DECADENZA CULTURALE E DECLINO DELLA DIRIGENZA PUBBLICA

“ULTIMO APPELLO DIRETTO A CHI ANCORA HA A CUORE LE SORTI DI UN DICASTERO DEDICATO ALLA CULTURA, CHE CULTURA NON FA”

Lettera aperta al Governo della dottoressa Marina Panetta, Dirigente del ministero dei Beni culturali, pervenuta l’8 luglio 2011 – In argomento rinvio ai documenti e interventi reperibili al Portale della Trasparenza e della valutazione nelle amministrazioni pubbliche

Quando iniziai la mia carriera dirigenziale, nel lontano 2000, i dirigenti dei Beni Culturali conservavano qualche barlume di quel prestigio tradizionale – fatto di studio e di una sia pur minima educazione civica e comportamentale – che con dispiacere abbiamo visto declinare fino a oggi.
Ci si chiede: come è potuto avvenire che il dirigente di un’istituzione culturale – un museo, una biblioteca, un sito archeologico, ecc – che dovrebbe incarnare con la sua personalità, con la sua attività di studioso, con tutto il suo complesso spirituale e fisico – la dignità del patrimonio che amministra, sia  tanto scaduto?
Le cause sono da ricercarsi nel degrado sociale in cui siamo immersi e che ha le sue radici nel permissivismo e nel livellamento verso il basso (degli studi e del reclutamento della classe impiegatizia e dirigenziale) promosso dalla Prima Repubblica per timore dello scontro sociale; e non starebbe a me aggiungere nulla a quanto denunciato da sociologi e opinionisti che, soprattutto negli ultimi mesi, hanno invocato la decenza e l’onestà in nome e per conto della società civile. In sostanza, come è stato da altri richiamato, la causa è da ricercarsi nel fatto che alla PA hanno dato i loro figli migliori le famiglie borghesi fino agli anni ’70, e hanno continuato anche dopo, solo che non era più la stessa borghesia, ma una post-borghesia, o meglio un post-proletariato inurbato e scolarizzato nel dopoguerra.
Di conseguenza è stato reso più facile sia l’accesso agli studi superiori sia l’ingresso nel mondo del lavoro, segnatamente nel terziario, che in quegli anni era in gran parte rappresentato da Stato e parastato.
Questo è un ultimo appello diretto a chi ancora avesse a cuore le sorti di un dicastero dedicato alla cultura, che cultura non fa.
Delle sedi declassate e del declassamento generale.
Con la riforma del 2009 si sono ridotte le Direzioni di seconda per creare la Direzione generale per la valorizzazione, senza che nessun esponente dell’alta cultura – alludo a coloro che sono stati sempre pronti a lamentare i minimi malfunzionamenti – facesse un gemito. Con gli ultimi concorsi e con le relative assegnazioni di sede si è decapitata la dirigenza formata dai funzionari di lunga carriera – che con tutte le loro manchevolezze erano rappresentativi almeno dei loro istituti –  per favorire le fulminee carriere di personaggi entrati dalla porta di servizio, avanzati per automatismi, miracolati dalle retrocessioni e accreditati quali esperti soprattutto nel rendere gli istituti redditizi per alcuni vertici chiaramente collusi e decisi a spremere le ultime risorse facendone derivare benefits per sé e per i propri “amici”.
Da manager culturale, a partire dagli anni ’80,  il dirigente del MiBAC è diventato una specie di ragioniere, esperto nella spunta delle bollette e nella ricerca di espedienti per pagarle, quando per fare tutto ciò in una intera Direzione regionale basterebbe uno studio di commercialista. Di converso il medesimo spesso è ostacolato nella sua politica culturale da rappresentanti sindacali che fraintendono la Ronchey e utilizzano le concessioni di spazi per manifestazioni unicamente per favorire i propri iscritti. Animati da invidia sociale verso il dirigente, non gli riconoscono autorità intellettuale e sono sempre pronti ad agitare la minaccia dell’art. 28 per bloccare qualunque tentativo di innovazione nell’organizzazione del lavoro, dimenticando che l’art. 28 comma 1 dello Statuto dei lavoratori difende  e tutela le libertà sindacali ma non autorizza  ad essere nullafacenti coloro che il sindacato protegge.
Paradossalmente a uscire rafforzati dalla Riforma Brunetta sono stati i dirigenti sopravvissuti alla ristrutturazione del Ministero, che potrebbero avere qualche problema dai sindacati solo se questi li tallonassero seriamente sul buon funzionamento delle strutture, sui risultati e sull’eventuale e conseguente danno erariale in caso di cattiva amministrazione. Ma per far ciò i dirigenti sindacali dovrebbero finalmente cambiare. Ma lo vorranno? Tutto lascia prevedere che sceglieranno di osteggiare i pochi dirigenti scomodi e continueranno ad appoggiare i più accomodanti. Non lo dico io, ma l’ARAN, che pochi anni fa ha tenuto delle giornate di formazione per dirigenti pubblici e dirigenti sindacali nelle quali si dimostrava che nella PA non esisteva una parte datoriale e una parte sindacale ma che le due figure pensavano solo a farsi reciproci “favori”.
