UN GRUPPO DI ECONOMISTI MI CHIEDE ALCUNI CHIARIMENTI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE DIFFERENZE RISPETTO ALL’ESPERIENZA DANESE
Messaggio pervenuto il 7 settembre 2011 – Segue la mia risposta – Per le altre frequent asked questions sul progetto, vai al Portale della Semplificazione e della Flexsecurity
Caro Pietro,
sto lavorando con Andrea Moro (che hai già conosciuto quando ti sei collegato alle giornate noisefromAmerica di Siena) e Aldo Rustichini a un pezzo divulgativo sulle riforme del mercato del lavoro necessarie a cambiare gli incentivi in modo favorevole alla crescita. Siccome stiamo discutendo della tua proposta (slides di Cremona) vs. flexicurity danese pura, ho pensato di chiederti un parere, soprattutto per accertarmi di non essere fuori strada (il target del pezzo non ci permette di andare troppo nel dettaglio, per cui stiamo ragionando sulle linee generali).
La tua proposta è indubbiamente quanto di meglio ci sia in circolazione nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro in Italia. Come ti avevo accennato da Siena, però, io temo che pur migliorando notevolmente lo status quo un sistema di severance pay come quello che descrivi potrebbe perpetuare l’esistenza di una categoria di lavoratori marginali. Per esempio, una categoria di lavoratori che viene licenziata entro l’anno, prima che i costi per l’impresa divengano positivi.
Oltre questo, a noi pare che il sistema danese e quello che tu proponi siano diversi in un punto essenziale: nel tuo sistema i costi di riallocazione del lavoro li paga l’impresa, nel sistema danese li paga il contribuente. Non ci è ovvio che la prima cosa sia quella efficiente.
Se trascuriamo per un momento la questione del diverso costo dei due sistemi (che è certamente rilevante) questa ci pare la differenza fondamentale, e la domanda sull’efficienza relativa delle due cose la domanda cruciale.
Ci piacerebbe sapere cosa ne pensi (brevissimamente, non vogliamo prenderti troppo tempo).
Grazie
Giulio Zanella
Rispondo molto sinteticamente alle due domande.
Prima domanda: “io temo che pur migliorando notevolmente lo status quo un sistema di severance pay come quello che descrivi potrebbe perpetuare l’esistenza di una categoria di lavoratori marginali. Per esempio, una categoria di lavoratori che viene licenziata entro l’anno, prima che i costi per l’impresa divengano positivi.”
Una riforma della disciplina della materia dei licenziamenti può proporsi (e il mio progetto si propone) di eliminare il più possibile i fattori istituzionali di disparità di opportunità tra i lavoratori. In particolare, il mio progetto si propone di superare la distinzione tra lavoratori che in un modo o nell’altro conquistano una posizione di job property e lavoratori che l’ordinamento stesso colloca pregiudizialmente in una posizione di precarietà.
Quello che una riforma legislativa da sola non può fare è superare la disparità di dotazioni di partenza dei singoli lavoratori. Potrà dunque accadere che un lavoratore si riveli particolarmente povero di qualificazione professionale o di doti personali, col risultato di una sua incapacità di mantenere nel tempo un rapporto di lavoro, conquistandosi progressivamente livelli più elevati di stabilità. A colmare le differenze di dotazione professionale deve provvedere il sistema scolastico e quello della formazione.
Osserva, però, che il mio progetto elimina l’effetto soglia: nel corso del primo biennio l’indennità di licenziamento cresce senza scatti, e dall’inizio del terzo anno nel severance cost si aggiunge un addendo (trattamento complementare di disoccupazione) che all’inizio è pari a zero e va crescendo col crescere dell’anzianità: un mese di trattamento complementare eventuale (in misura molto modesta: 10% nell’industria) per ogni mese di lavoro oltre il secondo anno, poi un mese di trattamento eventuale di disoccupazione per ogni mese ulteriore di lavoro oltre il terzo. Questo dovrebbe far sì che, se il rapporto di lavoro conserva una qualche utilità per l’impresa, esso non venga risolto prima della fine del terzo anno solo per la preoccupazione del costo dell’eventuale licenziamento (anche dall’inizio del quarto anno l’aumento del firing cost eventuale è peraltro graduale). Tre anni mi sembrano un periodo congruo per dare a ciascuno l’opportunità di mettersi in sintonia con l’impresa in cui lavora. Alla fine di questo periodo non cala, però, una saracinesca, il rapporto di lavoro non viene improvvisamente ingessato, come nel progetto Nerozzi del “contratto unico” (che pure costituisce un passo avanti rispetto alla situazione attuale), ma semplicemente la curva del severance cost in relazione all’anzianità di servizio diventa solo un un po’ più ripida.
Seconda domanda: “Oltre questo, a noi pare che il sistema danese e quello che tu proponi siano diversi in un punto essenziale: nel tuo sistema i costi di riallocazione del lavoro li paga l’impresa, nel sistema danese li paga il contribuente. Non ci è ovvio che la prima cosa sia quella efficiente.”
Come si può vedere dall’accordo interconfederale che regola in Danimarca la materia, un firing cost in termini di indennità di licenziamento di entità fino a un massimo di una annualità di retribuzione è previsto anche lì; e l’ammontare medio dell’indennità di licenziamento prevista nel mio progetto non sarebbe molto diverso, considerata l’anzianità di servizio media dei lavoratori dipendenti italiani. Quanto al costo del “contratto di ricollocazione”, secondo il mio progetto:
– tutti i costi sostenuti dall’impresa per i servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata possono e devono essere coperti dalla Regione, la quale potrebbe finalmente utilizzare bene gli enormi cespiti oggi destinati alla formazione e il contributo del Fondo Sociale Europeo (oggi entrambi sovente sperperato in iniziative senza capo né coda);
– resterebbe a carico dell’impresa soltanto il costo del trattamento complementare di disoccupazione; ma questo, per il primo anno (durante il quale esso deve soltanto coprire la differenza fra il trattamento di disoccupazione già pagato dall’Inps – 80% nell’industria, 60% nel terziario e servizi – e il 90%) è di entità davvero modesta: solo dall’inizio del secondo anno diventa davvero oneroso. A me sembra che, stante la situazione attuale, mediamente assai deplorevole, dei servizi pubblici nel mercato del lavoro in Italia, questo rischio di un forte aumento del costo se il lavoratore non viene ricollocato entro il primo anno costituisca un elemento importante della riforma, fornendo un potente incentivo affinché l’impresa che licenzia scelga i servizi di outplacemente di riqualificazione migliori, consentendo così anche alla Regione di orientare al meglio la propria spesa in questo campo.
Tutto, ovviamente, è molto opinabile. E sarò altrettanto ovviamente grato agli economisti Zanella, Moro e Rustichini, se mi aiuteranno a individuare errori, difetti e possibili correzioni o miglioramenti nel progetto. (p.i.)