IL DIBATTITO IN SENATO SUL DECRETO DI FERRAGOSTO

DUE INTERVENTI SUI DIFETTI GENERALI DELLA MANOVRA-BIS CON CUI IL GOVERNO INTENDE RISPONDERE ALLA CRISI FINANZIARIA E DUE INTERVENTI SULLA CONTESTATISSIMA NORMA IN MATERIA DI DIRITTO SINDACALE E DEL LAVORO

Interventi di Enrico Morando, Maurizio Castro, Nicola Rossi e Franco Marini, estratti dal resoconto stenografico delle sessioni del Senato del 6 e 7 settembre 2011, nelle quali si è svolto il dibattito sul disegno di legge di conversione del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138 – In argomento v. anche il mio intervento in Commissione Lavoro del 23 agosto sull’articolo 8 del decreto nella sua versione originaria – Inoltre la mia intervista alla Stampa del 31 agosto e la mia intervista al Messaggero del 5 settembre

MORANDO, relatore di minoranza. Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORANDO, relatore di minoranza. Signor Presidente, io non ho rinunciato a tenere questa relazione perché, malgrado le novità si annuncino cospicue e rilevanti, continuo a credere (e forse ormai sarebbe meglio che dicessi che continuo a sperare), che questo dibattito e quest’Aula possano esercitare un’influenza anche sulle decisioni che si stanno prendendo.
So che ormai devo concludere che mi sbaglio, ma questo è il mio mestiere e questo cerco di fare.

BALDASSARRI (Per il Terzo Polo: ApI-FLI). Il Parlamento discute di una manovra ridicola! Vedrete all’apertura dei mercati!

PRESIDENTE. Senatore Baldassarri, la richiamo per la seconda volta all’ordine.

