebbe e dovrebbe invece essere utilizzato il tipo legale del rapporto a tempo indeterminato. Come chiarito dalla Corte, “tale utilizzo dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato sarebbe incompatibile con la premessa sulla quale si fonda l’accordo quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, mentre i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività, come si evince dai punti 6 e 8 delle considerazioni generali dell’accordo quadro stesso” (Angelidaki, punto 104). Sempre secondo la Corte, il beneficio della stabilità dell’impiego costituisce un elemento portante della tutela dei lavoratori (v. anche sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, punto 64); la Corte stessa sottolinea che l’accordo quadro intende delimitare il ripetuto ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato, considerati come potenziale fonte di abuso a danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima volte a evitare il circolo vizioso precarietà-difetto di investimento in formazione-debolezza nel mercato-precarietà ulteriore dei lavoratori dipendenti (sentenza 4 luglio 2006, causa C‑212/04, Adeneler e a. punto 63). La Corte sottolinea ancora come nel secondo capoverso del preambolo dell’Accordo quadro e nel punto 8 delle sue considerazioni generali, i contratti di lavoro a tempo determinato siano considerati idonei a rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori soltanto in alcune circostanze ben delimitate (Angelidaki, punto 105).
Dall’appartenenza all’Unione europea deriva dunque l’obbligo per gli Stati membri di raggiungere il risultato previsto da una direttiva, nonché il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo (art. 4, par. 3, Trattato sull’Unione Europea). Secondo i termini stessi dell’articolo 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono “prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva”. Tali risultati sono stati efficacemente sintetizzati dalla Corte di Giustizia, in questi termini: “[… ] l’accordo quadro mira a dare applicazione al divieto di discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato.” (sentenza 13 settembre 2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso, punto 37).
La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro è specificamente volta a prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. A tal fine, la clausola impone agli Stati membri l’obbligo di introdurre nel proprio ordinamento giuridico almeno una delle misure elencate nel detto punto 1, lett. a), b) e c), qualora non siano già in vigore nello Stato membro interessato disposizioni normative equivalenti volte a prevenire in modo efficace l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato (sentenze Adeneler e a., cit., punti 64 e 65; 7 settembre 2006, causa C 53/04, Marrosu e Sardino, punto 44, nonché causa C 180/04, Vassallo, punto 35).
5.2. L’orientamento sostanzialistico della giurisprudenza della Corte di Giustizia. – Le tre misure indicate consistono nel divieto del rinnovo del contratto a termine che non risponda a ragioni oggettive, nella fissazione della durata massima complessiva di contratti di lavoro a termine in sequenza e nella fissazione di un numero massimo di rinnovi. Tuttavia, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, che assegna agli Stati membri un obiettivo generale, consistente nella prevenzione di tali abusi, lascia loro la scelta dei mezzi per conseguirlo (v., in tal senso, sentenza 15 aprile 2008, causa C 268/06, Impact, punto 70). A norma di tale disposizione, rientra, infatti, nel potere discrezionale degli Stati membri ricorrere, a tal fine, a una o più tra le misure indicate, o ancora a norme in vigore equivalenti, anche tenendo conto delle esigenze di settori specifici e/o di categorie di lavoratori, ma pur sempre nel rispetto del principio generale sotteso all’intero accordo-quadro (sentenza Impact, cit., punto 71).
Al riguardo, la Corte ha riconosciuto (da ultimo, sentenza 10 marzo 2011, causa C-109/09, Deutsche Lufthansa AG contro Gertraud Kumpan, punto 34 e ss.) che “in virtù di tale disposizione, gli Stati membri beneficiano di un margine di discrezionalità nel conseguimento di tale obiettivo, a condizione, tuttavia, che essi garantiscano il risultato imposto dal diritto dell’Unione, così come risulta non solo dall’art. 288, terzo comma, TFUE, bensì anche dall’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, letto alla luce del diciassettesimo ‘considerando’ di quest’ultima. […] Il potere discrezionale conferito agli Stati membri alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro deve essere esercitato altresì nel rispetto del diritto dell’Unione e, in particolare, dei principi generali di quest’ultimo nonché delle altre disposizioni dell’accordo quadro (v., in tal senso, citate sentenze Mangold, punti 50-54 e 63-65, e Angelidaki e a., punto 85)”.
Ultimamente la Corte di Giustizia, nella causa C-3/10 Affatato c. Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, rispondendo con l’ordinanza del 1° ottobre 2010 a una serie di questioni poste dal Tribunale di Rossano, ha bensì confermato l’ampia discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri nella scelta delle misure idonee a realizzare il risultato sostanziale previsto dalla direttiva 1999/70/CE, ma ha anche sottolineato la necessità che le misure adottate siano comunque efficaci, cioè in concreto idonee a conseguire il risultato stesso.
