UN LETTORE MI CHIEDE QUANDO VERRÀ DAVVERO LA STAGIONE DELLE RIFORME DI CUI L’ITALIA HA UN BISOGNO DRAMMATICAMENTE URGENTE
Messaggio pervenuto il 27 luglio 2011
Gentile Professor Ichino buon giorno,
il mio nome è Zeni Giacomo, e, per correttezza e trasparenza Le dico anche che sono un elettore del Centrodestra.
La seguo da sempre con grande stima e ammirazione (mia era la lettera con cui la esortavo ad accettare l’incarico di ministro con il centrodestra alla quale ha pubblicamente risposto).
Ho appena finito di leggere il suo libro A che cosa serve il sindacato che ho trovato molto interessante, semplice, ma, soprattutto, di una forza dirompente per i suoi contenuti che possono essere applicati senza investimenti strutturali, ma solo con il semplice cambiamento del modo di pensare, la prospettiva, che da conflittuale dovrebbe passare a
cooperativistica. Complimenti ancora.
Man mano che proseguivo nella lettura, però, sempre più forte mi è ritornato in mente uno scritto del Professor Federico Caffè, economista, dal titolo La solitudine del riformista.
Per questo vorrei chiederLe come fa Lei, con queste idee innovatrici e sane, a sentirsi rifiutato, deriso da quelle stesse persone che, invece dovrebbero ascoltarla, innovare per migliorare questo Paese ormai sull’orlo di un fallimento politico, sociale ed economico, e, nonostante tutto, lottare ancora?
Ecco alcuni passaggi di quello scritto che trovo si addicano molto a Lei (come a tanti altri riformisti senza voce): “Il riformista è ben consapevole d’essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo.”
“La derisione è giustificata, in quanto il riformista, in fondo, non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge.”
“Egli è tuttavia convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un «sistema», di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del «sistema».”
“Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose.”
“Persino Quintino Sella, allorché propose al Parlamento italiano l’istituzione delle Casse di risparmio postali, incontrò l’opposizione di chi ritenne il provvedimento come pregiudizievole alla libera iniziativa di consapevoli cittadini che, per capacità proprie, avrebbero continuato a dar vita a un movimento associazionistico nel campo del credito.
Venne obiettato al Sella che «vi sono due modi di amare la libertà; (…) Vi è il modo nostro; amarla di vero affetto, per sé, per il bene che genera e permette ai nostri concittadini, considerarla, studiarla, renderla quanto più si possa benefica; (…) Vi è poi un altro modo; e consiste nel professare a parole un amore sviscerato verso la libertà, e domandarle un abbraccio per poterla comodamente strozzare».” F. Ferrara, Discorsi e documenti parlamentari (1867-1875), in Opere complete, vol. 9 (a cura di F. Caffè, Istituto grafico tiberino, Roma, 1972, pp. 307 sg).
“… il riformista ha finito col rendersi conto che si pretendeva da lui qualcosa di simile a quello che si chiede a un pappagallo tenuto in gabbia, dal quale, con la guida di una bacchetta, si cerca di ottenere che scelga, con il suo becco, uno dei variopinti manifestini che si trovano in un apposito ripiano della gabbia.”
Ora, caro Professore, Le chiedo: “Quando potremo avere un’Italia in cui i riformisti veri come Lei potranno avere mano libera, liberi cioè di operare senza doversi scontrare con tutti quei burocrati (che si chiamino partiti politici, associazioni, lobby, caste, salotti buoni, centri di potere ecc.), che, come le sanguisughe, stanno devastando con il loro immobilismo (nei fatti, ma mai nelle parole) la nostra Nazione, per la quale “professano un amore sviscerato, la abbracciano per poi poterla strozzare”?
Quando Professore? Quando?
Con la solita, immutata, stima
Giacomo Zeni
Fin dalla mia prima esperienza parlamentare (1979-1983) ho capito che il mestiere dello studioso e quello dell’opinionista sono inevitabilmente diversi dal mestiere del politico. Ai primi due si chiede di dire sempre fino in fondo quello che pensano, il frutto dei loro studi e indagini, senza preoccuparsi di dire cose impopolari; il politico, invece deve cercare il consenso e ne ha bisogno a breve termine: deve – certo – proporsi di convincere la maggioranza dei cittadini di ciò che egli ritiene essere vero e giusto, ma se vuol essere buon politico deve dosare il suo discorso sulla possibilità di ottenere sul proprio discorso il consenso entro la prossima consultazione elettorale (richiamo in proposito la discussione su ragion politica, ragione etica e ragione intellettuale). Ciò che vorrebbe il mittente di questo messaggio è il verificarsi di quella situazione fortunata nella quale lo studioso/opinionista riesce a raccogliere subito un consenso maggioritario sulle proprie tesi; ma questo accade assai di rado. È pur vero, però, che anche il buon politico ha bisogno dello studioso e dell’opinionista, capaci di guardare un po’ più lontano, per costruire insieme ad essi almeno un ponte tra il consenso di oggi e quello di domani. Proprio questo è ciò che mi ha legato al mondo politico nei venticinque anni seguiti a quella prima esperienza parlamentare di cui ho fatto cenno sopra: il tentativo di costruire quel ponte tra la cultura presente del movimento operaio e sindacale italiano e i suoi approdi futuri, prevedibili soprattutto sulla base della comparazione con i Paesi più avanzati del nostro; l’impegno a favorire la caduta delle incrostazioni ideologiche e la maturazione di una cultura moderna del mercato del lavoro e della protezione della sicurezza dei lavoratori. La mia impressione – e spero con questo di dare una buona notizia al mittente del messaggio ‑ è comunque che i tempi di questa maturazione abbiano subito una brusca accelerazione. Le idee sulla riforma necessaria dei servizi nel mercato del lavoro (necessità dell’apertura alle agenzie private di collocamento e di lavoro temporaneo, una concezione nuova della formazione professionale) contenute nel mio libro del 1982 Il collocamento impossibile si sono in larga parte realizzate con le leggi Treu del 1997: 15 anni dopo. Gli elementi essenziali della riforma del sistema delle relazioni industriali delineata nel mio libro del 2005 A che cosa serve il sindacato, cioè lo spostamento netto del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro e l’allargamento degli spazi per la scommessa comune tra lavoratori e imprenditore su piani industriali fortemente innovativi, hanno sorprendentemente incominciato a essere recepiti e attuati con l’accordo interconfederale stipulato da tutte le confederazioni maggiori il 28 giugno scorso: qui sono bastati sei anni. E, a giudicare dalla diffusione del consenso che – dal mio modesto osservatorio – mi è dato percepire, ne basteranno anche meno perché si avvii almeno la sperimentazione del progetto flexsecurity che ho presentato in Parlamento nel 2009. Certo, in Italia i tempi di maturazione delle idee nuove in materia di lavoro e relazioni industriali, negli ultimi sessant’anni, sono stati assai più lunghi rispetto agli altri grandi Paesi europei; ma stiamo recuperando il ritardo. E il compito del costruttore solitario di ponti, anche se talvolta gli tocca ancora di dover girare con la scorta, oggi è più facile di quanto lo sia stato in passato. (p.i.)
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