MORANDO, relatore di minoranza. Signor Presidente, viviamo ore drammatiche. Nessuno, nemmeno la cancelliera Merkel, può permettersi di accostare la situazione italiana a quella greca (Applausi dal Gruppo PD), ma nessuno in Italia può permettersi di sottovalutare il rischio che incombe sul nostro Paese. Sì, il debito pubblico italiano può fallire, e l’insolvenza di un grande Paese come l’Italia può trascinare con sé nella rovina l’intero sistema dell’euro. Tornerò più avanti su questo punto per motivare meglio giudizi tanto allarmanti. Ora voglio concentrarmi sulle cose da fare nelle prossime ore, non sulle analisi di ciò che è stato.
Il Presidente della Repubblica ieri, al termine di una giornata drammatica per il nostro Paese, ha chiesto di rafforzare l’efficacia e la credibilità della manovra. Adesso noi tutti, maggioranza, Governo e opposizione, ciascuno secondo la sua responsabilità, dobbiamo rispondere a quell’appello. Lo deve fare il Governo che ai primi di agosto aveva dato segni di una consapevolezza e di una determinazione che si sono poi, via via, affievolite, fino a tradursi in una vera e propria confusione e irresponsabile improvvisazione.
I segni di consapevolezza, li voglio enumerare: la decisione di rafforzare, rispetto alla sua prima versione, la manovra di luglio; la convocazione l’11 agosto delle Commissioni bilancio e affari costituzionali per mettere all’ordine del giorno l’introduzione in Costituzione della regola sul pareggio strutturale di bilancio; il varo della manovra il 13 agosto. Ma poi, in rapida sequenza, i segni di confusione, di sottovalutazione del rischio, di incompetenza, di irresponsabilità hanno avuto la prevalenza.
Confusione e sottovalutazione: se si è davvero convinti che il debito pubblico italiano può fallire, e purtroppo può fallire, non si inserisce nella manovra il contributo di solidarietà – per discutibile che esso sia – per poi toglierlo dopo qualche giorno, sostituendolo con i proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale. Cosa può capire il cittadino se un giorno il suo Governo gli dice che la casa brucia e che bisogna ricorrere ad un estintore assolutamente inusuale, capace anche di provocare effetti indesiderati molto sgraditi, e il giorno dopo quello stesso Governo gli comunica che si può fare a meno di quello stesso istituto? Il cittadino capisce che l’incendio non doveva essere poi così grave se il Governo si comporta così, e tende a comportarsi di conseguenza. Ma se il cittadino si comporta di conseguenza noi non riusciamo ad affrontare la crisi e a fare a meno di cadere nel baratro che sta di fronte a noi.
L’incompetenza: prima l’annuncio di una misura in materia previdenziale che discrimina pesantemente centinaia di migliaia di lavoratori laureati che hanno onerosamente – almeno quelli che lo hanno fatto negli anni più recenti – riscattato a fini previdenziali gli anni dell’università. «Poche migliaia di persone» – ecco l’incompetenza – si sente dichiarare da Ministri ai margini dell’infausto vertice di Arcore. Poi la precipitosa corsa all’indietro e ad una chiusura verso qualsiasi intervento in materia previdenziale che, a sua volta, è uno dei principali fattori di scarsa credibilità della manovra. Per non citare, signor Presidente, il danno arrecato al Paese dallo sconcertante intervento, a Cernobbio, del Ministro degli affari esteri in materia di autonome scelte della Banca centrale europea in tema di interventi non convenzionali dell’istituto di emissione sul mercato dei titoli del debito pubblico. Un intervento che ha provocato una reazione ufficiale della Banca centrale europea nel momento in cui è massimamente impegnata a fornire al debito pubblico italiano il sostegno compatibile con il suo statuto: un comunicato ufficiale per respingere sdegnosamente le sollecitazioni indebite del Ministro degli esteri del Governo italiano.
Irresponsabilità, signor Presidente: se era opportuno – e forse lo era – offrire una copertura di legge all’accordo sulla rappresentanza e la contrattazione concluso il 28 giugno tra tutte le parti sociali, anche al fine di consentire ad una ben regolata e diffusa contrattazione di secondo livello di derogare al contratto nazionale (ricordiamoci che la Germania deve una parte importante del suo rilancio ad una scelta di questo tipo), qual è la ragione che ha mosso il Governo a scrivere l’articolo 8 della manovra, che produce scontro sociale e conflitto anche tra i protagonisti, anzi proprio tra i protagonisti, dell’accordo del 28 giugno?
E ancora. Si era detto: al Senato la manovra – lei lo ricorda, signor Presidente, perché immagino avrà partecipato a quella che chiamiamo divisione dei compiti tra Camera e Senato – e alla Camera la riforma dell’articolo 81. Come è potuto accadere che, a distanza di tre settimane, il Governo non abbia depositato una precisa proposta di riforma e che le Commissioni competenti della Camera non si siano più riunite da allora fino ad oggi? Qualcuno dice non è roba che si conta, che influisce sui saldi – quella dell’articolo 81 – e ci sarà dunque tempo per provvedere. Chi sostiene questa tesi non ha ben compreso la qualità della crisi nella quale siamo immersi, signor Presidente. Questa è prima di tutto una crisi di fiducia che, deprimendo le aspettative, gela consumi e investimenti, diffonde incertezza e per questa via – come mostra da tempo l’andamento dei CDS – alimenta la previsione della possibile insolvenza.
Ma allora, se così è, il voto del Parlamento – anche il primo voto, signor Presidente – all’unanimità o quasi sulla regola del pareggio strutturale di bilancio in Costituzione è merce che vale quanto e più dell’oro, nella crisi attuale. Altro che non influire sui saldi! Influisce sul merito di credito del Paese, e dunque sui tassi di interesse, più di qualsiasi altra misura. Lo dimostra la Spagna dove, a tre mesi dal voto – quanta ammirazione suscitano quel sistema politico, quei partiti, signor Presidente, almeno in me, se non in altri! – pur se impegnata in un durissimo scontro elettorale, sono state trovate le risorse politiche, culturali e umane, la voglia di fare, la voglia di farcela per quel Paese, per la politica di quel Paese (Applausi dal Gruppo PD), e hanno approvato con il 90 per cento dei voti alle Cortes la riforma costituzionale per inserire il pareggio di bilancio in Costituzione.
Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, un buon livello di coesione sociale nel sostegno alle misure anticrisi è essenziale per il loro successo. Per convincersene basta guardare quanto accade rispettivamente in Grecia e in Spagna. In Grecia vi è uno scontro aspro sia sul piano politico che – come abbiamo visto – su quello sociale, e il Paese rischia di affondare. La Grecia sta rischiando di affondare. Dall’altra parte, in Spagna voto al 90 per cento delle Cortes sul pareggio in Costituzione e conflitto sociale più moderato. Il Paese sembra recuperare, malgrado abbia – lo sappiamo tutti – fondamentali dell’economia assai più deboli di quanto non siano quelli dell’economia italiana.
Questo confronto, signor Presidente, fornisce al Governo una indicazione che, giunti a questo punto, non può essere disattesa, se il Governo è responsabile. Cancelli il secondo comma dell’articolo 8 per creare quel clima di rispetto e di reciproco riconoscimento di ruolo tra le parti sociali e il Governo del Paese che è la premessa indispensabile di un buon quadro di coesione sociale. Un Governo che chiede responsabilità a tutti, che deve potersi giovare di uno sforzo collettivo, può e deve mostrare responsabilità. Sull’articolo 8 il Governo non mostra questa responsabilità; lo faccia adesso e noi gliene daremo volentieri atto.
Il rischio è elevatissimo. Ma c’è ancora modo e tempo per farvi fronte, purché – ha detto il presidente Napolitano, che ancora voglio ringraziare in questa occasione – «sforzi rivolti a questo fine non vengono bloccati da incomprensioni e da pregiudiziali insostenibili».
Il Paese ha le risorse per farcela. Ha le risorse di sapere, di saper fare, di voglia di fare. Ha le risorse economiche, nella potenza del suo apparato produttivo manifatturiero e nella capacità di risparmio delle sue famiglie. È ora la politica che deve mostrare di possedere le risorse necessarie per guidare il Paese, con mano ferma, verso la stabilità e la ripresa.