Spetta agli Stati membri prevedere misure idonee ed efficaci per la prevenzione dell’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato in qualsiasi forma tale utilizzazione avvenga, nell’area del lavoro sostanzialmente dipendente. Questo obbligo opera anche in situazioni che solo apparentemente esulano dall’ambito di applicazione della direttiva 1999/70/CE, ma che sono generate da pratiche di elusione sistematica delle norme europee. L’effettività del diritto dell’Unione europea è con tutta evidenza pregiudicata in una situazione come quella italiana, nella quale l’ordinamento nazionale si è adeguato solo formalmente alle disposizioni sovranazionali, consentendo che esse siano sostanzialmente aggirate e disattese in una vasta parte del tessuto produttivo.
Più precisamente, l’Italia si è resa responsabile della mancata adozione di misure volte a impedire, e all’occorrenza punire, l’aggiramento e la sostanziale vanificazione del divieto di rinnovo senza limiti di un contratto di lavoro a tempo determinato tramite il ricorso a contratti di collaborazione autonoma aventi per oggetto prestazioni di lavoro sostanzialmente dipendente, reiterati nel tempo fino ad assumere una durata complessiva anche ultradecennale e persino pluridecennale, che oggi costituisce prassi diffusissima e pacificamente tollerata. Come si è visto nella parte narrativa di questa denuncia, si tratta di una prassi generalizzata, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, nei confronti della quale l’ordinamento italiano non prevede mezzi di tutela adeguata ed effettiva per i lavoratori.
5.3. Applicabilità delle regole poste dalla direttiva n. 1999/70/CE a tutti i rapporti di lavoro in condizione di sostanziale dipendenza – Giova ribadire, a questo proposito, che le disposizioni delle direttive europee in materia di lavoro devono intendersi riferite a tutte le posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente, indipendentemente dalla qualificazione particolare che di esse dia l’ordinamento dello Stato membro: dove con l’espressione “posizione di lavoro dipendente” si indica quella di chi collabora continuativamente con un’unica azienda, inserito nella sua struttura, traendo da tale rapporto l’intero proprio reddito, o la parte assolutamente prevalente di esso (è infatti la posizione di dipendenza economica, e non l’assoggettamento della prestazione a etero-direzione, la ragion d’essere essenziale della protezione disposta dall’ordinamento: torneremo più approfonditamente su questo punto nel § 7.1). Una conferma del fatto che lo stesso ordinamento italiano riconosce questa come la nozione essenziale del “lavoro dipendente” si trae dal già citato (nel § 1, pag. 2 di questo atto) articolo 19, comma 2, del d.l. n. 185/2008, dove per identificare i lavoratori “atipici”, anche formalmente qualificati come “autonomi”, cui estendere il trattamento di disoccupazione si pone il requisito che essi
“a) operino in regime di monocommittenza;
b) abbiano conseguito l’anno precedente un reddito lordo non superiore a 20.000 euro e non inferiore a 5.000 euro”.
È ben vero che questa norma estende il trattamento di disoccupazione soltanto ai “collaboratori autonomi continuativi” e ai “lavoratori a progetto”, mantenendo l’esclusione per i lavoratori che, pur rispondendo a entrambi i requisiti menzionati, operino in regime di “partita Iva”. Ma dal punto di vista sostanziale non si vede davvero alcun motivo che possa ragionevolmente giustificare tale disparità di trattamento, stante la perfetta identità della situazione sostanziale nei due casi. Se dunque devono considerarsi “lavoratori dipendenti” i cosiddetti co.co.co. e i “lavoratori a progetto” operanti continuativamente in regime di monocommittenza e a basso reddito, devono considerarsi “lavoratori dipendenti” anche gli altri lavoratori autonomi che operino nelle stesse condizioni, anche se formalmente in regime di “partita Iva”.
