LA RIFORMA DEL LAVORO NON SI FA LANCIANDO IL SASSO E NASCONDENDO LA MANO

UNA QUESTIONE DELICATA COME QUELLA DEI LICENZIAMENTI NON PUÒ ESSERE OGGETTO DI UNA DELEGA IN BIANCO ALLA CONTRATTAZIONE AZIENDALE: OCCORRE UN DISEGNO EQUILIBRATO E ORGANICO, MA SOPRATTUTTO UN LEGISLATORE CHE SE NE ASSUMA APERTAMENTE LA RESPONSABILITÀ POLITICA E TECNICA

Intervento pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica “Lettera sul Lavoro” il 26 agosto 2011

Caro Direttore, la “manovra aggiuntiva” varata dal Governo con il decreto-legge del 13 agosto contiene, all’articolo 8, una norma di rilievo davvero eccezionale. La norma stabilisce che ciascuna azienda, mediante un accordo stipulato con le proprie rappresentanze sindacali, può modificare qualsiasi aspetto della disciplina dei rapporti di lavoro, compresi gli effetti dell’eventuale licenziamento ingiustificato, con la sola eccezione delle sanzioni contro le discriminazioni.
            Colpisce il contrasto tra le dichiarazioni minimaliste del ministro del Lavoro (“l’articolo 18 non è stato toccato”) e la portata potenzialmente rivoluzionaria di questa disposizione. È vero: l’articolo 18 non viene formalmente menzionato; ma è evidente come ora qualsiasi contratto aziendale possa letteralmente svuotarlo. E non solo in materia di licenziamento; d’ora in poi un semplicissimo accordo stipulato dall’imprenditore con le rappresentanze sindacali potrebbe eliminare qualsiasi vincolo anche in materia di trasferimento, di mutamento di mansioni, di orario, di malattia. Potrebbe persino – la norma lo dice esplicitamente – esonerare l’impresa committente dalla corresponsabilità con l’appaltatore per i contributi previdenziali e le ritenute fiscali sulle buste-paga dei lavoratori, all’insaputa dell’Inps e dell’Erario.
            È probabile che in sede di conversione in legge la maggioranza apporti alcune correzioni e limitazioni alla norma, se non altro per integrarla con un indispensabile criterio di selezione delle rappresentanze sindacali che firmano l’accordo; inoltre per evitare che essa venga immediatamente abrogata dalla Corte costituzionale per contrasto con i vincoli derivanti, in materia di lavoro, dai trattati internazionali, dalle direttive europee e dalla stessa Costituzione. Anche scontando questi probabili perfezionamenti tecnici in corso d’opera, non è comunque esagerato affermare che con una norma di questo genere l’intero diritto del lavoro verrebbe reso derogabile. In teoria. Ma sul piano pratico? Prima che, ritornati dalle vacanze e appresa la novità, i liberisti esultino e gli estimatori del nostro vecchio diritto del lavoro scatenino il finimondo occorre interrogarsi con attenzione circa le possibili conseguenze effettive di una norma di questo genere.
            La prima conseguenza sarebbe quella di dividere nettamente il nostro tessuto produttivo in due. Da una parte le aziende – quasi tutte quelle di dimensioni medio-grandi – in cui la maggioranza dei dipendenti è saldamente rappresentata dai sindacati confederali maggiori: qui è difficile pensare che la contrattazione aziendale possa portare a deroghe sconvolgenti rispetto alla legge vigente. Qualche cosa di questo genere potrebbe invece accadere nelle altre aziende, soprattutto in quelle di piccole dimensioni, dove comunque le rappresentanze sindacali non sono costituite e l’imprenditore ha minori difficoltà a farne nascere di disponibili a qualsiasi accordo. Un primo effetto che occorre mettere in conto sarebbe dunque l’aggravarsi del dualismo attuale tra le imprese medio-grandi sindacalizzate, che presumibilmente resterebbero per lo più assoggettate all’applicazione integrale dello Statuto dei lavoratori e in particolare dell’articolo 18, e tutte le altre, che occupano più di metà dei lavoratori italiani, dove ogni disposizione protettiva potrebbe essere azzerata.
            Nel fronte liberista qualcuno può forse ritenere che l’abbattimento delle vecchie rigidità sia comunque un bene, anche se limitato a questa parte soltanto del tessuto produttivo. Ma c’è da dubitare che, pur limitato a quest’area, l’effetto di una flessibilizzazione si verificherebbe per davvero. Immaginiamo che cosa potrebbe accadere in un caso di licenziamento in una azienda dove un accordo con le rappresentanze sindacali abbia escluso l’applicazione dell’articolo 18. Il lavoratore, se ben assistito, solleverà davanti al giudice del lavoro una questione di costituzionalità (“come può il rappresentante di un sindacato cui non sono iscritto privarmi della protezione prevista da una legge dello Stato, oltretutto senza una adeguata compensazione”); oppure solleverà altre questioni, circa la validità della designazione del rappresentante che ha stipulato l’accordo, o circa la sua rappresentatività effettiva. Una parte dei giudici respingerà queste eccezioni; ma un’altra parte le accoglierà, o disporrà complesse istruttorie in proposito, nel frattempo reintegrando il lavoratore in via provvisoria. Qualche giudice forse applicherà il “comma 22”: “un sindacato che accetti l’azzeramento dell’articolo 18 non può che essere un sindacato di comodo, dunque l’accordo non può che essere nullo”; fra qualche anno, in appello o in cassazione, la sentenza sarà forse annullata, ma intanto il lavoratore verrà reintegrato e risarcito. L’effetto complessivo non sarà comunque una maggiore flessibilità del nostro tessuto produttivo, neppure là dove contratti di questo genere verranno stipulati, ma soltanto un fattore di maggiore complessità e imprevedibilità del nostro sistema.
            La realtà è che riforme così ambiziosamente incisive non possono essere oggetto di una delega in bianco alla contrattazione aziendale. Occorre un disegno organico equilibrato; e soprattutto un legislatore che se ne assuma la responsabilità in prima persona. Se la maggioranza, come è auspicabile, ci ripensa, c’è ancora tempo per avviare la sperimentazione di una riforma di questa stessa materia molto più equilibrata ed effettivamente utile per la crescita del Paese.

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