Dal lato del Governo, per ora, è emerso un grave deficit di forza, di coesione, di visione, di leadership. Avrebbe dovuto prenderne atto e favorire la formazione di un nuovo Governo, sostenuto da tutte le principali forze politiche, di qui fino al 2013. Sarebbe così stato rimosso quello che è oggi il principale fattore della crisi di fiducia che investe il Paese: la scarsa o nulla credibilità dell’Esecutivo. (Applausi dal Gruppo PD).Ma, contando sull’abborracciato consenso di cui tuttora gode in Parlamento, il Governo ha deciso – per usare l’espressione canonica – di andare avanti. Questa però non può rimanere, signor Presidente, l’unica decisione di cui questo Governo è capace. Andate avanti, signori del Governo? Allora, rafforzate subito la manovra, sia dal lato della stabilità, sia dal lato della ripresa economica. E fatelo adesso, perché se tra 15 giorni dovrete fare un altro intervento, allora l’Italia sarà avviata in una sindrome greca: provvedimenti, anche corretti, ad uno ad uno, e necessari, ad uno ad uno, si rivelano sempre insufficienti, perché assunti in ritardo sistematico di almeno un mese rispetto a quando sarebbero stati davvero utili e risolutivi.
Dunque, la manovra va rafforzata adesso, non tra 15 giorni, perché allora sarà troppo tardi. Come rafforzarla? È difficile, signor Presidente, dall’opposizione, fare tutte le parti in commedia. È impossibile, checché se ne sia detto in passato, in particolare nel partito di cui ho fatto parte, “governare dall’opposizione”: ce l’eravamo inventato perché al Governo davvero non ci potevamo andare, ma governare dall’opposizione nelle democrazie normali e competitive non si può. Possiamo però, come opposizione, sollecitare e favorire una svolta, da parte di chi pretende di conservare la direzione politica del Paese.
Noi, al posto vostro, signori del Governo, avremmo impostato sin dall’inizio un’altra manovra: più risparmi da revisione integrale della spesa e piano industriale della pubblica amministrazione, minore aumento della pressione fiscale. Più coraggio sulle liberalizzazioni dei mercati chiusi, a partire dal settore strategico dell’energia. Un robusto spostamento di prelievo dal lavoro – specie quello femminile e giovanile – alla rendita e ai consumi. Una violenta cura dimagrante per la politica e i suoi costi, col primo voto, già a settembre, per le riforme costituzionali necessarie a dimezzare il numero dei parlamentari e a ridisegnare l’assetto delle autonomie locali, in chiave di semplificazione e snellimento. Un intervento non di riforma della previdenza – perché quella l’abbiamo fatta nel 1995-1996 – ma di accelerazione della sua universale applicazione – col metodo del calcolo contributivo pro rata temporis – anche tenendo conto dell’ulteriore progresso dell’attesa di vita tra il 1995 ed oggi. Un’aggressione al nodo del debito pubblico, per tagliarlo una buona volta, sia attraverso la valorizzazione e l’alienazione di quote rilevanti del patrimonio pubblico – rigorosamente destinando ogni euro a riduzione del volume globale del debito – sia ricorrendo ad una imposta patrimoniale ad aliquota moderata sulla quota di patrimonio privato (tutto, mobiliare e immobiliare), pari al 47 per cento del totale (a sua volta pari a più di sette volte il PIL), posseduta dal 10 per cento delle famiglie più dotate di ricchezza patrimoniale. Una decisa lotta all’evasione fiscale, fondata sulla drastica riduzione dell’uso del contante e sul conflitto di interessi tra contribuenti, col preciso vincolo di destinare prima una buona parte (fino al pareggio di bilancio), poi tutto il gettito strutturale aggiuntivo alla riduzione della pressione fiscale sui contribuenti leali, i quali, e sono tanti, quando pagano tutto quello che devono, pagano troppo.
Si tratta di una strategia che non ci siamo inventati adesso, perché l’abbiamo illustrata minutamente nella relazione di minoranza sul Documento di economia e finanza, che aggredisce contemporaneamente tutti e tre i fattori di difficoltà del Paese: eccesso di disuguaglianza, scarsa crescita, eccesso di debito pubblico. Così come ognuno dei fattori di crisi sostiene e accentua l’altro, in un rapporto inestricabile di causa ed effetto (vattelapesca cosa sia venuto prima e cosa dopo), così ciascuna di queste scelte che ho illustrato integra e rende produttiva l’altra, in modo tale che nessuna è davvero efficace fuori dal disegno organico di cambiamento che tutte le collega e le tiene assieme.
Se ci aveste dato retta, già a luglio, oggi non saremmo qui a discutere sull’esigenza di rafforzare la manovra per renderla più credibile. Voi, colleghi del Governo e della maggioranza, avete scelto di seguire un’altra strada. Era vostro diritto. Ne abbiamo preso atto. Ma ora, è vostro dovere constatare che l’approdo raggiunto – il testo del decreto così come emendato dalla 5a Commissione – non è il posto nel quale dobbiamo arrivare per recuperare credibilità e ispirare fiducia. Noi, dato il contesto creato dalla vostra manovra, profondamente diverso da quello che abbiamo proposto, vi abbiamo tuttavia fornito, con i nostri emendamenti, un robusto aiuto a rafforzare la manovra, al punto che, tra le poche misure davvero strutturali di riforma per la stabilità e la crescita contenute nel testo uscito dalla Commissione, spiccano quelle per la revisione integrale della spesa pubblica e per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie – che ora aprono il testo del decreto – e sono il frutto di due proposte del Gruppo del Partito Democratico. Se il Governo sarà pari alla sfida contenuta in queste due norme – la legge delega sulle circoscrizioni giudiziarie e la legge sulla spending review – il Paese potrà trarne un enorme giovamento, sia per l’accresciuta efficienza economica, sia per la riduzione e la qualificazione della spesa.
Ma queste due rilevantissime riforme strutturali non hanno il potere di trasformare questa manovra in altro da sé. Essa resta troppo debole (troppa parte delle maggiori entrate è incerta) e squilibrata (nessun intervento per la crescita, eccessivo aumento della pressione fiscale). È vostro preciso dovere rafforzarla con misure strutturali di riduzione, nel medio-lungo periodo, della spesa e di riequilibrio della pressione fiscale tra lavoro e impresa, da una parte, e altre basi imponibili, dall’altra. È quello che vi chiediamo dall’inizio. È quello che dovete fare. Misure che noi vi chiediamo di assumere, ma di cui voi vi dovete assumere pienamente la responsabilità politica. Il nostro giudizio, su ognuna di esse, quando le vedremo, sarà direttamente proporzionale alla distanza che separerà ciascuna scelta rispetto alla strategia alternativa che noi vi abbiamo proposto e che voi avete rifiutato. Su ognuna delle scelte siamo pronti ad un confronto di merito, punto per punto, come abbiamo fatto durante il lavoro della 5a Commissione, senza avanzare pregiudiziali, come ci ha chiesto il Presidente, e sempre ribadendo l’alternatività del nostro disegno di fuoriuscita dalla crisi.
Quanto al resto, dovete depositare subito alla Camera un disegno di legge di riforma costituzionale sull’articolo 81, cosicché si possa discutere e decidere in pochi giorni, prima alla Camera e poi al Senato. E decidetevi una buona volta: se avete una vostra proposta sull’articolo 81, presentatela entro domani. Se non l’avete, consentite che si proceda all’esame dei disegni di legge già presentati. Dovete, infine, consentire che Camera e Senato votino subito per dimezzare il numero dei parlamentari.
Se non siete in grado di fare nulla di tutto ciò – e restate bloccati dai veti di questa o di quella componente della maggioranza – allora prendetene subito atto, per il bene del Paese. Un nuovo Governo ad amplissima base parlamentare, cui non faremo certo mancare il nostro convinto appoggio, potrà a quel punto formarsi e guidare il Paese nel tempo che ci separa dalle elezioni del 2013.
Chiedo infine, signor Presidente, l’autorizzazione ad allegare agli atti la restante parte della relazione, che riguarda la manovra così com’era quando l’abbiamo discussa in Commissione bilancio. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Pardi. Congratulazioni).