Devono pertanto sicuramente essere ricompresi nell’area coperta dalla direttiva n. 1999/70/CE anche tutti i rapporti di lavoro che nell’ordinamento italiano vengono qualificati come di “lavoro parasubordinato”, ma caratterizzati appunto dalla monocommittenza, dal basso reddito e dal carattere continuativo della collaborazione con la prestazione nell’azienda del committente. Sulla necessità di una interpretazione estensiva della nozione di lavoro cui le disposizioni protettive europee si riferiscono, la giurisprudenza della Corte di Giustizia è consolidata ormai da un trentennio: cfr. la sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85, Deborah Lawrie/Blum, nonché la sentenza 23 marzo 1982, causa 53/81, Levin, racc. pag. 1035: “poichè la libera circolazione dei lavoratori costituisce uno dei principi fondamentali della comunità, la nozione di lavoratore ai sensi dell’art. 48 non può essere interpretata in vario modo, con riferimento agli ordinamenti nazionali, ma ha portata comunitaria. La nozione comunitaria di lavoratore, che definisce la sfera d’applicazione di tale libertà fondamentale, non può essere interpretata restrittivamente”. V. inoltre la sentenza 26 febbraio 1992, C-3/90, M.J. e Bernini c. Minister Van Onderwijs En Wtenschappen, § 14: “deve essere considerata lavoratore ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed accessorie”.
È ben vero che quest’ultima sentenza prosegue con questa precisazione: “La caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è il fatto che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore e sotto la direzione di un’altra persona, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione”. Ma la dottrina giuslavoristica ha da tempo posto in evidenza il fatto che, quando la prestazione lavorativa abbia il carattere della durevolezza nel tempo e della continuità in senso tecnico – ovvero della illimitata divisibilità in ragione del tempo lungo il quale essa si svolge , questo elemento dell’assoggettamento a un potere direttivo del creditore della prestazione ben può essere oggetto di una presunzione di carattere generale, almeno fino a prova contraria. E questa presunzione è tanto più forte quanto più ridotto è il livello professionale della prestazione, del quale è un indicatore anche il livello retributivo (questo spiega la ratio del limite massimo di reddito posto dalla norma italiana sopra citata articolo 19, comma 2, del d.l. n. 185/2008 , mentre il limite minimo di reddito è evidentemente posto nella stessa norma al fine di escludere le prestazioni occasionali, nelle quali cioè fa difetto il carattere della durevolezza nel tempo).
5.4. Inadeguatezza delle sanzioni poste dall’ordinamento italiano – La condotta dell’Italia è in contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea anche sotto il profilo dell’inadeguatezza delle sanzioni. Occorre in proposito ricordare che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure enumerate in tale disposizione e dirette a prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, qualora il diritto nazionale non preveda già misure equivalenti. Come più volte ricordato dalla Corte di Giustizia, quando il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati comunque accertati abusi, “spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte a una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro”. Inoltre, “anche se le modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività). Ne consegue che, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione.” (sentenza 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrosu e Sardino, punti 51-53).
Le misure adottate dall’Italia in attuazione dell’accordo quadro non possono ritenersi affatto effettive e dissuasive, se si considera l’ampiezza dell’area di sostanziale disapplicazione e l’accettazione corrente della disapplicazione stessa. Consentendo che la disciplina sul rapporto di lavoro a tempo determinato sia svuotata dalla possibilità del ricorso – reiterato senza limiti di tempo, né di numero dei rinnovi, nei confronti di un medesimo lavoratore – a tipi contrattuali di collaborazione autonoma, le tutele previste a fronte del ricorso abusivo a una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato risultano sostanzialmente disapplicate, mentre la piena efficacia della direttiva 1999/70/CE è compromessa.
6. – Violazione del principio di non discriminazione tra lavoratori precari e lavoratori di ruolo comparabili (clausola 4 dell’Accordo quadro)
L’Accordo quadro dispone che i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per quanto riguarda le condizioni di impiego. La Corte di Giustizia ha chiarito in proposito che “La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che osta all’introduzione di una disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato giustificata dalla mera circostanza di essere prevista da una disposizione legislativa o regolamentare di uno Stato membro ovvero da un contratto collettivo concluso tra i rappresentanti sindacali del personale e il datore di lavoro interessato”. Più precisamente, “tenuto conto dell’importanza del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione, che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, alle disposizioni previste dalla direttiva 1999/70 e dall’accordo quadro al fine di garantire ai lavoratori a tempo determinato di beneficiare degli stessi vantaggi riservati ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili, a meno che un trattamento differenziato non si giustifichi per ragioni oggettive, dev’essere riconosciuta una portata generale, in quanto costituiscono norme di diritto sociale comunitario di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela.” (sentenza 13 settembre 2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso, punti 59 e 27).
