RIFORMA ELETTORALE E BIPOLARISMO

L’INIZIATIVA REFERENDARIA VOLTA A TORNARE ALLA LEGGE ELETTORALE IN VIGORE FINO AL 2005 PUÒ AIUTARE AL SUPERAMENTO DELLA LEGGE ATTUALE – UN BIPOLARISMO VIRTUOSO POTRÀ COMUNQUE AFFERMARSI SOLO GRAZIE A UNA LEGGE ELETTORALE MIGLIORE

Articolo del Senatore Giorgio Tonini pubblicato sul Messaggero il 15 luglio 2011 – In argomento leggi anche l’intervento di Veltroni pubblicato su la Repubblica il 9 luglio 2011

Sul Messaggero di ieri, Stefano Cappellini definisce un “autogol” per il Partito democratico, la proposta avanzata da Castagnetti, Veltroni, Parisi e molti altri tra i quali io stesso, di promuovere un referendum per cancellare l’attuale legge elettorale (la famosa “porcata” di Calderoli) e far rivivere la legge Mattarella, quella che prevedeva l’elezione dei deputati e dei senatori nei collegi uninominali maggioritari. Cambiare si deve, conviene Cappellini, perché la legge attuale è un danno grave al paese, ma non a colpi di referendum, ma piuttosto con un organico pacchetto di riforme elettorali e costituzionali da approvare in Parlamento. E comunque non nella direzione di un rafforzamento del maggioritario, che ci ha regalato il bipolarismo forzoso delle coalizioni sterminate ed eterogenee, pensate per vincere, ma poi incapaci di governare. Si capisce, conclude Cappellini, che Berlusconi voglia andare avanti lungo una strada che lo ha fatto vincere tre volte, non si capisce perché il PD dovrebbe seguirlo.

È certo difficile negare che sarebbe molto meglio una bella riforma organica e largamente condivisa in Parlamento, piuttosto che una riforma parziale, oltretutto attraverso la perigliosa via del referendum abrogativo. Nei fatti però, dire questo equivale oggi a rassegnarsi ad andare a votare, per la terza volta, nel 2012 o nel 2013, con la legge attuale. Per cambiarla in Parlamento, è infatti necessario che almeno uno dei due maggiori partiti di governo, il Pdl o la Lega, cambi idea, abbandoni la difesa ad oltranza della legge Calderoli, ribadita pochi giorni fa da Berlusconi, e si dichiari interessato a convergere con le opposizioni su una nuova legge elettorale. Mai mettere limiti alla divina provvidenza, ma siamo appunto nel campo della fede, più che in quello della ragione.

Solo un’alleanza tra chi vuole cambiare la legge elettorale in parlamento e chi la vuole cambiare nel paese può darci almeno la speranza di riuscirci: e per quanti sforzi di fantasia si possano fare, è difficile pensare, per realizzare questa alleanza in tempi utili, a uno strumento diverso dal referendum.

Il problema è semmai quale referendum, per andare dove. Cappellini omette infatti di ricordare che prima della nostra, è stata depositata in Cassazione un’altra proposta, anch’essa finalizzata a modificare la legge Calderoli, ma nel senso opposto: eliminando il premio di maggioranza, si propone di tornare al proporzionale puro, quello per intenderci della Prima Repubblica, quando ogni partito si presentava per conto suo e i governi si facevano e disfacevano in parlamento, al ritmo di uno ogni sei mesi. Pensarla come il professore ed ex-collega senatore Stefano Passigli, promotore di questa prima proposta, è certamente legittimo, ma non pare convincente: immaginare cosa accadrebbe in Parlamento il giorno dopo elezioni dalle quali non potrebbe uscire alcun vincitore e quindi alcuna indicazione sul governo, almeno a me fa accapponare la pelle.

In ogni caso, se c’è in campo un referendum che propone agli italiani di cambiare la legge Calderoli in senso ancora più proporzionale, non può non esserci anche la proposta di uscire dalla legge porcata nella direzione opposta, quella che ripristinando la legge Mattarella, affida ai cittadini il potere di decidere sul governo e insieme, grazie al collegio uninominale, ristabilisce un rapporto forte tra i parlamentari e i territorio.

Il problema, obietta Cappellini è che il bipolarismo, il maggioritario all’italiana, non ci ha dato una moderna democrazia dell’alternanza, ma uno scontro primitivo tra coalizioni incapaci di governare perché frutto dell’incontro tra forze eterogenee, con quelle più estreme poste nella condizione di ricattare quelle più grandi e responsabili. Si tratta di una obiezione seria e fondata, alla quale tuttavia, a mio modo di vedere, si può e si deve rispondere lavorando a un bipolarismo virtuoso, di stampo europeo, non gettando il bambino del maggioritario insieme all’acqua sporca del populismo berlusconiano: quel populismo che, non per caso, sette anni fa, decise di cancellare il maggioritario di collegio, che saldava la scelta del governo da parte dei cittadini con il radicamento territoriale dei parlamentari, e di accomodarsi nell’abito, tagliato su misura, della legge porcata.

Un bipolarismo virtuoso potrà affermarsi, certamente, grazie a una legge elettorale migliore: e la legge Mattarella, che pure ha i suoi difetti, è certamente di gran lunga migliore di quella vigente o di quella che risulterebbe dal referendum Passigli. Ma si affermerà anche e soprattutto nel paziente lavoro di costruzione di partiti pensati per il maggioritario, come il PD. Un partito che è nato per raccogliere e organizzare forze diverse, attorno a una visione comune del futuro del paese, a un programma di governo all’altezza delle sfide tremende del nostro tempo e a una leadership e, più in generale, a una classe dirigente (sindaci, governatori, parlamentari) selezionata con metodi realmente democratici, a cominciare dalle primarie. La strada che il PD deve fare per diventare davvero quel che si è proposto di essere è certamente ancora lunga. Ma è quella che ha davanti agli occhi, non quella che si è lasciata alle spalle.

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