PRESIDENTE. La Presidenza l’autorizza in tal senso.

[…]

CASTRO (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTRO (PdL). Signor Presidente, immagino lei indovini a quale capitolo della manovra io voglia dedicare, insieme con i colleghi e con il Sottosegretario, qualche riflessione, non retorica, sommessa, anche se, me lo consenta, intellettualmente appassionata.
Tre sono gli assi portanti del pacchetto lavoro della manovra, che si materia principalmente nell’articolo 8. Il primo asse è quello della convinzione secondo la quale le relazioni industriali, che per tutta la storia economica repubblicana sono state zavorra, impedimento e inibizione allo sviluppo competitivo delle nostre imprese, oggi possano diventare un formidabile vettore competitivo. Lo dimostra limpidamente la vicenda FIAT, insieme alla vicenda di tante aziende medie, posizionate nei settori tradizionali, a forte innovazione di prodotto, a significativa trazione comunitaria, a marcata propensione all’export, che stanno declinando una splendida storia di successi, tanto che in larga parte del Paese oggi abbiamo già recuperato i livelli dell’export del 2007, riposizionandoci nei Paesi a più alta densità di sviluppo, nei mercati emergenti.
Valorizzando e intensificando l’autonomia delle parti sociali noi non garantiamo soltanto una maggiore coesione sociale, ma creiamo anche le condizioni per agevolare, supportare e sostenere quel colossale processo di riposizionamento competitivo in cui si sostanza la chiave della rinascenza economica del nostro sistema manifatturiero e dei servizi.
Oggi la sfida cui tutto il Paese è chiamato è quella di andare a presidiare i segmenti più elevati dei mercati internazionali concentrando il sistema delle proprie competenze distintive sui prodotti, non più sui processi (storico errore dell’industria italiana); prodotti che tanto più significativamente possono ottenere riconoscibilità e remunerabilità in quanto siano espressione di grumi autentici e dispiegati di storie, di esperienze e di verità secolarmente radicate; il che consente loro di diventare a tutti gli effetti compiutamente l’uscio contemporaneo dove quel che conta non è l’esclusività del prezzo, ma l’esclusività della storia incorporata nel prodotto. Ma il prodotto è figliato da risorse umane, da sistemi integrati di intelligenza, esperienza e competenza regolati nella loro vocazione comunitaria da nuove relazioni industriali.
Il terzo asse, colleghi, è evidentemente quello della liberazione, dell’affrancamento di giacimenti competitivi che oggi giacciono e che oggi risiedono in contiguità al punto del fare nella compiuta, concreta qualità dell’esperienza competitiva quotidiana delle nostre imprese nei nostri distretti; giacimenti competitivi che non possono essere sfruttati da un modello regolatorio burocratico, centralizzato, malamente e asfitticamente concentrato nella dimensione della prospettiva della legge del contratto nazionale. Serve invece per liberarne le energie. Una prossimità contrattuale data dal contratto aziendale, dal contratto territoriale come nuova, audace dimensione della liberazione competitiva, delle vocazioni delle nostre imprese. Questo, soltanto questo, vuol dire l’articolo 8. Significa dare ai sindacati più rappresentativi la possibilità di modellare e modulare la regolazione contrattuale sulla specificità irriducibile del modello competitivo che si realizzi lì, in quella impresa, in quel territorio, consentendogli di esprimere tutta la sua forza. In Italia, checché se ne dica, nella compiuta catena del valore, il valore del lavoro è ancora il 50 per cento, ma di quella percentuale sì e no il 7,5 per cento è governato dal contratto di prossimità. Il resto è prigioniero, occluso da un contratto nazionale che ha esaurito ogni propulsività nella sua spinta.
Cito tre esempi molto semplici, ruvidi e franchi sulle deroghe che sono consentite. Parto subito da tre esempi sull’articolo 18, perché non abbiamo nessuna paura a ragionare su questo tema. Se un grande gruppo internazionale farmaceutico si accorge che a Bari c’è un’eccellente facoltà di medicina che produce eccellenti laureati il cui costo, tra l’altro, è del 35 per cento inferiore alla media europea dei laureati in medicina, e decide di portare il suo centro di ricerca a Conversano, o a Ceglie Messapica, e fa un patto forte con il sindacato, assume 250 giovani laureati meridionali, può negoziare una clausola nella quale si prevede che il duecentoquarantanovesimo, se fra tre anni non sarà, come dire, consustanziale al suo progetto organizzativo, sarà licenziato, e, anche laddove quel licenziamento fosse ritenuto da un giudice non giustificato, può sostituire la fisicità del reintegro, con l’inevitabile disordine organizzativo che esso arreca, con un congruo risarcimento? Oggi per quasi tutti i lavoratori italiani e per quelli delle imprese sotto i 15 dipendenti sono previste due mensilità e mezzo, sei al massimo: può quell’accordo di quella grande multinazionale prevedere 24 mesi di risarcimento?