Orbene:
– come abbiamo visto nei §§ 1-3, in Italia oggi gli imprenditori, quando assumono un lavoratore in regime di collaborazione continuativa e monocommittenza, sono di fatto lasciati liberi di scegliere se qualificarlo come lavoratore subordinato o come collaboratore autonomo (nella maggior parte dei casi il lavoratore o l’ispettore che contesta la qualificazione del rapporto in termini di lavoro autonomo incontra una gravissima difficoltà nell’assolvimento dell’onere della prova circa l’assoggettamento pieno della prestazione di lavoro al potere direttivo del titolare dell’azienda);
– come pure abbiamo visto nel § 4, in Italia oggi la collaborazione autonoma continuativa è totalmente svincolata dalle limitazioni imposte dal diritto del lavoro al licenziamento e al contratto a termine; di fatto questo consente che più di cinque milioni di italiani lavorino continuativamente in una posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda, e senza un contratto a tempo indeterminato, con un sostanziale aggiramento delle disposizioni previste dall’Unione europea a tutela dei lavoratori dipendenti, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato;
– come abbiamo visto nel § 4, in Italia oggi ai collaboratori autonomi, siano essi qualificati come “lavoratori a progetto”, o come “collaboratori a partita Iva”, anche quando lavorano in condizioni di dipendenza sostanziale dall’azienda (continuità e monocommittenza), è riservato uno statuto protettivo incomparabilmente più povero rispetto ai lavoratori subordinati regolari, in dispregio al principio di parità di trattamento posto dall’Accordo quadro e dalla direttiva n. 1999/70.
7. – Considerazioni conclusive
Non è difficile prevedere la linea difensiva che il Governo italiano adotterà contro le contestazioni mosse con questa denuncia. Esso, con tutta probabilità, sosterrà che i casi sono due:
– o le prestazioni oggetto dei due milioni e mezzo di rapporti di collaborazione autonoma continuativa di cui si è detto nel § 1 sono effettivamente caratterizzate dall’autonomia, e in tal caso è giusto che esse siano sottratte all’applicazione del diritto del lavoro;
– oppure in quei rapporti il carattere autonomo della prestazione è simulato: in tal caso la legge nazionale sarebbe violata e dovrebbero applicarsi le sanzioni dalla legge stessa previste (conversione di diritto dei rapporti di lavoro autonomo simulato in rapporti di lavoro subordinato, con conseguente applicazione integrale del diritto del lavoro e risarcimento del danno subito dal lavoratore per il periodo durante il quale la simulazione è durata).
Questa probabile difesa deve essere respinta per i motivi che seguono.
7.1. Ancora sulla nozione di “lavoro dipendente” applicabile – Come si è visto, la nozione di lavoratore dipendente cui il diritto dell’Unione europea riferisce le proprie normative di protezione deve essere intesa nel senso più ampio del termine: dunque non come concetto rigidamente legato all’elemento dell’assoggettamento pieno della prestazione lavorativa al potere direttivo del titolare dell’azienda (elemento che oltretutto è sovente difficilissimo da provare in giudizio); bensì come concetto incentrato sulla situazione di sostanziale dipendenza del lavoratore. Si trova in questa posizione – applicandosi qui la nozione di “dipendenza economica” che il diritto del lavoro attinge dalla scienza economica – chi collabora continuativamente con un’unica azienda, inserito nella sua struttura, traendo da tale rapporto l’intero proprio reddito, o la parte assolutamente prevalente di esso, quando il livello medio-alto del reddito stesso non sia indice di una posizione di forza professionale e quindi anche contrattuale. La ratio della protezione disposta dall’ordinamento è essenzialmente legata proprio a tale posizione, per l’alterazione che essa comporta nell’equilibrio contrattuale tra le parti. È infatti proprio dalla continuità ed esclusività della prestazione che derivano a) l’asimmetria informativa tra le parti circa le opportunità alternative offerte dal mercato del lavoro; b) la concentrazione del rischio per il prestatore inerente alla cessazione del rapporto; c) la dispersione di professionalità specifica derivante dalla cessazione del rapporto.
Se questa del lavoratore dipendente dall’azienda è la fattispecie di riferimento del diritto del lavoro nell’ordinamento europeo, il dato statistico di fonte Istat riportato nel § 1 di questa denuncia ci dice che i lavoratori dipendenti italiani sottratti pressoché totalmente all’applicazione dell’intera normativa di protezione, e in particolare alla disciplina limitativa del contratto a termine, sono circa un terzo del totale. L’esistenza stessa di quel terzo di lavoratori non protetti costituisce violazione grave, di entità macroscopica, della direttiva n. 1999/70.
7.2. Necessità di un apparato sanzionatorio efficace contro l’elusione – In ogni caso, quand’anche la probabile difesa del Governo italiano di cui si è detto sopra fosse plausibile per quel che riguarda la definizione della fattispecie di riferimento per l’applicazione del diritto del lavoro, essa non lo sarebbe per quel che riguarda la predisposizione di un apparato sanzionatorio efficace non soltanto contro la violazione, ma anche contro l’elusione della disciplina inderogabile della materia. Confidiamo di aver mostrato quanto diffusa sia l’elusione, ovvero la “fuga dal diritto del lavoro”, nel tessuto produttivo italiano attuale. Codesta stessa Commissione Europea, del resto, ha rilevato questo fenomeno con impietosa precisione nel recente documento che abbiamo citato e in parte riportato sopra, nel § 2.
