LA FORMULAZIONE DELLA NORMA APPROVATA DALLA COMMISSIONE BILANCIO DEL SENATO NON CORREGGE IL DIFETTO GRAVISSIMO DI DELEGARE LA RIFORMA DEL DIRITTO DEL LAVORO ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE
Intervista a cura di Luca Cifoni, pubblicata su il Messaggeroil 5 settembre 2011 – In argomento v. anche il mio intervento svolto in seno alla Commissione Lavoro del Senato il 23 agosto 2011
Con gli emendamenti approvati (rappresentatività dei sindacati, tutele etc.) l’articolo 8 ha preso una forma un po’ più chiara. In che misura ritiene che possa essere lo strumento giusto per intervenire sulle note criticità del mercato del lavoro italiano?
Ora la norma definisce in maniera più chiara i requisiti che deve avere il contratto collettivo aziendale per poter derogare addirittura alla legge vigente. Ed esclude la possibilità di deroga su alcune materie, tra le quali quelle coperte da garanzie costituzionali. Non c’è dubbio che questo segni un miglioramento rispetto alla formulazione originaria dell’articolo 8, a dir poco grossolana.
Quali sono invece i punti deboli della nuova normativa?
Il ministro Sacconi ha passato tutti gli ultimi mesi a ribadire che nessun intervento legislativo sarebbe stato varato in materia di lavoro, se non sulla base di un’intesa tra le parti sociali. Ora, sulla contrattazione aziendale l’intesa era finalmente arrivata, con l’accordo interconfederale del 28 giugno, firmato anche dalla Cgil. Ma il contenuto dell’accordo viene totalmente ignorato da questa nuova norma legislativa.
La norma potrà andare nella direzione di una migliore distribuzione della flessibilità come richiesto da più parti?
Sia la Banca d’Italia, sia la Banca Centrale Europea con la lettera di Trichet e Draghi dei primi di agosto, ci chiedono tre cose: una maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro regolari stabili, una corrispondente maggiore protezione dei lavoratori nel mercato del lavoro, e il superamento del dualismo tipico del nostro tessuto produttivo, cioè del regime di apartheid oggi vigente in Italia fra iper-protetti e poco o per nulla protetti. La norma, anche nella nuova versione votata dalla Commissione Bilancio del Senato, non porta nessuna di queste tre cose.
Almeno una sì: le deroghe contrattate in azienda potranno riguardare anche la materia dei licenziamenti, quindi l’articolo 18.
La riforma di una materia così delicata non può essere delegata alla contrattazione aziendale. Occorre un disegno organico equilibrato, volto a sostituire la vecchia protezione costituita dall’ingessatura del rapporto di lavoro con una protezione più moderna ed efficace, costituita dalla garanzia di sicurezza economica e professionale nel passaggio dall’azienda che licenzia a quella che assume. E occorre un legislatore che se ne assuma la responsabilità in prima persona. Questa norma genererà soltanto pasticci, farà aumentare il contenzioso giudiziale, ma non porterà la flessibilità di cui il nostro tessuto produttivo ha bisogno. Avrà il solo effetto di accentuare il dualismo tra gli iper-protetti che rimarranno tali e i “periferici”, cui verrà tolto anche il poco che hanno.
Sull’articolo 8 il Pd è stato decisamente critico, la posizione prevalente è stata la richiesta di ritiro. Al di là delle poche ore di residuo percorso parlamentare, ci sono spazi di mediazione sul tema?
Temo che quegli spazi si siano ridotti al lumicino. E pensare che proprio sulla materia calda della disciplina dei licenziamenti c’erano alcune nostre proposte molto serie su cui si sarebbe potuto lavorare, se Sacconi non avesse opposto una chiusura ermetica. La battaglia, comunque, prosegue da martedì in Aula.
Entriamo nella settimana dello sciopero generale Cgil; quali saranno le ripercussioni di questa norma sui rapporti tra i sindacati?
Il ministro del lavoro ha già ottenuto il suo scopo principale: quello di far saltare l’accordo che era stato raggiunto a luglio tra Cisl, Uil e Cgil.