PASSONI (PD). No, no, e invece no.

CASTRO (PdL). Invece sì, caro senatore Passoni, perché questo rispetta la Costituzione, la normativa europea, ed è in linea con le migliori esperienze internazionali. Questo può essere fatto. E allora, senatore Passoni, le chiedo un’altra cosa, a lei che con me ha governato tanti accordi pieni di sano, vitale e virtuoso pragmatismo. Se una azienda della logistica del meridione, che ha moltissimi para-dipendenti, partite IVA, co.co.co., co.co.pro, lap e quant’altro, pressata da un bravo sindacalista come lei, decide, perché costretta dalla sua azione, di assumere tutti i 180 lavoratori parasubordinati e pararegolari, a tempo pieno e a tempo indeterminato, potrà negoziare con lei, sindacato maggiormente rappresentativo, che il centoventottesimo di quel gruppo, se non funzionale, se licenziato anche ingiustificatamente per riconoscimento dal giudice, anziché il nulla che oggi avrebbe, anziché le sei mensilità massime che oggi riceverebbe se si trattasse di una piccola azienda, possa avere invece 18 mensilità?
Faccio un altro esempio, passando dal Sud al Nord. Parlo della mia Treviso dove, anche nel pieno della crisi, il tasso di disoccupazione è del 5 e mezzo per cento e dove è stato appena sottoscritto, da CGIL, CISL e UIL, un patto con Confindustria per lo sviluppo. È un territorio dove i guru sino a qualche anno fa consideravano fisiologico quel tasso di disoccupazione; un territorio che organizza un centro di mobilità, un centro per la ricollocazione professionale dei lavoratori, una agenzia di outplacement, attingendo dalle similari esperienze germaniche e baltiche questa forma di regolazione attiva del mercato del lavoro. Dentro quel patto, per qualunque lavoratore che perda il posto, è previsto un percorso di riqualificazione, di riconversione, di formazione, un percorso di restituzione alla vitalità del posto di lavoro. É un territorio che consente questo. É un territorio dove, in caso di licenziamento, anche se ritenuto ingiustificato dal giudice, in aziende spesso davvero piccole, sono previste 18 mensilità anziché il niente di oggi, anziché le 6 mensilità di oggi. È una citazione pop, ma va fatta. È puro buon senso.
Faccio un ultimo esempio su un’altra materia, ossia l’orario di lavoro. Ipotizziamo che arrivi a Termini Imerese – invece della DR Motor che stanno proponendo – la BMW, la quale ha un modello organizzativo, come sapete, fondato sulla lunghissima durata della prestazione giornaliera, e contratta invece la sua durata settimanale. Se arrivasse in Italia, per il meccanismo con il quale è costruita la norma sul lavoro ordinario e su quello straordinario, avrebbe grosse difficoltà a implementare quel modello organizzativo, anche se questo fosse accompagnato da investimenti colossali, di decine di milioni di euro. Rispettando sino in fondo la direttiva europea, che giustamente l’articolo 8 richiama come non eludibile, la quale prevede 48 ore medie settimanali (straordinari compresi), potrebbe però benissimo trovare per davvero la compiuta realizzazione dell’equilibrio economico, gestionale ed organizzativo tra la sua tipologia di orari, ideale per quel tipo di investimento in impianti, e la concreta positiva difesa degli interessi dei lavoratori, garantita dalle grandi organizzazioni sindacali.
Non affronto neanche i troppo facili esempi, amici e colleghi, relativi all’articolo 4, una norma che è stata fatta nel 1970 quando per la prima volta abbiamo visto a colori sul televisore le partite del mondiale messicano. Credo che sia lecito poter modificare quella piattaforma tecnologica. L’articolo 13 è una norma folle, una norma che pietrifica le mansioni. Se una persona vuole fare una ristrutturazione salvando il posto di lavoro degli impiegati e consentendo loro di essere impiegati, giustappunto come addetti non alla fatturazione ma al controllo qualità, non potrebbe farlo se non licenziandoli. É un assurdo italiano.
Faccio una ultima battuta. Vedo tanti amici dell’opposizione che hanno condiviso culture e tradizioni che nell’articolo 8 si ritrovano, come la cultura del personalismo cattolico che ha generato l’economia sociale di mercato; o le scelte fondative dell’identità della CISL, come la contrattazione articolata, sin dagli anni Cinquanta. Guardo esponenti del socialismo patriottico e riformista. Guardo esponenti nel FLI, della destra sociale nazionale. Guardo persino, nella sinistra più autenticamente audace, l’esperienza morandiana dei consigli di gestione. Vogliamo davvero buttare via queste grandi tradizioni del ‘900 e trascurare quindi questa esperienza concreta e compiuta di innovazione solo per assecondare la furia anabattista, fosca e febbrosa della FIOM? (Applausi dei senatori De Eccher e Fosson).