L’ordinamento dell’Unione europea non può accontentarsi di un adempimento soltanto formale da parte dello Stato membro, consistente nell’emanazione di una disciplina nazionale della materia il cui contenuto è astrattamente compatibile con la norma sovraordinata. Al contrario, come abbiamo visto nel § 5, lo Stato membro è tenuto ad adottare misure non soltanto proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive per garantire la piena efficacia delle norme di fonte europea. Ciò implica che i casi di violazione delle norme stesse devono costituire un evento marginale, di peso modesto rispetto ai casi di corretta applicazione. Quando invece, come nel caso italiano attuale, la violazione diventa nei fatti la regola, lo Stato membro non può essere considerato adempiente.
7.3. Necessità del superamento del dualismo del mercato del lavoro italiano – Non potrà neppure essere opposto dal Governo italiano l’argomento secondo cui l’estensione del diritto del lavoro italiano all’intera area dei lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza priverebbe il tessuto produttivo di un indispensabile polmone di flessibilità. Codesta stessa Commissione Europea, nel documento del 7 giugno scorso più volte citato, indica la necessità che venga trovato “un punto di equilibrio tra sicurezza e flessibilità” e – come si è visto osserva che “In realtà, una protezione rigida dal licenziamento, anche tramite un’applicazione molto restrittiva dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti per ragioni economiche, scoraggia l’assunzione di lavoratori permanenti e pertanto aumenta il ricorso a contratti più flessibili, anche di lavoro para-subordinato.” Con ciò ribadendo il principio fondamentale che sottende la direttiva n. 1999/70, per il quale la flessibilità di cui il sistema produttivo ha bisogno non può essere perseguita col dividere i lavoratori in una classe di privilegiati soggetti a protezione rigida e una di “paria”, poco o per nulla protetti, che portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. La soluzione del problema deve consistere in un diritto del lavoro capace di conciliare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza di tutti i lavoratori dipendenti nel mercato. Con la conseguenza che quest’ultima non può essere costruita con l’ingessatura dei rapporti di lavoro, bensì con il rafforzamento della posizione di tutti i lavoratori nel mercato del lavoro.
7.4. Inidoneità dell’ultima norma emanata in materia di lavoro (d.l. n. 138/2009) – È prevedibile, infine, che il Governo italiano indichi come misura adottata contro il dualismo del mercato del lavoro la nuova norma emanata con l’articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, che legittima ciascuna impresa a stipulare con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative contratti collettivi aziendali che potranno derogare alla legge nazionale, tra l’altro anche in materia di disciplina dei licenziamenti e dei rapporti di collaborazione autonoma. Questo argomento non può che essere respinto in considerazione del fatto che
– la nuova norma non vincola affatto le imprese, né le loro controparti sindacali, a negoziare contratti volti a superare il dualismo tra lavoratori protetti e non protetti;
– la nuova norma non indica alcuna disposizione contrattuale che possa essere in qualche modo considerata funzionale al superamento del dualismo stesso;
– la nuova norma è formulata in modo gravemente difettoso, non indicando con precisione il criterio di selezione dell’agente contrattuale abilitato a stipulare i contratti aziendali in deroga: donde una pesante ipoteca sulla possibilità stessa che tali contratti, se e quando vengano stipulati nel prossimo futuro, siano idonei a offrire certezza di effetti alle imprese e ai lavoratori interessati;
– la stipulazione di contratti aziendali mirati all’obiettivo del superamento del dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro è, per altro verso, assai improbabile, se si considera che i soggetti immediatamente interessati a questo obiettivo – ovvero i c.d. “lavoratori atipici”, per lo più appartenenti alle nuove generazioni – di fatto non sono oggi rappresentati dai sindacati di categoria.
* * *
Autorizziamo la Commissione a indicare la nostra identità nei Suoi contatti con le autorità della Repubblica Italiana, contro la quale è presentata questa denuncia.
* * *
Questa denuncia viene presentata contestualmente mediante spedizione alla Segreteria generale della Commissione Europea, B-1049 Belgio, e mediante consegna diretta alla Rappresentanza della Commissione Europea a Roma, via IV Novembre 149.
Milano, 12 settembre 2011
Emma Bonino
Benedetto Della Vedova
Antonio Funiciello
Pietro Ichino
Giulia Innocenzi
Nicola Rossi
Eleonora Voltolina