Di fatto, a causa dello scadimento etico generale e di un eccesso di protezionismo, a tutt’oggi il dirigente non può ottenere la collaborazione di un sottoposto invocando il dovere, ma solo eventualmente un piccolo aiuto non disinteressato se riesce a conquistarsi la sua simpatia. Il dirigente è pertanto demansionato perché deve espletare da sé pratiche che il collaboratore decide di non dovere o volere svolgere. Non può ovviamente, verificare le sue condizioni di salute, quando vengano addotte per evitare lavori poco graditi; e non può non dico far licenziare un elemento che gli rema contro, ma almeno farlo trasferire ad un altro ufficio equipollente del territorio. Io aggiungo che non può nemmeno spostarlo dalla propria segreteria a una stanza più defilata della stessa sede senza essere denunciato per comportamento antisindacale. La nequizia amministrativa dei vertici (dove direzioni generali e sindacati si amano teneramente pur fingendo di combattersi in periferia) ai danni del dirigente scomodo e isolato, si spinge fino all’annullamento delle note di biasimo e alla predisposizione di ispezioni accomodanti.
Queste considerazioni si riferiscono a tutto il sistema manageriale della PA, ma poiché chi scrive ha fatto le proprie esperienze nel settore dei Beni Culturali, ritiene che le manchevolezze siano più gravi là dove si richiederebbe l’eccellenza del sapere e della condotta. Non si crederebbe, ma è cosa assolutamente normale che i funzionari non sappiano catalogare i propri fondi, conoscano poco e male le lingue morte e ancor meno quelle straniere indispensabili per padroneggiare la letteratura professionale, e non siano capaci di scrivere una lettera burocratica senza errori. Come ci si può meravigliare se poi la produzione scientifica è inesistente o risibile, e la promozione culturale resta a un livello parrocchiale? E, cosa ancor più grave, tra costoro vengono scelti i sostituti dei dirigenti.
Chi governa i beni Culturali in Italia dovrebbe ricordare che prepone ai musei, biblioteche, ecc. persone che prenderanno posti che sono stati ricoperti da gente come Muratori, Paciaudi, Audiffredi, Winkelmann… Fa un certo effetto, di converso, leggere sul sito del MiBAC certi nomi di Direttori o Pseudo-Direttori di fresca nomina. Intendo per Pseudo-Direttori i direttivi miracolati dalle retrocessioni, che si sono ritrovati a Dirigere istituti che sono stati declassati non perché non valevano, ma perché non dovevano più crescere: e difatti non cresceranno.
Conclusione
La vicenda che ho raccontato non è un caso isolato, ma comincia a essere un trend che spiega come un dirigente onesto possa decidersi per la pensione anticipata. Solo se si capisce il travaglio interiore dei pochi dirigenti validi che vengono additati all’odio del personale, con l’avallo di alcuni dirigenti superiori e dei vertici sindacali, perché il comportamento onesto spiazza e scompagina l’andazzo rovinoso del servizio pubblico, si arriva a capire il seguente paradosso: non chi danneggia ma chi pone riparo diventa la vittima sacrificale. In passato, i dirigenti migliori venivano incoraggiati e riconosciuti da una morale collettiva centrata sul comportamento ineccepibile. Adesso chi non si spalma sul malfunzionamento “non è dei nostri”. Il risultato è che un elemento sano diventa controproducente e inefficiente per coloro che sull’inefficienza fanno carriera.
Se non si dà presto un segnale forte, in futuro, ammesso e non concesso che si trovino ancora dei dirigenti onesti e preparati da preporre  ad un istituto, non si troveranno più dei funzionari onesti e coscienziosi disposti a supportarli.
Nessun paese si risolleva se non ha una buona classe dirigente. Questo è tanto evidente per le dittature quanto disatteso dai sistemi democratici. Infatti le prime si preoccupano di creare una nuova élite in cui arruolano i migliori cervelli, mentre la democrazia egualitaria tende e deprimere il merito per garantirsi il favore dell’elettorato.
Marina Panetta

Scelgo per la pubblicazione on line questa tra le numerosissime lettere di denuncia che mi giungono da ogni parte del comparto pubblico, anche perché considero la riqualificazione del ruolo dirigenziale come passaggio cruciale per la riqualificazione delle amministrazioni. Ai dirigenti devono essere fissati obiettivi specifici, misurabili, ragionevoli e ripetibili, collegati a tempi precisi; questi obiettivi devono essere conoscibili da chiunque; sulla base dei risultati, in riferimento a questi obiettivi, i dirigenti devono essere valutati e, in caso di grave inadempimento, anche rimossi (l’articolo 21 del testo unico sul pubblico impiego prevede anche la possibilità del licenziamento del dirigente per mancato raggiungimento degli obiettivi). Naturalmente, per poter realizzare gli obiettivi i dirigenti devono sapersi riappropriare delle proprie prerogative manageriali: anche su questa capacità essi devono essere giudicati. A tutto questo avrebbe dovuto essere orientato il nuovo sistema di trasparenza e valutazione istituito dalla legge Brunetta; ma purtroppo sappiamo come è andata a finire.   (p.i.)

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