[…]

ROSSI Nicola (Misto). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROSSI Nicola (Misto). Presidente, quello che stiamo facendo e dicendo in queste ore era scritto in quello che abbiamo fatto e detto nei giorni e nelle settimane passate. Quindi, ha veramente poco senso aggiungere anche solo una virgola a quanto detto fino a ieri. Io mi limito quindi solo a segnalare che agli atti della Commissione bilancio c’è una scarna tabella, che credo di avere consegnato in Commissione il 22 agosto, che sintetizzava il percorso seguito dall’economia greca nell’ultimo anno e mezzo. È facile arguire che di quel percorso ne abbiamo già fatto una buona parte. Per la verità, in alcuni casi l’abbiamo fatto anche a tappe forzate. Mancavano solo due ingredienti a quella ricetta: l’aumento dell’IVA e il downgrating del debito. Al primo ci stiamo pensando in queste ore. Del secondo i mercati finanziari si sono cominciati a preoccupare e ad occupare fin da ieri.
La richiesta che ci era arrivata dai mercati finanziari e dall’Europa nelle ultime 48-72 ore era solo una ed era di ripristinare un po’ della nostra credibilità. E guardate che questa è una richiesta che si fa ancora più pressante dopo la pronuncia della Corte costituzionale tedesca di oggi che non è altro che la premessa ad una maggiore e non ad una minore rigidità nei confronti dei Paesi membri che devono tenere in ordine le loro finanze pubbliche. Questa è la strada che ormai stiamo seguendo. È una strada in cui la Germania si assume progressivamente quote crescenti di responsabilità, ma le condiziona in maniera molto pressante e crescente ad una disciplina sempre maggiore da parte degli Stati membri. E la credibilità è fatta non solo e non tanto di maggiori entrate e di minori spese. In realtà, è fatta soprattutto di un riconoscimento senza riserve dell’esistente e di una prospettiva attendibile per il futuro.
Al netto della norma, onestamente risibile, circa l’elevazione dell’età pensionabile femminile, al netto della riscoperta – anche questo mi permetto di suggerire altrettanto risibile – del contribuito di solidarietà, ciò di cui discutiamo oggi è sostanzialmente una sola cosa: è l’incremento dell’aliquota ordinaria dell’IVA dal 20 al 21 per cento. A questo incremento – ed è questo il punto – si chiede di fare molte cose e ho l’impressione che siano anche troppe. Si chiede di offrire una copertura più certa di quella offerta dalla lotta all’evasione in presenza di una cancellazione del precedente contributo di solidarietà, di anticipare ad oggi la parte della manovra, ancora piuttosto vaga ed incerta, connessa alla delega fiscale ed assistenziale e di precostituire la possibilità di rispondere alle conseguenze della minore crescita che io credo più o meno il 20 settembre in quest’Aula finiremo per certificare nella Nota di aggiornamento. Va da sé che è un po’ troppa roba da chiedere ad una sola cosa.
L’incremento dell’IVA era già previsto a garanzia dei risultati derivanti dalla delega. Sebbene oggi utilizzato per sostituire coperture incerte, non potrà più essere utilizzato domani. E questo si vede abbastanza facilmente. E se venisse utilizzato domani per evitare di prendere atto della conseguenze sul bilancio pubblico di una minore crescita, allora non lo si può presentare oggi come un rafforzamento della manovra. Temo che, se credibilità si voleva ripristinare, non lo si sia ottenuto. Al contrario, si è diffusa l’incertezza sul presente e anche sulle scelte future. Una risposta credibile si sarebbe dipanata in maniera completamente diversa. Avrebbe cominciato innanzitutto con il non cifrare le maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione e avrebbe chiuso, anche se malamente a mio modo di vedere, le coperture della manovra di agosto con altre maggiori entrate, quelle appunto derivanti dall’aumento dell’IVA. Simultaneamente avrebbe preso atto che alla manovra di agosto dovrà – temo – far seguito inevitabilmente una manovra di settembre e possibilmente anche una definizione pronta, se non immediata, dei contenuti della delega fiscale assistenziale.
La credibilità, signor Presidente, è un po’ come il coraggio: chi non ce l’ha, o chi non ce l’ha più, non se la può facilmente dare. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Mascitelli).

