PROVIAMO A ELIMINARE QUEL “CIOE””

 

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Segue la mia Risposta, pubblicata dal Foglio il 7 febbraio 2009

 

Caro Direttore,

leggo sul Foglio del 5 febbraio una nota non firmata (intitolata “Meglio più contratti”) sul disegno di legge cui sto lavorando, mirato al superamento del dualismo protetti/precari nel mercato del lavoro e alla “transizione a un sistema di flexsecurity”. L’autore della nota muove a questo progetto cinque critiche, alle quali cerco qui di rispondere puntualmente.

           1. Il progetto dimenticherebbe che “l’alternativa al cosiddetto precariato, cioè al lavoro flessibile, è spesso la disoccupazione e l’inefficienza delle imprese”. Ora, la logica in cui l’intera riforma si colloca consiste proprio nell’eliminare quel “cioè”: realizzare un sistema capace di coniugare la massima possibile flessibilità per le imprese con la massima possibile sicurezza per i lavoratori. Come? Così: tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza economica dall’impresa d’ora in poi vengono assunti a tempo indeterminato, ma la loro sicurezza non è data dall’ingessamento del loro rapporto di lavoro, bensì da un sistema ispirato al modello scandinavo, che punta soprattutto al sostegno e assistenza intensiva nel mercato ai lavoratori coinvolti in processi di aggiustamento industriale (per i dettagli devo rinviare al mio sito: www.pietroichino.it).

2. Il progetto comporterebbe “una rilevante riduzione di tutela per i 15 milioni di lavoratori dipendenti”. Non è così: il nuovo regime è destinato ad applicarsi soltanto a chi viene assunto dopo l’entrata in vigore della riforma. A questi new entrants, poi, la riforma non offre affatto una “riduzione di tutela”, ma l’applicazione di un sistema di protezione “alla danese”: un sistema comunemente considerato, su scala mondiale, come quello che dà ai più deboli il livello massimo di sicurezza.

3. Il progetto toglierebbe alle imprese “il diritto di sperimentare i lavoratori” prima di stabilizzarli. È vero il contrario: la riforma prevede infatti un periodo di prova fino a sei mesi e, dopo la sua scadenza, una possibilità di licenziamento con costi per l’impresa crescenti nel tempo. Costi, quindi, relativamente bassi nella fase iniziale.

4. Il progetto impedirebbe “il lavoro flessibile di giovani, anziani e persone che cercano un secondo lavoro o che non vogliono il posto fisso”; e danneggerebbe “milioni di autonomi ‑ liberi professionisti, commercianti, artigiani – che potrebbero desiderare di rimanere indipendenti”. Non è così: il nuovo regime esclude espressamente dal proprio campo di applicazione gli iscritti agli albi e ordini professionali; esso, inoltre, è destinato ad applicarsi soltanto a chi trae dal singolo rapporto più di metà del proprio reddito di lavoro (essendo così definita la posizione di “dipendenza economica”); il secondo lavoro, per definizione, non ne è toccato, così come non ne sono toccati, ovviamente, imprenditori e piccoli esercenti.

5. “Il mercato odia le semplificazioni e i modelli unici”: odierebbe dunque anche questo nuovo “contratto unico di lavoro”. Qui concordo; proprio per questo il progetto non prevede affatto un “contratto unico” – espressione che preferisco non utilizzare mai, appunto per evitare questo equivoco – ma soltanto uno standard di sicurezza minimo universale, applicabile a tutti i molti tipi di contratto, dal full time al part-time, dal job sharing al lavoro in staff leasing, dall’apprendistato al telelavoro, e chi più ne ha più ne metta. 

La ringrazio per l’ospitalità, e anche per l’attenzione – sia pure forse non perfettamente informata ‑ dedicatami dall’ignoto articolista. 

 

 

 

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