UN AVVOCATO DEMOCRATICO PUÒ DIFENDERE UN’AZIENDA CHE LICENZIA?

LA MIA RISPOSTA AL QUESITO ETICO-POLITICO POSTO DA UNA GIOVANE PRATICANTE

Lettera pervenuta il 22 agosto 2011 – Segue la mia risposta

Buongiorno, professor Ichino. Leggo da un paio d’anni, assiduamente, il Suo sito internet e ho deciso in questi giorni di scriverLe per esprimerLe tutta la mia stima e gratitudine per il modo in cui sa comunicare con i lettori, così chiaro e diretto. Le dico queste cose sia da neo-iscritta al PD, sia da neo-laureata in giurisprudenza che da anni coltiva una forte passione per il diritto del lavoro; passione cresciuta durante gli anni dell’università, in cui ero anche lavoratrice dipendente.
Ora, dopo alcuni mesi di riflessione e di pratica forense in campo civile, ho deciso di seguire la mia passione e di provare a dedicarmi al diritto del lavoro. In effetti mi si sono aperte varie strade, ho fatto vari colloqui in Studi Legali, un colloquio di pre-selezione per un dottorato ed uno di selezione in un’azienda per uno stage nell’ufficio relazioni industriali, non resterrebbe che decidere cosa fare e sperare che la cosa vada poi in porto.
Ho però un quesito preliminare da risolvere. In alcuni dei colloqui che ho sostenuto mi è stato chiesto se voglio praticare il diritto del lavoro da parte datoriale oppure dalla parte dei lavoratori, al colloquio per lo stage in azienda mi hanno chiarito che nell’ufficio dove avrei dovuto lavorare avrei dovuto occuparmi di licenziamenti e di conseguenza mi hanno chiesto se sarei disposta ad occupare un posto così scomodo, ho sostenuto il colloquio per il dottorato con un professore che esercita funzioni di consigliere dell’attuale Ministro del Lavoro. Mi sembra che le scelte a cui mi trovo di fronte, apparentemente legate solo ad alternative dal punto di vista occupazionale, celino anche scelte di vita ed addirittura scelte politiche, e ho paura che la mia inesperienza mi porti ad allontanarmi da quelli che sono i miei sogni ed a cambiare del tutto anche la mia forma mentis. Mi chiedo quindi (e Le chiedo) se in questa fase della mia vita sia giusto farsi guidare da convinzioni ideologiche o politiche. Capisco di dovermi concentrare solo sulle mie necessità di formazione, ma le direzioni sono forse troppe.
Mi scuso se Le ho mandato una mail così personale da essere forse fuori luogo, la colpa è del tono così confidenziale che usa sul Suo sito e che mi ha invogliato a questo sfogo con uno fra i professori e fra gli uomini politici italiani che attualmente stimo di più e in cui più ripongo la mia fiducia. Con i migliori saluti
G.T.

A me sembra sbagliata l’idea che il licenziamento sia di per sé un’ingiustizia, o comunque un atto normalmente riprovevole. Anche in un ordinamento come quello italiano, che prevede la protezione della stabilità del rapporto di lavoro più forte rispetto a qualsiasi altro Paese dell’Occidente industrializzato, il licenziamento è pur sempre ammesso come negozio legittimo, a determinate condizioni. E francamente non vedo perché il datore di lavoro che si avvalga correttamente di questa possibilità, rispettando i limiti assai stretti posti da una delle leggi più severe del mondo, debba essere considerato a priori colpevole e non meritevole di assistenza giudiziale.
Nella mia quasi quarantennale esperienza forense, per dieci anni svolta presso la Camera del Lavoro di Milano, svolta comunque sempre applicando un rigoroso criterio selettivo riguardo alla qualità delle cause da difendere, mi è accaduto di rifiutare assistenza giudiziale non soltanto a datori di lavoro, ma anche a lavoratori il cui comportamento mi è parso gravemente scorretto (avrei comunque offerto la mia assistenza in giudizio anche a ciascuno di questi, in una situazione in cui nessun altro avvocato fosse stato disponibile a farlo). Vero è che può essere un’esigenza eminentemente tecnica a consigliare all’avvocato che assiste normalmente i lavoratori di non assistere anche le aziende, o viceversa, per non rischiare di trovarsi a sostenere in una causa orientamenti dottrinali o giurisprudenziali avversati in altre cause analoghe (questo lo esporrebbe al rischio di vedersi citare dall’avversario i suoi stessi scritti difensivi prodotti altrove); ma si tratta, appunto di un’esigenza tecnica, non di un ostacolo di carattere etico o comunque deontologico. L’avvocato maturo costruisce la propria figura professionale anche tenendo conto di questa esigenza tecnica e selezionando i propri clienti di conseguenza; ma, così come conosco numerosi avvocati giuslavoristi schierati politicamente a destra che difendono prevalentemente o esclusivamente i lavoratori, sovente in collaborazione con uno o più sindacati di categoria, così ne conosco numerosi schierati politicamente a sinistra, che assistono prevalentemente o esclusivamente le aziende. Certo, un/a praticante o giovane avvocato/a non può avere la stessa libertà di un avvocato maturo nella selezione dei propri incarichi professionali; ma il suo primo diritto/dovere oggi è farsi le ossa, per conquistarsi al più presto quella libertà professionale. Se posso dare un consiglio alla giovane praticante che mi ha scritto questa lettera, nella scelta dello studio o azienda dove fare pratica non applicherei il criterio “dalla parte del datore/dalla parte del prestatore”, ma soltanto quello della serietà professionale e dell’opportunità di apprendere al meglio la professione.   (p.i.)

 

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