[…]

*MARINI (PD).Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

*MARINI (PD). Signora Presidente, signor Sottosegretario, onorevoli colleghi, nel Paese si avverte una forte preoccupazione, che certamente è legata alla visibilità dell’aggressione compiuta in questi giorni sui nostri conti e sulla nostra struttura produttiva. Nello stesso tempo, si avvertono largamente (forse questa è la ragione di una preoccupazione profonda), anche oggi che ci siamo assunti la responsabilità di far proseguire il dibattito dopo la presentazione della questione di fiducia, malgrado le rassicurazioni che dentro e fuori quest’Aula sono state fornite, la debolezza e l’incertezza del Governo e la mancanza di linearità e di indicazioni per uscire dalla crisi. Si è arrivati all’aumento dell’IVA, la decisione più scontata, meno coraggiosa, meno efficace nel rapporto con le opinioni pubbliche che in Europa e fuori dall’Europa interverranno su questi temi, ed anche la più squilibrata.
La mia sorpresa, e credo anche di tanti altri, è quella di non avere mai ascoltato nel dibattito, neanche vagamente, la parola «debito». Il nostro problema, che tra l’altro l’Unione europea ci porrà presto, è proprio quello di avere un debito che per la sua ampiezza già rappresenta un rischio rispetto alla capacità di rispondere con la responsabilità del Paese. Insomma, rispetto ad un debito di 1.848 miliardi di euro -che, come è a tutti noto, corrisponde al 120 per cento del prodotto interno lordo del Paese – non viene espressa neanche una preoccupazione.
La manovra non basterà per questa e per ragioni politiche. Il problema del debito esiste, ma vorrei capire come si intende affrontarlo. La parola «patrimoniale» è vietata nel lessico della nostra politica, con un debito di questo rilievo e con i rischi ad esso connessi; la vendita dei beni dello Stato – resta nell’incertezza, malgrado gli studi portati avanti dal Ministero dell’economia. Può essere questo un punto sul quale attaccare. E nel Governo, e nel nostro dibattito, questo problema non c’è. Il PD, rispetto alla prima stesura del decreto, aveva fatto una proposta che legava il contributo di solidarietà, aggiustato con riferimento alla composizione della famiglia, ad un ulteriore contributo che andava chiesto a chi aveva fatto rientrare più di 100 miliardi di euro coperti dallo scudo fiscale, pagando solo il 5 per cento. Invece si è arrivati all’aumento dell’IVA, imposta pagata dai ceti più deboli del Paese.
Noi abbiamo fatto bene ad assumerci la responsabilità verso il Paese di far passare questa manovra senza ostruzionismo, malgrado la sua debolezza e contraddittorietà.
Ma la ragione di questo mio breve intervento è un’altra. Io voglio parlare dell’articolo 8. Richiamerò, ma solo in poche battute, il percorso di questa questione, che è un grande problema, anche se non l’unico, per lo sviluppo e la trasformazione del nostro sistema industriale e per far tornare gli investimenti esteri in Italia.
Basta infatti pensare ai servizi esterni alle imprese, alle infrastrutture che non ci sono e al fatto che siamo dietro ai più forti Paesi europei. Quelli sono problemi e inadempienze che incidono sul rapporto con l’investimento estero. C’è anche la politica industriale e la politica del lavoro, che noi dobbiamo costruire.
Questo problema ebbe origine nella Commissione Giugni del 1997, che rilevò come, se non si fosse spostata maggiormente la contrattazione verso le aziende, la produttività del lavoro e i salari non sarebbero potuti crescere. E ciò è accaduto per parecchi anni. Salario e produttività del lavoro legati, in un sistema industriale e produttivo come quello italiano, così differenziato, non potete gestirli con il contratto nazionale, che non va però cancellato. In questa situazione così contraddittoria e differenziata, infatti, un punto di certezza ai lavoratori bisogna darlo.
Vi fu appunto la Commissione Giugni, e l’accordo con il Governo Ciampi nel 1993, che compì un passo avanti rispetto ai ritardi su questo problema, e andò avanti per diversi anni. Poi intervenne un tran tran che rallentò la possibilità di lavorare con i contratti aziendali. Vi fu poi un contratto del 2008, parziale, e nel 2009, alla fine, si arrivò alla rottura tra le organizzazioni sindacali, proprio su questo tema.
Sono stati due anni difficili, di contraddizioni, due anni di conflitti tra i sindacati che hanno ridotto la possibilità di applicare questa contrattazione decentrata in maniera più massiccia (vi è stata la vicenda FIAT, che tutti conosciamo). Poi, il 28 giugno scorso, è stato compiuto di nuovo uno sforzo straordinario, innanzitutto delle parte sociali, comprese le controparti padronali, che sono riuscite a realizzare una svolta, straordinaria e inaspettata, su questo problema, tutti insieme.
Quell’accordo, sui contenuti e su quali materie affrontare (dallo sviluppo alla gestione delle crisi, ai rapporti di lavoro, alla produttività), apre quello spazio che ci si aspettava proprio da Giugni (che sorriderà da dove si trova), perché, finalmente, tale accordo ha creato le condizioni per andare avanti. E questo è uno dei punti che, in un Paese senza ripresa e senza sviluppo, rappresenta uno strumento che può funzionare insieme ad una politica economica adeguata.
Il Ministro del lavoro, il 29 giugno, rispetto a questo accordo, fortemente innovativo, afferma che «l’intesa raggiunta ieri tra sindacati e Confindustria sulle contrattazioni porterà, in primo luogo, un vantaggio per la credibilità del Paese nel suo insieme e un segnale di coesione sociale, e gli stessi analisti dei mercati finanziari lo apprezzeranno». Il 29 giugno, pertanto, interviene la svolta.
Si può dire che dentro una fase conflittuale, complicata, dura e difficile, che ha messo in difficoltà le organizzazioni, c’è stata una svolta anche da parte della CGIL e lo dico io che per lo sciopero ho invitato a cercare di coinvolgere anche gli altri, magari con forme diverse di lotta. L’ho detto a Pesaro in piazza in un confronto tra me e la segretaria della CGIL Camusso. C’è stato uno sforzo straordinario anche di quell’organizzazione perché nei contenuti si sono viste le novità. Com’è possibile che alla fine, nel quadro che vi ho velocemente richiamato, esca a metà agosto la prima stesura del decreto del Governo? Qui si rimette in discussione un principio dello Statuto dei lavoratori da non sottovalutare in una fase anche di licenziamenti, di difficoltà dell’occupazione, compresa quella giovanile e di precarietà. Si è detto che non viene toccato, ma oggi ho sentito anche in quest’Aula che è stato toccato. Non è un enorme problema che blocca lo sviluppo; è un fatto di rilievo però e non può il Governo, dopo questa svolta sulla contrattazione aziendale che finalmente poteva mettere assieme uno sforzo globale ed unitario delle organizzazioni sindacali e delle parti sociali, tutte d’accordo sull’intesa del 28 giugno, entrare a gamba tesa con il decreto che riapre la discussione di principio, che ha sempre un valore, e che con l’introduzione della territorializzazione della modalità della contrattazione apre un problema che non può essere più gestito a livello generale.
C’è bisogno per queste materie di una linea comune e di un punto di riferimento generale. Il Governo non ha invitato le parti sociali su questo problema a riprendere il dialogo ed è intervenuto, dopo un accordo faticoso che li ha visti tutti coinvolti, in una materia dove tradizionalmente le parti sociali sono sempre state autonome e la legge è intervenuta molte volte come legge di sostegno. Se c’è l’obiettivo di amplificare l’elasticità e i poteri anche diversificati dentro l’azienda, si cerca di sviluppare l’accordo fortemente innovativo del 28 giugno 2011 e di far camminare in avanti questa posizione perché è rilevante e giusta ai fini della ripresa, degli investimenti esteri in Italia e di una flessibilità maggiore. Noi ci siamo trovati dinanzi a un fatto che ha portato una divisione molto forte. Voglio sottolineare un aspetto fondamentale.

