LA QUESTIONE DI CHI PAGA IL COSTO DELLA SICUREZZA DEL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO E QUELLA DELLA DIFFERENZA DI TRATTAMENTO A VANTAGGIO DELLE IMPRESE PIÙ PICCOLE
Scambio di messaggi intercorso fra il 22 e il 23 luglio 2011 – I disegni di legge, le relative schede sintetiche di presentazione e il dibattito in proposito sono agevolmente accessibili attraverso il Portale della Semplificazione e della Flexsecurity
MIO MESSAGGIO A ROGER ABRAVANEL, 22 LUGLIO 2011
Caro Abravanel,
ho ascoltato con molto interesse il Suo colloquio con Daniele Manca trasmesso oggi sul sito Corriere.it e La ringrazio per l’attenzione dedicata al mio “progetto flexsecurity” (d.d.l. n. 1481/2009 e n. 1873/2009). Riguardo alla Sua osservazione secondo cui occorrerebbe chiarire “chi paga” per la sicurezza del lavoratore nel mercato, mi permetto di segnalarLe che il progetto non prevede alcun onere a carico dell’Erario: il trattamento complementare di disoccupazione dovrebbe essere posto interamente a carico dell’impresa che licenzia, con un onere pari al 10% dell’ultima retribuzione per il primo anno (perché in questo primo anno l’Inps già paga l’80%), che sale all’80% per il secondo anno e al 70% per il terzo anno. Si determina così un forte incentivo affinché l’impresa investa fin dall’inizio su di un buon servizio di outplacement, in modo da ricollocare il lavoratore licenziato entro il primo anno dal licenziamento.
L’idea è che questo onere aggiuntivo per le imprese sia ampiamente compensato dall’esenzione totale dal controllo giudiziale sul licenziamento per motivo economico, organizzativo o sostitutivo, di cui esse godranno per effetto della riforma.
L’intero progetto è sintetizzato (con l’aggiunta di alcune tabelle relative ai costi del licenziamento, a seconda dell’anzianità del lavoratore) nella quarta parte della presentazione che si può scaricare mediante questo link.
Mi scuso per la lunghezza di questo messaggio e La saluto molto cordialmente
Pietro Ichino
LA RISPOSTA DI ROGER ABRAVANEL, 23 LUGLIO 2011
Caro professore,
La ringrazio per il commento. Credo che la sua proposta abbia un gran senso per le grandi imprese che possono programmare e assorbire i rischi e i costi di una ristrutturazione distribuendoli su una popolazione di lavoratori abbastanza omogenea nelle diverse fasce di anzianità.
La domanda di fondo è se per le piccole imprese questi rischi non siano troppo grandi e l’adozione di queste regole non finisca per spingerle ancora di più nel sommerso. Oppure se non vengano adottate “eccezioni”, come l’articolo 18 che si applica dai 15 dipendenti in su, che si traducano in un ulteriore incentivo a restare piccole, oltre a quelli già presenti nella nostra legislazione, nella tolleranza del sommerso e nella cultura famigliare del piccolo e bello.
Io la penso in un altro modo. Credo che sia essenziale spostare allo stato tutte le protezioni della disoccupazione che oggi sono a carico delle imprese medio grandi (per i lavoratori “protetti”) e delle famiglie (per i non “protetti”, precari, in nero, dipendenti della piccola impresa), creando un contratto unico. Secondo i modelli scandinavi. Volendo inoltre flessibilizzare al massimo anche i salari per regolarizzare le numerose posizioni low skills oggi in nero e aumentare l’occupazione, credo sarebbe utile considerare la riduzione del salario minimo e compensarlo con una irpef negativa come nel mondo anglosassone.
A questo punto si pone il tema di come finanziare il tutto a breve, perchè si può contare sulla crescita che compensi questo costo per lo stato solo nel medio termine. Qui, purtroppo non restano che ulteriori sforzi sulle pensioni eventualmente anche quelle in essere. Mentre a lungo termine questo costo potrà essere compensato dalle tasse dei posti di lavoro creati e dalla emersione dal sommerso.
Come ho detto nella rubrica del Corriere non è più il tempo di mezze misure, l’attacco al “piccolo e bello” deve essere sferrato duramente anche con le giuste regole nei microsettori di servizio che proteggono il piccolo nelle professioni, assicurazioni, rifiuti ecc.
L’Italia ricomincerà a crescere non quando tutte le sue piccole imprese cresceranno, ma quando il 30% dei posti di lavoro saranno in medie grandi imprese.
Metto in copia a questa mia, alcuni miei miei ex colleghi di Mckinsey, Tito Boeri e Irene Tinagli, con cui ragiono di questi temi da tempo.
A settembre mi piacerebbe riprendere il dibattito magari facendoci ospitare da Daniele Manca nella rubrica Merito e Regole. Grazie e buone vacanze.
Roger Abravanel
LA MIA REPLICA, 23 LUGLIO 2011
Le rispondo molto rapidamente che in uno dei due disegni di legge in cui ho concretato il progetto (n. 1481/2009) prevedo:
a) l’applicabilità del nuovo regime anche alle imprese cui oggi non si applica l’articolo 18;
b) che il firing cost medio per le imprese cui oggi non si applica l’articolo 18 sia posto a carico dell’Erario mediante uno sgravio contributivo pari allo 0,5% del monte salari complessivo (secondo le simulazioni del Dipartimento di Studi del Lavoro dell’Università di Milano questa percentuale corrisponde appunto al costo medio, nell’ipotesi assai prudenziale di un turnover del 5% annuo di cui metà imputabile a licenziamento e di un unemployment spell medio di 6 mesi); il costo erariale sarebbe all’incirca di 500 milioni annui.
L’idea è che, quando le finanze statali lo consentiranno, sarà possibile una progressiva estensione dello sgravio contributivo anche alle imprese di dimensioni maggiori, in modo da eliminare gradualmente l’attuale potente incentivo al nanismo costituito dall’articolo 18. Cordialmente
Pietro Ichino