PRESIDENTE. Presidente Marini, la prego di concludere.

MARINI (PD). Per poter sviluppare i contratti aziendali di produttività in maniera significativa c’è bisogno di un rapporto disteso tra gli attori, tra i sindacati in particolare. Se noi con i nostri comportamenti creiamo una situazione che fa riprendere il conflitto si ferma questa opportunità o diventa marginale.
Signora Presidente, i mercati e l’Europa oggi guardano certamente a quello che abbiamo fatto, ai numeri, alla capacità di risposta finanziaria alle difficoltà che abbiamo, ma vi è innanzitutto il problema del nostro debito e nei rapporti dentro l’Europa della credibilità politica e sociale del nostro Paese. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore De Toni).
Come può la cancelliera Merkel, il Capo del Governo di un Paese di quel rilievo e di quell’importanza in Europa, aver associato la Grecia a noi? Noi misureremo i comportamenti. Però, se avete letto i fondi di tutti i giornali di qualsiasi orientamento che parlano di economia in questi giorni, i giudizi sottolineano tutti la scarsa credibilità del Governo. Vogliamo creare anche le condizioni per un rapporto sociale più difficile?
Non c’è dubbio che, con quello che è successo e con lo stop di fatto all’accordo unitario con le decisioni prese, il rischio di una difficoltà maggiore all’interno anche dei rapporti sociali nel nostro Paese possa esserci. A chi serve? All’Italia? Certamente no. Alla politica? No, perché il rapporto di coesione è capace di mettere assieme interessi e di fare scelte comuni ed è un passaggio obbligato rispetto ai problemi e alle grandissime difficoltà che abbiamo di fronte.
Grazie e mi scusi, signora Presidente, se ho preso qualche minuto in più. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori De Toni e Russo. Congratulazioni).

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